Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Classificazioni operate dal contratto collettivo
Trasferimento del dipendente e giustificatezza del provvedimento
Genericità dell'atto di rinuncia
Contestazione disciplinare e specifica descrizione dei fatti
Sulla validità del c.d. patto di stabilità


Classificazioni operate dal contratto collettivo

Cass. Sez. Lav. 14 ottobre 2016, n. 20805

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; Ric. S.M.; Controric. U. S.p.A.

Lavoro subordinato - Inquadramento e mansioni - Qualifica dirigenziale - Nozione di dirigente fissata dalla contrattazione collettiva - Rilevanza

In tema di qualifiche del lavoratore, l'art. 2095 c.c., pur prevedendo le categorie fondamentali di inquadramento dei lavoratori subordinati, consente alle associazioni di determinare contrattualmente le mansioni specifiche comprese nell'una o nell'altra categoria e, nell'ambito della stessa categoria, di porre una differenziazione per gradi e qualifiche ai sensi dell'art. 96 disp. att. c.c., secondo l'importanza dell'impresa, sicché al fine di stabilire la qualifica spettante al prestatore di lavoro, in relazione alle mansioni svolte, è necessario fare riferimento in primo luogo al contratto collettivo, dovendo ritenersi che le indicazioni in esso contenute, in quanto esprimono la volontà delle associazioni stipulanti e la loro specifica esperienza nel settore produttivo e nella relativa organizzazione aziendale, assumono valore vincolante e decisivo anche per quanto riguarda la classificazione di determinate mansioni specifiche nell'una o nell'altra categoria.

Nota

Nel caso di specie il lavoratore era stato assunto come impiegato ed aveva ottenuto varie promozioni sino ad essere l'unico responsabile amministrativo-contabile della banca che lo impiegava. Nel 2001 il lavoratore si dimetteva e veniva assunto da altro soggetto giuridico per lo svolgimento, negli stessi uffici, delle medesime mansioni svolte in precedenza ma con la qualifica di dirigente. Successivamente egli conveniva in giudizio la banca per il riconoscimento della qualifica dirigenziale per il periodo di tempo antecedente alle dimissioni.

Con sentenza non definitiva il Tribunale di Potenza dichiarava la nullità della disposizione del CCNL applicabile (Dirigenti aziende di credito del 1.12.2000) che prevedeva, per il riconoscimento della qualifica dirigenziale, l'attribuzione della stessa da parte del datore di lavoro (cd. principio nominalistico). La sentenza veniva impugnata in Cassazione dalla banca datrice di lavoro che, tuttavia, la confermava con la precisazione che la nullità riguardante l'articolo del CCNL si riferiva esclusivamente al cd. principio nominalistico e non all'intera disposizione, con esclusione, quindi, della parte dell'articolo che descrive il contenuto delle mansioni dirigenziali. Riassunto il giudizio per il quale era stata emesse sentenza non definitiva, veniva accertata la qualifica dirigenziale del lavoratore e la datrice di lavoro veniva condannata al pagamento di differenze retributive e TFR.

Contro tale decisione la banca proponeva gravame presso la Corte d'Appello di Potenza la quale accoglieva il ricorso sostenendo che, benché a seguito della dichiarazione di nullità della citata disposizione del CCNL residuasse la possibilità di attribuire la qualifica dirigenziale a chi svolgesse la propria prestazione con elevata autonomia, professionalità e influenza sugli obbiettivi dell'impresa, l'attività del dirigente non possedeva tali caratteristiche. In particolare la decisione della Corte si fondava su di una nozione restrittiva di dirigente, inteso come alter ego dell'imprenditore che si colloca al vertice dell'organizzazione aziendale.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore sostenendo, tra l'altro e per quanto qui interessa, violazione e falsa applicazione degli artt. 2095, 2103 c.c. e di alcune disposizioni del CCNL.

