Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Dirigenti non apicali e organizzazioni aziendali complesse
Demansionamento e prova del danno

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 24 novembre 2016, n. 24023

Pres. Napoletano; Rel. Patti; Ric. U. S.p.A.; Controric. L.U.L.M.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Condotta illecita extralavorativa - Rilievo disciplinare - Configurabilità - Onere della prova

L'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro è assolto dal datore con la specifica deduzione del fatto in sé, quando abbia un riflesso, anche soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative d'un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere civile comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con utenti.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte delinea la fattispecie della giusta causa di licenziamento, ricomprendendovi, a determinate condizioni, anche la condotta extralavorativa del lavoratore.

Nel caso di specie, un dipendente di un istituto di credito, con mansioni di operatore di sportello a contatto col pubblico, era stato licenziato per giusta causa a seguito della sua condanna alla pena di tre anni di reclusione e di Euro dodicimila di multa per detenzione e spaccio di rilevante quantità di sostanze stupefacenti del tipo marijuana: segnatamente, oltre un chilogrammo, da cui potevano essere ricavate oltre tremila dosi medie, rinvenute, al momento dell'arresto, con una bilancia da cucina recante ancora residui di stupefacente ed unitamente ad un ingente importo di danaro in contanti.

Il Tribunale accoglieva il ricorso del lavoratore, dichiarando l'illegittimità del recesso. Analogamente si pronunziava la Corte territoriale la quale argomentava l'"ininfluenza" della condanna penale "non essendo risultato alcun collegamento concreto tra detta attività" di detenzione e spaccio e "quella lavorativa di addetto allo sportello, in ordine al suo (in)esatto adempimento".

Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, primieramente, l'"erronea esclusione dell'integrazione della giusta causa di licenziamento" per effetto del "comportamento extralavorativo" del dipendente, di gravità tale da eccedere gli standards conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella realtà sociale, in quanto contrario alle norme dell'etica e del vivere civile comuni, pertanto ripugnante alla coscienza sociale. Ciò tenuto anche conto che il fatto, accompagnato da grande clamore mediatico, appariva certamente idoneo - a parere della società datrice - alla rottura irrimediabile del vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.

Il Supremo Collegio accoglie il ricorso, rammentando, anzitutto, che, secondo indirizzo ormai consolidato, il concetto di giusta causa non si limita all'inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extralavorative che, tenute al di fuori dell'azienda e dell'orario di lavoro e non direttamente riguardanti l'esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d'un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività. Parimenti, comportamenti extralavorativi imputabili al lavoratore possono colpire interessi del datore di lavoro, violando obblighi di protezione: il lavoratore è tenuto, infatti, non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario. Principî, questi, che - evidenziano i Giudici di legittimità - hanno trovato puntuale applicazione proprio in ipotesi di detenzione a fini di spaccio, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti (cfr. Cass. 18 agosto 2016, n. 17166; Cass. 6 agosto 2015, n. 16524; Cass. 31 luglio 2015, n. 16268).

Tanto premesso - a parere della Cassazione - la specifica illustrazione del "fatto in sé" della detenzione e spaccio soddisfa pienamente l'onere datoriale di allegazione, nell'ambito del procedimento disciplinare, della sua incidenza irrimediabilmente lesiva del rapporto di fiducia lavorativo, "in quanto di gravità tale, anche per l'evidente sintomaticità di un collegamento non occasionale con ambienti malavitosi in grado di consegnare quantità tanto ingenti di stupefacente confidando nella puntualità di collocazione sul mercato e di pagamento, da connotare la figura morale del lavoratore" (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20319), tanto più se inserito in un ufficio a contatto con utenti (Cass. 23 agosto 2016, n. 17260), per giunta di servizi bancari.

Tanto premesso, la Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto: "l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro è assolto dal datore con la specifica deduzione del fatto in sé, quando abbia un riflesso, anche soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative d'un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere civile comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con utenti". 

