Contenzioso

Le informazioni fornite dal datore di lavoro sono prova del reato di omesso versamento di ritenute previdenziali

di Silvano Imbriaci

Anche con la telematizzazione delle denunce contributive mensili, non mutano le modalità di prova del reato di omesse ritenute previdenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

È questo, in sintesi, il contenuto della sentenza 42715 della III sezione penale della Cassazione, che si sofferma in motivazione sulle modalità con cui provare la condotta descritta dall'articolo 2, comma 1 bis, del decreto legge 12 settembre 1983 (conv. in legge 11 novembre 1983, n. 638). Occorre rilevare che il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti attualmente è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 1.032,91 euro e il datore di lavoro non è punibile se provvede al versamento entro 3 mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo 8/2016 (disposizioni in materia di depenalizzazione), è stata attuata la delega prevista dall'articolo 2, comma 2, della legge 67/2014, che aveva inteso trasformare in illecito amministrativo questa fattispecie, sia pur limitando tale trasformazione alle condotte omissive non eccedenti i 10.000 euro annui, e comunque preservando il principio secondo cui il datore di lavoro non avrebbe risposto a titolo di illecito amministrativo in presenza di versamento entro tre mesi dalla contestazione o della notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.

L'articolo 2, comma 1 bis del Dl 463/1983, come riformulato nel 2016, prevede ora la punibilità dell'omesso versamento delle ritenute in questione per un importo superiore a euro 10.000 annui (reclusione fino a tre anni e multa fino 1.032 euro). Quindi, per queste condotte non cambia la natura criminosa delle stesse. Per i casi in cui l'importo omesso è inferiore, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.

Con riferimento alla questione della prova del reato, solitamente la stessa si intendeva raggiunta mediante la dimostrazione dell'avvenuta corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti mediante la produzione del modello Dm 10 (riepilogativo mensile della denuncia contributiva), gravando sull'imputato l'onere di provare, in difformità della situazione rappresentata nelle denunce retributive inoltrate, l'assenza del materiale esborso delle somme (Cassazione, sezione penale, 7772/2013).

Il problema si pone con le attuali modalità di rappresentazione delle denunce mensili, tramite il modello Uniemens (messaggio Inps 11903/2009). Con il modello Dm 10 il datore di lavoro comunicava i dati contributivi in forma aggregata (distinto per categoria e in forma numerica), mentre con il modello Emens i dati erano comunicati in forma individuale e nominale. Con l'introduzione del sistema Uniemens i flussi Emens e Dm sono stati unificati in un unico flusso informativo (denominato Uniemens individuale): i dati relativi alla contribuzione dovuta dal datore di lavoro e alle somme a credito (eventualmente a lui spettanti in virtù di sgravi o anticipazioni operate) sono indicati individualmente, in associazione all'anagrafica di ciascun singolo per ogni lavoratore.

Anche con il nuovo sistema le informazioni sulla retribuzione pervengono all'Inps dal datore di lavoro e dunque hanno piena valenza confessoria. Anche se il modello è generato dal sistema informatico dell'Inps, sono mantenute le stesse caratteristiche e informazioni del precedente modello Dm 10 cartaceo, tanto è vero che la mancata trasmissione telematica della denuncia aziendale impedisce la creazione del flusso telematico Uniemens. Dunque, sotto il profilo probatorio, può essere tranquillamente applicabile la giurisprudenza formatasi in vigore del precedente sistema di denuncia cartacea

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