La Suprema Corte ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Salerno (anche in considerazione del fatto che non erano stati esaminati elementi probatori teoricamente decisivi per il giudizio). La Corte di Cassazione, infatti, pur affermando che la nozione di dirigente ha avuto nel tempo, in dottrina quanto in giurisprudenza, accezioni più o meno ampie, ha statuito che "in tema di qualifiche del lavoratore, l'art. 2095 c.c., pur prevedendo le categorie fondamentali di inquadramento dei lavoratori subordinati, consente alle associazioni di determinare contrattualmente le mansioni specifiche comprese nell'una o nell'altra categoria e, nell'ambito della stessa categoria, di porre una differenziazione per gradi e qualifiche ai sensi dell'art. 96 disp. att. c.c., secondo l'importanza dell'impresa, sicché al fine di stabilire la qualifica spettante al prestatore di lavoro, in relazione alle mansioni svolte, è necessario fare riferimento in primo luogo al contratto collettivo, dovendo ritenersi che le indicazioni in esso contenute, in quanto esprimono la volontà delle associazioni stipulanti e la loro specifica esperienza nel settore produttivo e nella relativa organizzazione aziendale, assumono valore vincolante e decisivo anche per quanto riguarda la classificazione di determinate mansioni specifiche nell'una o nell'altra categoria".

Nel caso di specie, dunque, poiché la nozione di dirigente prevista dal CCNL era certamente più ampia di quella restrittiva fatta propria dalla Corte lucana, il motivo di ricorso è stato accolto, considerato il valore vincolante della classificazione operata dalla contrattazione collettiva. 

 

Trasferimento del dipendente e giustificatezza del provvedimento

Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2016, n. 20333

Pres. Nobile; Rel. De Marinis; P.M. Ceroni; Ric. A. S.p.A.; Controric. T.A.

Trasferimento del dipendente - Giustificatezza del provvedimento ex art. 2103 - Sussistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive - Sufficienza - Motivazione della scelta del personale da trasferire - Esclusione

L'art. 2103 c.c., ai fini della giustificazione del trasferimento, si limita a richiedere la ricorrenza di una ragione attinente ad esigenze organizzative, tecniche e produttive, in particolare riferite alla sede di destinazione, prescindendo del tutto da una valutazione comparativa tra i soggetti astrattamente individuabili come possibili destinatari del provvedimento, così da operare tra loro una selezione e a questa stregua motivare la scelta. (Nella specie, la Suprema Corte, in applicazione del suddetto principio, ha cassato la decisione del giudice di merito, che ha dichiarato la illegittimità del trasferimento disposto dalla società nei confronti di una dipendente per insufficienza della motivazione addotta - consistente nell'assenza totale di personale a cui la lavoratrice trasferita doveva sopperire - in quanto inidonea a giustificare la scelta di trasferire la lavoratrice e non altri).

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di trasferimento.

Nel caso in esame e per il profilo che qui interessa, la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, accoglieva la domanda proposta da una lavoratrice avente ad oggetto la declaratoria di nullità del trasferimento (dalla Direzione generale ad altra Filiale) disposto nei suoi confronti dalla Società datrice di lavoro per sopperire ad una situazione di carenza di organico. La Corte territoriale ha ritenuto insufficiente la motivazione addotta a sostegno del suddetto trasferimento.

Avverso la predetta sentenza, la società proponeva ricorso per Cassazione, duolendosi, in particolare, dell'avvenuta violazione dell'art. 2103 c.c., per aver la Corte di merito esteso il sindacato giudiziale al merito delle ragioni imprenditoriali e per l'insufficienza delle argomentazioni addotte a sostegno della ritenuta ingiustificatezza del disposto trasferimento.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso e, decidendo la causa nel merito, ha rigettato la domanda di cui al ricorso introduttivo promosso dalla lavoratrice, sulla scorta del ben noto principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte imprenditoriali. Sul punto, la Corte di legittimità ha precisato che l'art. 2103 c.c. richiede, ai fini della giustificazione del trasferimento, la sola sussistenza delle ragioni organizzative, tecniche e produttive, senza che il datore di lavoro debba anche "motivare la scelta" del personale da trasferire, mediante una valutazione comparativa tra i soggetti astrattamente individuabili come possibili destinatari del provvedimento.