 

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 2 novembre 2016, n. 22127

Pres. Nobile; Rel. Lorito; Ric. C.M.V.; Controric. M. S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Principio dell'immutabilità dei fatti contestati - Limiti - Non corrispondenza tra i fatti contestati e quelli posti alla base della sanzione - Vulnus al diritto di difesa del lavoratore - Rilevanza

In tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, ma solo nel caso in cui tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore, per essere intervenuta una sostanziale immutazione del fatto addebitato che si realizza quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto la legittimità di una sanzione disciplinare che sia irrogata sulla base di fatti divergenti rispetto a quelli inseriti nella contestazione disciplinare.

La società datrice di lavoro contestava al lavoratore due giorni di assenza ingiustificata dal lavoro e, contestualmente, gli chiedeva di giustificarsi nei termini di legge e di riprendere immediatamente il servizio. Con le seguenti giustificazioni il lavoratore affermava che i motivi della sua assenza erano da ricercare nelle vessazioni, a suo dire, perpetrate a suo danno dalla società.

Alcuni giorni dopo, perdurando l'assenza del lavoratore, la società intimava il licenziamento per giusta causa. Alla base della sanzione disciplinare venivano posti non soltanto i due giorni di assenza contestati ma anche gli ulteriori dieci giorni decorsi sino alla data del recesso.

Tale provvedimento veniva impugnato dal lavoratore il quale sosteneva, in particolare, che il licenziamento fosse illegittimo in virtù della discrasia esistente tra i fatti contestati (assenza ingiustificata di due giorni) e quelli posti alla base del licenziamento (assenza ingiustificata di oltre dieci giorni). Il ricorso del lavoratore veniva respinto tanto in primo grado quanto in appello.

In particolare, la Corte d'Appello di Venezia rimarcava che tale discrasia non aveva generato alcuna violazione del diritto di difesa e, pertanto, non poteva avere alcun effetto in merito alla legittimità del licenziamento. In aggiunta, osservava la Corte territoriale, secondo il CCNL applicato al rapporto era sufficiente un'assenza di quattro giorni per giustificare la massima sanzione espulsiva.

Contro tale decisione il lavoratore ricorreva in Cassazione lamentando esclusivamente la violazione dell'art. 7 L. 300/1970 c.c. in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c. Secondo il lavoratore, infatti, la Corte territoriale non avrebbe tenuto correttamente in considerazione l'orientamento di Cassazione secondo cui sono illegittime le cd. contestazioni in progress, quelle cioè che non contestano fatti precisi ed impediscono di fatto un'idonea difesa del dipendente. Nel caso di specie, sempre secondo l'opinione del lavoratore, la società datrice di lavoro avrebbe dovuto tenere in considerazione, in virtù del principio dell'immutabilità della contestazione, i soli due giorni di assenza originariamente contestati.

La Corte di Cassazione ha dichiarato tale doglianza infondata e respinto l'intero ricorso. Secondo la Suprema Corte, infatti, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dell'orientamento per cui il principio di immutabilità della contestazione può ritenersi violato solo qualora la divergenza tra i fatti posti alla base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare comporti, in concreto, una violazione del diritto di difesa del prestatore di lavoro, per essere intervenuto un sostanziale mutamento del fatto addebitato.

Tale sostanziale modifica, sostiene la Corte, sussiste solo laddove "il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa".

Nel caso in esame, conclude la Suprema Corte, la Corte distrettuale ha individuato correttamente l'identità ontologica tra l'oggetto della contestazione e i fatti posti a base della sanzione: l'assenza ingiustificata. Conseguentemente, nessun vulnus al diritto di difesa del dipendente è stato determinato dall'avere la datrice di lavoro tenuto in considerazione, ai fini dell'adozione del provvedimento disciplinare, anche l'ulteriore periodo di assenza successivo alla contestazione.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 11 novembre 2016, n. 23100

Pres. Napoletano; Rel. Patti; P.M. Ceroni; Ric. U. S.p.A.; Controric. F.C.

