Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci


Giusta causa di licenziamento e rinvio a giudizio in sede penale

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e mansioni omogenee

Nullità del licenziamento a causa di matrimonio

Trasferimento e rifiuto di svolgere la prestazione presso la nuova sede

Contratto di lavoro a tempo determinato e licenziamento illegittimo

Giusta causa di licenziamento e rinvio a giudizio in sede penale

Cass. Sez. Lav. 21 settembre 2016, n. 18513

Pres. Bronzini; Rel. Boghetich; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. T.A.; Controric. A.M.A. S.p.A..

Comportamento del lavoratore idoneo ad integrare gli estremi del reato - Necessità di attendere la sentenza di condanna definitiva per procedere al licenziamento - Esclusione - Accertamento giudiziale dell'effettiva sussistenza di fatti tali da giustificare la sanzione disciplinare espulsiva - Necessità - Fattispecie

Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall'art. 27, comma 2, Cost. concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi dei reato se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità, di attendere la sentenza definitiva di condanna; tuttavia, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l'imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario - ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto - deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest'ultimo sul rapporto fiduciario e sull'immagine dell'azienda. (La fattispecie sottoposta all'esame della Suprema Corte attiene al caso di un lavoratore rinviato a giudizio per spaccio di sostanze stupefacenti durante l'orario di lavoro a colleghi).

Nota

La fattispecie sottoposta all'esame della Suprema Corte attiene all'impugnativa di un licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore, per appartenere lo stesso ad un'organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti a livello internazionale e per aver svolto tale attività criminosa anche nei confronti di colleghi durante l'orario di lavoro.

Il Giudice di primo grado, prima con ordinanza e poi con sentenza, rigettava il ricorso proposto dal lavoratore. La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale, rilevando che i fatti contestati erano di tale gravità (tali da aver determinato un rinvio a giudizio in sede penale) da giustificare il licenziamento in tronco.

Proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, sulla base di plurimi motivi, denunciando, in particolare, con il sesto motivo, violazione e falsa applicazione della normativa del CCNL di settore, per avere il giudice del merito ritenuto rilevante - ai fini della proporzionalità della sanzione - la circostanza del mero rinvio a giudizio in sede penale.

La Suprema Corte ha accolto tale motivo di ricorso e, dunque, cassato con rinvio la sentenza impugnata (affinché il giudice di merito accerti la gravità dell'inadempimento imputato al dipendente), sulla scorta dei seguenti principi: a) la valutazione della sussistenza di una giusta causa di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali (Cass. 01/12/1997, n. 12163); b) nell'accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può, e deve, liberamente valutare le prove raccolte, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale (cfr. ex plurimis Cass. 17/06/2002, n. 8716).

Partendo da tali consolidati principi, la Corte di legittimità è giunta ad affermare che il Giudice non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una presunta incidenza di quest'ultimo sul rapporto fiduciario e sull'immagine dell'azienda.

Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di merito non abbiano fatto corretta applicazione dei suesposti principi, atteso che gli stessi, nel confermare la legittimità del licenziamento, hanno ritenuto sufficiente, ai fini della proporzionalità della sanzione, la sola valutazione del dato processuale del rinvio a giudizio in sede penale, omettendo completamente la disamina - sulla base delle circostanze di fatto accertate nel corso dell'istruttoria e con specifico riferimento alle stesse - della sussistenza dell'addebito contestato, della gravità della condotta tenuta e dell'intensità dell'elemento soggettivo. La Corte d'appello non ha, infatti, indicato quali elementi fattuali sono stati accertati e presi in esame al fine di giustificare il processo di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta.

La Corte di legittimità ha, così, censurato la laconicità della motivazione - formulata quest'ultima dalla Corte territoriale in termini di "mera adesione" alla sentenza di primo grado - in violazione del dovere di motivazione imposto al giudice dall'art. 111, c. 6, Cost., dall'art. 6 CEDU e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. 

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e mansioni omogenee

Cass. Sez. Lav. 20 settembre 2016, n. 18409

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.A.; Contr. B. s.p.a.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Mansioni omogenee e fungibili (nella specie: addetto di segreteria) - Scelta del lavoratore da licenziare - Licenziamento del lavoratore part-time - Legittimità

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è rispettoso dei canoni di correttezza e buona fede il comportamento del datore di lavoro che, in presenza di mansioni formalmente omogenee e fungibili tra loro, fondi la scelta del lavoratore da licenziare sulla base dell'incidenza del diverso orario lavorativo prestato da ciascuno sulla necessità aziendale di un dipendente a tempo pieno, a garanzia dell'intero orario di apertura degli uffici (nella specie, la lavoratrice licenziata osservava il part-time).