La Suprema Corte ha ritenuto violato il suddetto principio da parte della Corte di merito che, pur a fronte della effettiva sussistenza delle ragioni addotte a sostegno del disposto trasferimento (id est: assenza di organico presso la nuova sede di lavoro) ha, tuttavia, considerato il trasferimento privo di idonea giustificazione, non avendo dato conto il datore di lavoro del perché la lavoratrice (e non altri) è stata interessata dal provvedimento di trasferimento. 

 

Genericità dell'atto di rinuncia

Cass. Sez. Lav. 19 settembre 2016, n. 18321

Pres. Bronzini; Rel. Spena; P.M. Celentano; Ric. L.N.; Contr. E.P. s.p.a.;

Rinunce e transazioni - Genericità dell'atto di rinuncia - Assenza di elementi idonei a provare la consapevolezza del lavoratore in ordine all'effettiva sussistenza e/o consistenza del diritto a cui si è rinunciato - Quietanza a saldo - Inconfigurabilità della rinuncia e/o transazione - Irrilevanza giuridica

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, ove contenga una dichiarazione di rinuncia, riferita in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili "aliunde", che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti, enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna ad occuparsi dei rapporti tra rinunce e transazioni e le c.d. "quietanze a saldo".

Come è noto, l'art. 2113 c.c. commina la sanzione dell'invalidità - che, in termini civilistici, si traduce in un'annullabilità - a tutti quegli atti con cui il lavoratore, anche eventualmente a fronte di un corrispettivo, rinuncia a diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi. In sostanza, il legislatore presume un vizio di volontà del lavoratore all'atto della sottoscrizione del relativo atto, concedendo allo stesso un termine di sei mesi - decorrente dalla cessazione del rapporto, qualora la rinuncia o la transazione sia avvenuta nel corso dello stesso, ovvero dalla data dell'atto, qualora la sottoscrizione sia successiva all'estinzione del rapporto di lavoro - per impugnare atti di questo genere. Unica via per evitare l'assoggettamento a tale disciplina delle rinunce e delle transazioni è la sottoscrizione di tali atti nelle c.d. "sedi protette" (art. 2113, comma 4, c.c.): in presenza, cioè, di una commissione di conciliazione che renda edotto il lavoratore del contenuto effettivo dell'atto che si appresta a sottoscrivere e delle relative conseguenze.

A fronte di ciò, la giurisprudenza è granitica nel considerare (addirittura) irrilevanti sul piano giuridico, in quanto non costituenti neppure atto di rinuncia e/o transazione, le c.d. "quietanze a saldo": vale a dire, quelle dichiarazioni generiche del lavoratore in cui costui dichiara di rinunciare ad ogni azione e/o pretesa derivante dal rapporto di lavoro, senza che, dal contenuto dell'atto dismissivo, possa desumersi un'effettiva consapevolezza sia dell'esistenza, sia della relativa consistenza, dei diritti in ordine ai quali tale rinuncia opererebbe. Secondo la Cassazione, trattasi di mere clausole di stile, che non consentono alcun accertamento in relazione alla genuinità della volontà che ne è alla base.

Di conseguenza, come avvenuto nel caso in esame, diviene preliminare qualificare l'atto sottoscritto dal lavoratore alla stregua di mera "quietanza a saldo", ovvero di rinuncia e/o transazione, applicandosi solo nel secondo caso il regime, anche decadenziale, di cui all'art. 2113 c.c.

Nella vicenda sottoposta al vaglio della Corte, il lavoratore aveva sottoscritto un atto, qualificato come transazione, con il quale, a fronte della corresponsione di una somma di danaro, lo stesso dichiarava di rinunciare ad ogni possibile controversia riguardante il calcolo dell'indennità di anzianità a decorrere da una certa data e del trattamento di fine rapporto.