Licenziamento collettivo - Accordo sindacale - Adozione dell'unico criterio della prossimità alla pensione - Legittimità - Condizioni

In tema di licenziamento collettivo, l'adozione nell'accordo sindacale dell'unico criterio di scelta relativo alla prossimità del lavoratore al pensionamento non è legittima, qualora tale criterio non permetta l'esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento e, quindi, non risulti applicabile senza margini di discrezionalità da parte del datore di lavoro.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Determinazione mediante accordo sindacale - Caratteri - Generalità e obiettività - Necessità

La determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, che si traduca in un accordo sindacale concluso dai lavoratori attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, deve rispettare il principio non solo di non discriminazione, ma anche di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità ed essere coerenti col fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori.

Nota

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991.

Nel caso di specie, la società aveva prima adottato, mediante accordo sindacale, un piano di esodo volontario. Tale accordo prevedeva, in una norma transitoria, la possibilità di posticipare la data di risoluzione del rapporto per i lavoratori aventi "posizioni con contenuti specialistici e/o commerciali di particolare rilevanza". La società, ha, poi, avviato una procedura di licenziamento collettivo, disciplinata da altro accordo sindacale, che prevedeva, quale unico criterio di scelta, quello della maturazione dei requisiti di pensionabilità e che, al contempo, escludeva dalla platea dei lavoratori licenziabili quelli che, aderenti al precedente esodo incentivato, avevano consensualmente posticipato la data di risoluzione del rapporto, in quanto in possesso di competenze ritenute strategiche per l'azienda.

I giudici di appello, pur escludendo la natura ritorsiva del licenziamento, - per essere stato adottato, mediante accordo sindacale, quale unico criterio di scelta, quello della maturazione dei requisiti di pensionabilità - ne hanno tuttavia dichiarato l'illegittimità, per aver la società, mediante la previsione di sottrazione al licenziamento di posizioni specialistiche (per effetto della summenzionata "clausola di riserva"), introdotto nella procedura un criterio di scelta generico e discrezionale (id est: "funzioni di particolare rilevanza rivestite dai medesimi").

Avverso la predetta sentenza, il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, rimarcando la netta distinzione tra le due procedure (quella di esodo incentivato e quella di licenziamento collettivo), disciplinate da due diversi accordi sindacali, ed affermando l'unicità, nell'ambito della seconda procedura, del criterio di scelta adottato (prossimità alla pensione).

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che la rivendicata autonomia degli accordi sindacali regolanti le due diverse procedure contrattuali (esodo incentivato e licenziamento collettivo) vale esclusivamente per quei lavoratori, aderenti alla prima, il cui rapporto di lavoro si sia effettivamente consensualmente risolto, così da essere cessato prima dell'avvio della seconda procedura (e non anche per coloro il cui rapporto è proseguito, anche dopo l'apertura della procedura di licenziamento collettivo, in virtù della sopra richiamata riserva datoriale di posticipazione della data di risoluzione del rapporto). Questi ultimi - ha osservato la Corte di legittimità - dovevano essere inclusi nell'ambito dei lavoratori da scrutinare al pari dei lavoratori che non avevano aderito al predetto piano di esodo incentivato.

La Suprema Corte ha così confermato l'illegittimità del licenziamento, poiché all'unico criterio di scelta, individuato nella maturazione dei requisiti pensionistici (pure ritenuto legittimo per giurisprudenza consolidata, v. Cass. 03/07/2015, n. 13794) si è aggiunta la suindicata riserva di posticipazione della data di risoluzione del rapporto (per i lavoratori aderenti all'esodo incentivato in possesso di non meglio precisate competenze specialistiche) che ha finito con l'introdurre un elemento di discrezionalità nella scelta dei lavoratori licenziabili.