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una lavoratrice che svolgeva mansioni pienamente omogenee, e dunque fungibili, con quelle affidate ad un'altra (nel caso di specie, si trattava di attività di segreteria).

In sostanza, non vi era stata la soppressione delle mansioni affidate a quella lavoratrice, ma semplicemente una contrazione di attività che non giustificava più la presenza di due dipendenti per le stesse mansioni. L'unica differenza riscontrabile tra le due dipendenti, pur non incidente sul tipo di attività prestata da ciascuna, risiedeva nel fatto che la lavoratrice licenziata aveva un contratto part-time, mentre quella "salvata" osservava il c.d. tempo pieno.

A giustificazione di tale scelta, la Società aveva addotto la necessità di "coprire" l'intero orario di apertura degli uffici con un solo addetto e aveva altresì provato di aver offerto a entrambe le dipendenti di continuare a lavorare a tempo parziale, tuttavia ottenendo un rifiuto da parte della lavoratrice a tempo pieno.

A parere della Corte, tale peculiare necessità della datrice di lavoro, unitamente all'impossibilità di proseguire nel rapporto di lavoro, con entrambe le dipendenti, nella modalità part-time, integra un'ipotesi di infungibilità delle prestazioni rese dalle due lavoratrici. Ed infatti, rebus sic stantibus, la Società datrice di lavoro non avrebbe potuto raggiungere diversamente l'obiettivo di coprire l'intero turno lavorativo con un solo addetto, così dovendosi ritenere giustificata la scelta di licenziare la dipendente part-time.

La Cassazione ha quindi ritenuto siffatto comportamento del datore di lavoro rispettoso dei canoni di correttezza e buona fede, come richiesto alle parti nell'intero periodo di esecuzione del contratto, e, dunque, anche nella fase del licenziamento. Per tali ragioni, verificata altresì la sussistenza della ragione organizzativa posta a base del licenziamento, la Corte ha ritenuto il recesso datoriale legittimo e rigettato il ricorso presentato dall'ex dipendente. 

 

Nullità del licenziamento a causa di matrimonio

Cass. Sez. Lav. 19 settembre 2016, n. 18325

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; Ric. C.F.; Controric. 3D I.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritto alla conservazione del posto - Matrimonio - Licenziamento - Divieto - Nullità - Deroga in caso di cessazione dell'attività aziendale - Ragioni di ordine produttivo o organizzativo - Applicabilità - Esclusione

In tema di nullità del licenziamento a causa di matrimonio, tra le tassative ipotesi di deroga al divieto di licenziamento contemplate dal quinto comma dell'art. 35 d.lgs. n. 198/2006, quella di cui alla lett. b), relativa alla "cessazione dell'attività dell'azienda cui la lavoratrice è addetta", non è riconducibile alle ragioni di ordine produttivo o organizzativo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In ogni caso, ove ricorra l'ipotesi della deroga, nessun onere grava sulla lavoratrice diretto a dimostrare l'esistenza di una residua possibilità occupazionale all'interno dell'azienda.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce l'ambito applicativo della sanzione di nullità del licenziamento a causa di matrimonio, prevista ex art. 35, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198.

Nel caso di specie, una lavoratrice era stata licenziata entro un anno dalla celebrazione del suo matrimonio per giustificato motivo oggettivo, determinato dalla "ristrutturazione aziendale e dalla impossibilità di impiego della lavoratrice in altre mansioni". In particolare - allegava il datore - alla ricorrente era stato esclusivamente affidato lo sviluppo di tre specifici progetti software, da realizzare in regime di telelavoro, senonché, prima della comunicazione di recesso, tutti i predetti progetti erano stati ceduti a terzi dalla società, l'ultimo dei quali nell'ambito di un trasferimento di ramo d'azienda.

Il Tribunale accoglieva l'impugnativa del recesso. La decisione veniva riformata in appello: la Corte riteneva che il licenziamento non fosse stato intimato per causa di matrimonio, ma per cessazione dell'attività di azienda, rilevando, a tal fine, anche l'ipotesi di cessione di un ramo, reparto, stabilimento di appartenenza della lavoratrice, incombendo su quest'ultima l'onere di allegare l'esistenza, all'interno dell'organizzazione aziendale, di eventuali posti di lavoro vacanti nei quali potere essere utilmente ricollocata.