Pur non trattandosi di una quietanza a saldo "tipica" - vale a dire in cui ricorra la ben nota formula di "non aver null'altro a pretendere" - la Corte utilizza il medesimo percorso logico-argomentativo anche nel valutare i rapporti tra l'atto sottoscritto dal lavoratore e la pretesa successivamente azionata in giudizio dal lavoratore.

Ed infatti, la Cassazione rileva l'assenza, all'interno dell'atto, di qualsivoglia riferimento "al computo del compenso per lavoro straordinario ai fini dell'indennità di anzianità" (oggetto della domanda giudiziale), in luogo di un "generico riferimento all'indennità di anzianità maturata al 31 maggio 1982": elemento, quest'ultimo, che la Corte ritiene "del tutto inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza di dismettere la pretesa (poi azionata) al computo suddetto".

Di conseguenza, non potendosi ricavare, dal contenuto dell'atto sottoscritto dal lavoratore, alcuna consapevolezza del diritto successivamente azionato (né, quindi, in relazione ad una sua eventuale volontà dismissiva), la Cassazione conclude per l'irrilevanza del negozio transattivo con riguardo alla domanda giudiziale proposta dal lavoratore. 

 

Contestazione disciplinare e specifica descrizione dei fatti

Cass. Sez. Lav. 14 ottobre 2016, n. 20814

Pres. Di Cerbo; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.A.M.; Contr. Casa di cura V.S.

Licenziamento - Contestazione disciplinare - Specifica descrizione dei fatti - Accesso ai documenti da parte del lavoratore - Non necessario

Qualora la contestazione di addebito sia adeguatamente specifica con precisa indicazione dei fatti sui quali si fonda l'incolpazione, deve ritenersi assicurato il diritto di difesa del lavoratore e, quindi, ultronea la sua richiesta di accesso agli atti.

Nota

La Corte di appello di Roma, confermando la decisione resa dal Tribunale di Viterbo, rigettava la domanda avanzata da una lavoratrice, addetta quale infermiera presso una casa di cura, tesa a far ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole dal datore di lavoro, per aver omesso la somministrazione di farmaci - che, al contrario, risultava registrata come effettuata nelle schede di terapia redatte dalla medesima lavoratrice - ritrovati tra i rifiuti. La Corte di merito aveva ritenuto insussistente la lamentata violazione del diritto di difesa per non aver il datore di lavoro consentito l'accesso ai luoghi, la visione del materiale repertato e le schede dei pazienti.

Avverso tale sentenza la lavoratrice propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 7, L. n. 300/1970, in quanto, a parere della ricorrente, aveva errato la corte di merito nel ritenere irrilevante il mancato accesso alla documentazione posta a sostegno dell'addebito, tenuto conto che tale divieto aveva limitato l'esercizio del suo diritto di difesa.

La Cassazione respinge il motivo evidenziando che la Corte di appello non aveva affatto disatteso l'insegnamento della Corte di legittimità (cfr. Cass. del 13 marzo 2013, n. 6337), secondo cui gli obblighi di correttezza e buona fede impongono al datore di lavoro di offrire in consultazione all'incolpato che ne faccia richiesta i documenti aziendali sui quali si basa la contestazione, laddove l'esame degli stessi sia necessario per approntare un'adeguata difesa, avendo il giudice del merito adeguatamente spiegato che nel caso in esame non ricorreva tale presupposto.

Nel caso sottoposto alla sua cognizione, invero, ad avviso della Cassazione la contestazione di addebito si fondava su precise condotte inadempienti e la sufficienza della specificazione era tale da consentire alla ricorrente di esercitare il suo diritto di difesa. L'eventuale inadempimento alla richiesta di accesso agli atti avrebbe rilevato sul diverso piano della prova, di cui era onerata in giudizio la datrice di lavoro, garanzia questa sufficiente per la difesa della lavoratrice e tale da rendere ultronea l'ulteriore finalità dell'accesso alla documentazione, data dalla ricerca da parte della ricorrente della prova in ordine alla preordinazione della propria estromissione dalla casa di cura. 