Ciò costituisce - ad avviso della Corte - palese violazione di due consolidati principi: a) l'adozione dell'unico criterio di scelta relativo alla prossimità alla pensione non è legittima, qualora tale criterio non consenta l'esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento (cfr. ex plurimis Cass. 22/06/2012, n. 10424); b) i criteri di scelta concordati mediante accordo sindacale devono avere i caratteri dell'oggettività e della generalità e devono essere tali da escludere qualsivoglia discrezionalità del datore di lavoro nella individuazione del personale da licenziare (Cass. 04/08/2016, n. 16351; Cass. 05/08/2016, n. 16548).

 

Dirigenti non apicali e organizzazioni aziendali complesse

Cass. Sez. Lav. 22 novembre 2016, n. 23738

Pres. Bronzini; Rel. Spena; P.M. Ceroni; Ric. C.F.; Contr. E. s.p.a.

Qualifica dirigenziale - Dirigente non apicale - Organizzazioni aziendali complesse - Pluralità di livelli dirigenziali - Ampia autonomia decisionale - Scelte in grado di influire sugli obiettivi aziendali - Configurabilità

La previsione di una pluralità di dirigenti a diversi livelli, con graduazione di compiti, è ammissibile in organizzazioni aziendali complesse; ciò che rileva è il riconoscimento anche al dirigente di un'ampia autonomia decisionale, circoscritta dal potere direttivo di massima del dirigente di livello superiore.

La dipendenza dal dirigente di livello superiore deve essere comunque molto attenuata, sì da non incidere sulla suddetta ampia autonomia del dirigente subordinato nelle scelte decisionali per la realizzazione degli obiettivi dell'impresa; in sostanza il vincolo gerarchico deve tradursi in un'attività di controllo o di coordinamento e di direttive relativa ad una sfera generalmente più limitata, facente capo al dirigente sovraordinato, costituente tramite diretto della volontà dell'imprenditore.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del discusso tema dei dirigenti "non apicali".

Come è noto, le peculiarità connotanti la posizione del dirigente comportano notevoli differenze nella disciplina del rapporto di lavoro rispetto a quella vigente per gli altri lavoratori subordinati. In particolare, ad un trattamento sensibilmente più vantaggioso sul piano economico, corrisponde una sostanziale diminuzione delle tutele sul piano del licenziamento. Tale ultimo atto viene consentito dall'art. 2118 c.c., ancora applicabile ai dirigenti, a fronte del solo obbligo di preavviso (dunque, senza necessità di motivazione), salvo previsioni di maggior favore, invero molto diffuse, del contratto collettivo, di norma richiedenti la "giustificatezza" dell'atto di recesso. E' bene chiarire che dette previsioni contrattual-collettive, in ogni caso, non possono incidere sull'efficacia dell'atto di licenziamento, e, dunque, comportano unicamente il diritto del dirigente, se ingiustificatamente licenziato, a percepire una posta risarcitoria (c.d. "indennità supplementare").

E' quindi evidente la centralità che assume l'operazione volta all'esatta delimitazione della categoria dirigenziale, chiarendo se - come sempre più diffuso nelle organizzazioni aziendali complesse - figure connotate da poteri decisionali ampi, ma comunque inserite in uno schema gerarchico, di cui non occupano la posizione di vertice, possano rientrarvi oppure no.

Nel caso in esame, il giudizio verteva sul diritto del ricorrente ad ottenere l'inquadramento dirigenziale e sull'illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli. Considerate le differenze nella disciplina del licenziamento tra i dirigenti e gli altri lavoratori subordinati, la Corte si è pronunciata solo sulla prima questione, ritenuta pregiudiziale, accogliendo il ricorso dell'ex dipendente e rinviando ai giudici di merito l'esame delle domande relative all'estinzione del rapporto.