La dipendente proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 35 cit. Segnatamente, la lavoratrice si doleva che i Giudici di appello avessero ritenuto integrata la causale di licenziamento durante il periodo di protezione - ossia la "cessazione dell'attività dell'azienda" - anche nell'ipotesi di trasferimento o cessione di un ramo dell'azienda stessa nonché avessero applicato alla fattispecie normativa de qua i principî ordinari in tema di repêchage.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, ribadendo, anzitutto, che la presunzione di nullità del licenziamento per causa di matrimonio, in quanto intimato nel "periodo sospetto", è relativa, essendo prevista la possibilità della prova contraria, ma nelle sole tassative ipotesi di cui all'art. 35 cit., non suscettive di interpretazione estensiva o analogica (Cass. nn. 18363 e 18810 del 2013).

Quanto, poi, alla specifica ragione addotta dalla società a giustificazione del recesso, la Cassazione chiarisce che l'ipotesi della "cessazione dell'attività dell'azienda" cui la lavoratrice è addetta non è assimilabile alle ragioni di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale che possono essere addotte a sostegno di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo: in altri termini, non è sufficiente allegare e dimostrare l'esistenza di un ridimensionamento dell'attività di impresa per sottrarsi alla sanzione della nullità del recesso. L'art. 35 cit. - prosegue il Supremo Collegio - non consente che una ristrutturazione o una riorganizzazione produttiva dell'impresa siano idonee a giustificare il licenziamento nel periodo di protezione, in quanto il legislatore ha giudicato in via presuntiva prevalente la necessità della tutela rafforzata della dipendente rispetto al diritto di cui all'art. 41 Cost., in un bilanciamento tra gli interessi costituzionali in giuoco. Ciò posto - soggiungono i Giudici di legittimità - la causale del recesso de quo è consistita nel giustificato motivo oggettivo determinato dalla ristrutturazione aziendale in corso e dalla impossibilità di impiego della lavoratrice in altre mansioni, che non integra la cessazione dell'attività di impresa, né di un suo ramo, tenuto anche conto che la sentenza d'appello aveva "accreditato l'ipotesi della cessione di ramo di azienda, ma non ha dato conto da quali elementi di fatto abbia desunto la preesistenza, alla cessione, di una entità produttiva funzionalmente autonoma e l'appartenenza della lavoratrice a tale entità produttiva". Col corollario che non possono trovare applicazione, nella disciplina di cui all'art. 35 cit., i principî elaborati dalla giurisprudenza in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed, in articolare, quelli in materia di repêchage, sicché non spetta, comunque, alla lavoratrice, neppure in presenza della cessazione dell'attività aziendale cui è addetta, dimostrare l'esistenza di residue possibilità occupazionali all'interno dell'impresa. 

 

Trasferimento e rifiuto di svolgere la prestazione presso la nuova sede

Cass. Sez. Lav. 26 settembre 2016, n. 18866

Pres. Mammone; Rel. Berrino; Ric. G.E.; Controric. P.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Trasferimento - Rifiuto di svolgere la prestazione presso la nuova sede - Legittimità - Esclusione - Diritto a chiedere la tutela in via d'urgenza - Sussistenza

Il trasferimento del lavoratore presso altra sede giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali può consentire al medesimo di richiederne giudizialmente l'accertamento della legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto la legittimità del rifiuto opposto da una lavoratrice alla richiesta del datore di lavoro di prendere servizio presso una sede diversa da quella precedentemente assegnata. Nel caso di specie la lavoratrice, il cui contratto di lavoro a termine era stato convertito in contratto a tempo indeterminato, veniva trasferita dalla sede cui era precedentemente addetta a nuova sede per assenza di posti disponibili. Dalla data di efficacia del trasferimento la lavoratrice risultava assente ingiustificata e veniva licenziata dalla società. Successivamente la lavoratrice impugnava il licenziamento presso il Tribunale di Lagonegro ottenendone la dichiarazione di illegittimità e la conseguente condanna della datrice di lavoro alla reintegra. La Corte d'Appello di Potenza, a seguito di impugnazione della società datrice di lavoro, riformava la sentenza del Tribunale di Lagonegro e dichiarava legittimo il licenziamento ritenendo ingiustificato il rifiuto della lavoratrice anche in considerazione del fatto che l'inadempimento contestato alla datrice di lavoro (che non aveva fissato un incontro previsto dal CCNL applicabile per l'audizione della lavoratrice in merito al trasferimento) era stato successivo al rimedio in autotutela della lavoratrice (rifiuto della prestazione), pertanto sprovvisto della necessaria buona fede.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la lavoratrice sostenendo, tra l'altro, che alla data della sua assenza ingiustificata il licenziamento non fosse ancora efficace poiché non era ancora avvenuta la sua audizione e poiché in ogni caso il suo rifiuto altro non era che una legittima forma di autotutela nei confronti dell'inadempimento datoriale.

La Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi di impugnazione proposti dalla lavoratrice e rigettato il ricorso. Innanzitutto la Cassazione ha confermato quanto affermato dalla Corte d'Appello e cioè che il rifiuto della lavoratrice era intervenuto ancor prima della mancata convocazione del datore di lavoro e, quindi, ancor prima dell'inadempimento lamentato dalla prima, configurando così una forma di autotutela non sorretta dalla buona fede richiesta dall'art. 1460, comma 2, codice civile.

Inoltre, la Suprema Corte ha enunciato nel corso della motivazione il principio per cui "il trasferimento del lavoratore presso altra sede giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali può consentire al medesimo di richiederne giudizialmente l'accertamento della legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte". In sostanza la Cassazione ha sottolineato che il rifiuto a rendere la prestazione da parte del lavoratore è ammissibile solo in caso di inadempimento totale della parte datoriale e che nel caso in cui il lavoratore intenda contestare la legittimità di un trasferimento dovrà agire giudizialmente e non potrà invece rifiutarsi di adempiere all'ordine datoriale. 

 

Contratto di lavoro a tempo determinato e licenziamento illegittimo

Cass. Sez. Lav. 22 agosto 2016, n. 17240

Pres. Venuti; Rel. Balestrieri; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. L.M.I. s.r.l.; Contr. A.S. più altri;

Contratto di lavoro a tempo determinato - Licenziamento illegittimo - Conseguenze - Diritto del lavoratore all'applicazione dell'art. 18, L. 300/1970 e dell'art. 1, L. 604/1966 - Insussistenza - Diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni fino alla scadenza del termine - Sussistenza

L'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore assunto a tempo determinato non è idonea a trasformare il contratto a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente applicazione delle tutele previste in tema di licenziamento del lavoratore a tempo indeterminato, ma comporta unicamente che il lavoratore abbia diritto a percepire le retribuzioni spettanti fino alla scadenza del termine.

Nota

Con ricorso al Tribunale del lavoro di Livorno, alcuni lavoratori, di cui uno titolare di un contratto a termine, chiedevano che venisse dichiarata la illegittimità dei licenziamenti per giusta causa intimatigli dal proprio datore di lavoro. I dipendenti, addetti alle vendite, erano stati licenziati per aver venduto e acquistato da altri colleghi una serie di prodotti a prezzi scontati oltre il consentito, in alcuni casi in misura maggiore al 90%. La Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la illegittimità dei recessi intimati in quanto, nel corso del giudizio, era emerso che le condotte contestate erano state sostanzialmente autorizzate dall'azienda.

Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per cassazione, articolando una serie di doglianze. In particolare, con l'ultimo motivo, il datore di lavoro denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, L. 604/1966 e dell'art. 18, L. 300/1970. La società rileva che uno dei tre lavoratori licenziati prestava la sua attività in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato e che dunque non potesse applicarsi nei suoi confronti la tutela di cui all'art. 1, L. 604/1966 e all'art. 18, L. 300/1970, ma, semmai, in caso di accertata assenza di giusta causa, la tutela codicistica prevista in tema di obbligazioni in generale, vale a dire il riconoscimento delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito sino alla scadenza del termine del contratto di lavoro.

La Cassazione accoglie il motivo, evidenziando che la circostanza che il lavoratore, dipendente della società in forza di un contratto a tempo determinato, sia stato licenziato per giusta causa, poi rivelatasi insussistente, non trasforma il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, con la conseguenza che non è applicabile la disciplina prevista in tema di licenziamento del lavoratore subordinato a tempo indeterminato e le relative tutele (cfr. Cass. dell'1 giugno 2005, n. 11692).

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