 

Sulla validità del c.d. patto di stabilità

Cass. Sez. Lav. 26 ottobre 2016, n. 21646

Pres. Nobile; Rel. Manna; Ric. S.G.; Controric. U.B.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Diritto di recesso del lavoratore - Disponibilità - Limitazioni temporanee - Ammissibilità - Condizioni

Il lavoratore subordinato, come ha facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro, così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dell'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo minimo di durata.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte sancisce la validità del c.d. patto di stabilità, ossia dell'accordo col quale il datore di lavoro ed il prestatore si impegnano a non recedere dal rapporto per un certo tempo, salvo il ricorrere di una giusta causa.

Nella specie, il lavoratore, dopo aver sottoscritto un patto di stabilità e averlo violato, proponeva ricorso per farne accertare la nullità. Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda, mentre la Corte di merito la rigettava, condannando il dipendente al pagamento alla società della penale pattuita in caso di inadempimento del predetto patto.

Il prestatore proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, articolando diversi motivi.

Per primo, il ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 2113, 1341, 1344, 1421 e 1422 c.c., poiché il succitato patto era stato ritenuto valido nonostante l'avvenuta sua impugnazione ex art. 2113 c.c. e nonostante la "evidente sproporzione di forza contrattuale" tra le parti. Il ricorrente si doleva, altresì, del fatto che la previsione del patto che autorizzava la società a "recuperare l'importo della penale anche mediante compensazione con le spettanze di fine rapporto" era nulla "perché in frode alla legge e lesivo del diritto indisponibile di cui all'art. 545 co. 4° c.p.c.".

Inoltre, il lavoratore deduceva l'illegittimità della sentenza d'Appello nella parte in cui aveva respinto la domanda subordinata di riduzione della penale, sull'assunto che non fosse stata ritualmente formulata.

La Suprema Corte respinge il primo motivo di ricorso, rammentando, anzitutto, che il lavoratore subordinato, come ha facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro, così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dell'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo minimo di durata. Pertanto - conclude la Cassazione - nella specie non può trovare applicazione il disposto dell'art. 2113 c.c., avente ad oggetto le sole rinunzie o transazioni su diritti derivanti da disposizioni inderogabili di legge, tenuto anche conto che, nel patto de quo, non era implicato alcun ulteriore diritto del prestatore derivante da disposizioni inderogabili di legge o dell'autonomia collettiva.

Né - soggiungono i Giudici di legittimità - varrebbe invocare la pretesa sproporzione di forza contrattuale tra le parti, posto che la stessa "non è mai motivo di invalidità (ma, semmai, di mera rescindibilità nei casi e nei limiti di cui agli artt. 1447 e 1448 c.c.)", né il divieto di compensazione posto dall'art. 1246 n. 3 c.p.c. in relazione ai crediti impignorabili (art. 545 c.p.c.), riferendosi alla sola compensazione propria e non anche alla c.d. compensazione impropria, che ricorre quando le reciproche ragioni di debito/credito nascono da un unico e non da distinti rapporti giuridici.

La Cassazione accoglie, invece, la censura relativa alla quantificazione della penale, sul presupposto che la riduzione della stessa possa sempre essere richiesta, anche in appello e, anzi, possa persino essere disposta ex officio, avendo, altresì, il dipendente allegato circostanze rilevanti al fine di formulare il giudizio di manifesta eccessività della penale stessa, che, del resto, emergevano, a parere della Suprema Corte, dallo stesso tenore del patto di stabilità e dai rispettivi interessi dedotti, dalle posizioni difensive delle parti e dalle loro qualità personali, dal raffronto tra le retribuzioni percepite nella vigenza del patto e l'importo della penale, nonché dallo scarto tra l'anticipato recesso della lavoratrice e l'ammontare complessivo della penale medesima.

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