Sul piano dell'inquadramento, la Corte ha ribadito un proprio orientamento "cautamente estensivo" dei confini dell'area dirigenziale, affermando che "negli assetti organizzativi delle imprese, se di rilevanti dimensioni, ben possono coesistere dirigenti di diverso livello"; in sostanza, la Corte, prendendo atto della sempre maggiore complessità, per dimensioni e per articolazione interna, delle organizzazioni aziendali, ha ritenuto che i tratti caratterizzanti della figura dirigenziale possono rinvenirsi anche in figure che, sebbene non preposte alla direzione dell'intera azienda, o anche solo di un ramo di essa, godono comunque di un grado di autonomia e discrezionalità in relazione a scelte decisionali capaci di influire sugli obiettivi aziendali.

Venendo alla questione dell'inserimento del dirigente in uno schema gerarchico, e dunque alla sottoposizione dello stesso ad altro dirigente di livello superiore, ferme restando le condizioni appena descritte, la Cassazione ritiene che tale circostanza non sia, di per sé, incompatibile con la natura dirigenziale dell'attività svolta, a patto che il vincolo gerarchico si traduca "in un'attività di controllo o di coordinamento e di direttive relativa ad una sfera generalmente più limitata, facente capo al dirigente sovraordinato, costituente tramite diretto della volontà dell'imprenditore".

Ben possono, pertanto, nelle aziende di grandi dimensioni, prevedersi più livelli di dirigenti, a condizione che a ciascun dirigente siano affidati ampi e autonomi poteri decisionali in relazione a una o più sfere di competenza, rilevanti ai fini della realizzazione degli obiettivi aziendali.

 

Demansionamento e prova del danno

Cass. Sez. Lav. 17 novembre 2016, n. 23432

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Fresa; Ric. I.N.P.S.; Contr. S.V.

Lavoro subordinato - Demansionamento - Danno professionale - Oneri allegatori in capo al lavoratore - Necessità - Prova presuntiva del danno - Ammissibilità

In caso di accertato demansionamento - ferma la necessità di una specifica allegazione nel ricorso introduttivo sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio professionale subìto - il giudice di merito può desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

Nota

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda proposta da un dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro tesa ad accertare il demansionamento subìto e ad ottenere il risarcimento del danno, da determinarsi in via equitativa.

A fondamento della decisione la Corte di merito rilevava che poteva ritenersi accertato l'avvenuto demansionamento in quanto, nel periodo di causa, il lavoratore aveva svolto mansioni proprie della qualifica inferiore a quella formalmente rivestita. Il danno alla professionalità, inoltre, era desumibile, sempre secondo la Corte di appello, con ragionamento presuntivo in considerazione della lunga durata del pregiudizio e delle probabili ripercussioni extralavorative.

Avverso tale sentenza il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando la violazione, tra gli altri, degli artt. 2697 e 2727 c.c. e degli artt. 115 e 414 c.p.c., in quanto, a parere del ricorrente, non erano stati debitamente considerati i princìpi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di allegazione e prova del danno da demansionamento, che non può ritenersi sussistente in re ipsa (Cass. SS.UU. 24 marzo 2006 n. 6572).

La Suprema Corte respinge il ricorso richiamando, in particolare quanto alla prova del danno, proprio quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6572 del 2006, secondo cui in tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (conf. Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282 e Cass. 19 marzo 2013, n. 6797). In caso di accertato demansionamento, il giudice di merito può, però, desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 14 maggio 2012, n. 7471; Cass. 9 maggio 2016, n. 9309).

Nel caso di specie, ad avviso della Suprema Corte, il giudice di merito aveva fatto corretto uso dei predetti princìpi, avendo rilevato che, per lungo periodo, il lavoratore si era visto costretto, ad onta delle sue progressioni di carriera, a svolgere sempre le stesse mansioni e ciò aveva determinato una prevedibile frustrazione lavorativa, anche rispetto ai suoi colleghi di lavoro, per la menomazione della sua attività e immagine professionale. Risulta, in tal modo, compiuta una valutazione di durata, gravità, conoscibilità nel luogo di lavoro dell'avvenuta dequalificazione e della frustrazione di specifiche aspettative.

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