Contenzioso

Tutele sociali «esportabili» per gli inglesi, almeno fino alla Brexit

di Andrea Costa

La sentenza del 1° febbraio 2017 della Corte di giustizia nella causa C-430/15 rappresenta, in questo particolare periodo storico, un'occasione importante per rivisitare in chiave critica il processo della Brexit in atto, con particolare riferimento alle tutele sociali dei lavoratori e dei pensionati all'estero.

Difatti, sino al momento della fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione europea e nel rispetto delle procedure previste dall'articolo 50 del trattato sull'Unione europea, il diritto eurounitario continuerà a trovare piena applicazione e, con esso, le decisioni della Corte di giustizia alle quali le Corti nazionali dovranno continuare, volenti o nolenti, a conformarsi.

Il caso specifico riguarda una controversia tra il Secretary of State for Work and Pension britannico e una cittadina britannica alla quale era stato dapprima riconosciuto il diritto alla disability living allowance – prestazione a carattere non contributivo accordata alle persone con disabilità per provvedere alle spese supplementari richieste da taluni tipi di cure o dall'incapacità o quasi incapacità di camminare – e successivamente revocato in quanto, ai sensi dell'articolo 71, paragrafo 6, del Social Security Contributions and Benefit Act del 1992, aveva perso la residenza nel Regno Unito, trasferendola in Spagna.

All'epoca dei fatti la normativa di riferimento nel diritto dell'Unione era rappresentata dal regolamento 1408/71 (ora sostituito dal regolamento 883/2004), relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. Diversamente dall'armonizzazione, il coordinamento consente di rimuovere gli ostacoli alla libertà di circolazione delle persone nel rispetto delle peculiarità dei singoli ordinamenti nazionali, che restano liberi di individuare le prestazioni da erogare e le condizioni di accesso.

Per i giudici comunitari la circostanza che la legislazione locale subordini il beneficio dell'assegno ad un requisito di residenza e soggiorno si pone in contrasto con i principi fissati dal regolamento 1408/71 e, in particolare, con il principio fondamentale dell'esportabilità delle prestazioni.

Nello specifico, una volta qualificata la disability living allowance come prestazione di malattia ai sensi del regolamento 1408/71 e considerata la parte in causa un “lavoratore” ai sensi dell'articolo 1, lettera a, punto ii, del medesimo regolamento a prescindere dalla circostanza che la stessa abbia cessato definitivamente qualsiasi attività professionale, per i giudici della Corte l'articolo 22, paragrafo 1, lettera b, e paragrafo 2 del regolamento 1408/71 riconosce il diritto della cittadina britannica a conservare il diritto a percepire le relative prestazioni anche dopo aver trasferito la propria residenza in uno Stato membro diverso da quello competente, ovvero il Regno Unito, ma a condizione che a tal fine abbia ottenuto un'apposita autorizzazione che «non può essere rifiutata se non quando è accertato che lo spostamento dell'interessato è tale da compromettere il suo stato di salute o l'applicazione delle cure mediche».

Da quanto sin qui sinteticamente richiamato, risulta evidente il ruolo sociale della legislazione eurounitaria a tutela della libera circolazione delle persone, aspetto per il momento fortemente tutelato dalle istituzioni europee, ma che potrebbe venire meno se, all'esito dei negoziati previsti dall'articolo 50 del Tue, il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale dovesse venire meno. Particolarmente colpiti sarebbero i numerosi cittadini britannici che, per motivi economici e/o climatici, hanno scelto di passare gli anni di pensione negli Stati membri affacciati sul Mediterraneo, dunque proprio la classe di età che, compatta, ha votato pro Brexit.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©