Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Giusta causa di licenziamento e previsioni collettive

Intimazione di un secondo licenziamento

Appalto e somministrazione irregolare

Periodo di preavviso in caso di dimissioni

Scelta dei lavoratori da collocare in mobilità

Giusta causa di licenziamento e previsioni collettive

Cass. Sez. Lav. 17 agosto 2016, n. 17125

Pres. Nobile; Rel. Manna; P.M. Giacalone; Ric. V. s.p.a..; Controric. C.M.;

Giusta causa - Nozione legale - Previsioni CCNL - Vincolatività - Potere del giudice di escludere la sussistenza della giusta causa per condotte assoggettabili ex art. 2106 c.c. a sanzioni conservative - Sussistenza - Potere del Giudice di applicare sanzioni espulsive a comportamenti ritenuti dalle parti collettive meritevoli di provvedimenti conservativi - Esclusione

Poiché quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione legale la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice del merito, così come non lo vincola la qualificazione giuridica fornita dalle parti, pertanto egli può e deve controllare la rispondenza delle norme disciplinari al disposto dell'art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili solo ad eventuali sanzioni conservative, mentre non può fare l'inverso, cioè estendere il catalogo dei comportamenti integranti giusta causa o giustificato motivo di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti.

Nota

La Corte d'Appello di Milano, in riforma del sentenza di rigetto emessa in primo grado ed in parziale accoglimento della domanda originariamente proposta, ha accertato l'avvenuta violazione dell'art. 7 L. 300/70 per mancata contestazione della recidiva nell'iter disciplinare del licenziamento intimato. Per effetto di tale vizio, avendo contestualmente riscontrato la sussistenza della giusta causa di recesso - consistente nella reiterata recidiva in mancanze disciplinari - ha condannato il datore di lavoro, ex art. 18, comma 6 St. lav., al pagamento di un'indennità quantificata in 10 mensilità.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi ed l lavoratore ha resistito con controricorso.

Nel rigettare integralmente l'impugnazione la Suprema Corte ha affermato il principio riportato nella massima, già ribadito in numerosi precedenti (Cass. 3 giugno 2015, n. 11481; Cass. 22 febbraio 2013, n. 4546; Cass. 17 giugno 2011, n. 13353) sottolineando che l'autonomia dei privati, a livello individuale o collettivo, non può ampliare il novero delle condotte passibili di licenziamento oltre i concetti di giusta causa e giustificato motivo - pena la violazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. e 1 e 3 legge n. 604/66 - mentre può fare il contrario, ossia restringerne l'area, punendo con sanzioni conservative mancanze che, altrimenti, potrebbero essere passibili di sanzioni espulsive. Ciò si riflette sull'ampiezza del controllo giurisdizionale, potendo, di fatto, il giudice disattendere il volere delle parti - individuali e collettive - solo in senso più favorevole al lavoratore, escludendo la legittimità di licenziamenti irrogati sulla base di previsioni collettive contrarie al disposto dell'art. 2106 c.c.. Diversamente, non è, invece, consentito ai giudicanti sanzionare col recesso comportamenti cui le parti hanno, nonostante l'ontologica gravità, ricondotto solo sanzioni conservative.

Applicando tali principi al caso di specie la Suprema Corte ha, in primo luogo, escluso che per un solo giorno di assenza ingiustificata - contestato dall'azienda - fosse legittimo il licenziamento per giusta causa, atteso che le previsioni collettive applicabili prevedevano tale sanzione per il ben più grave caso di tre giorni consecutivi di assenza. Contestualmente, però, la Cassazione, confermando il giudizio della Corte d'Appello, ha ritenuto ravvisabile la giusta causa di recesso consistente nella reiterata recidiva in mancanze disciplinari, rilevando, tuttavia, un vizio dell'iter procedurale previsto dall'art. 7 St. lav., non avendo la società contestato specificamente la recidiva, come ritenuto necessario dalla giurisprudenza unanime (Cass. 25 novembre 2010, n. 23924), pertanto i giudici di legittimità hanno confermato la correttezza dell'applicazione del regime indennitario contemplato per i vizi formali dal comma 6 del novellato art. 18 L. 300/70. 

 

Intimazione di un secondo licenziamento

Cass. Sez. Lav. 24 agosto 2016, n. 17305

Pres. Macioce; Rel. Torrice; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.A.; Controric. C.D.G.;

Licenziamento individuale - Tutela reale - Intimazione di un secondo licenziamento ad efficacia condizionata fondato su di un motivo diverso e sopravvenuto - Ammissibilità - Sussiste

In caso di licenziamento in regime di tutela reale, ove il datore di lavoro abbia intimato al lavoratore un licenziamento individuale, è ammissibile una successiva comunicazione di recesso dal rapporto da parte del datore medesimo, purchè il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso e sopravvenuto (nel senso di non noto in precedenza al datore di lavoro), e la sua efficacia resti condizionata all'eventuale declaratoria di illegittimità del primo.

Nota

Il Tribunale di Lagonegro, dopo aver accertato e dichiarato l'illegittimità del licenziamento senza preavviso, intimato dal Comune ad un proprio dipendente con provvedimento del 7.3.2011, per assenza ingiustificata dal servizio per 24 giorni, giustificata da certificazione medica trasmessa irregolarmente, aveva ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ed aveva condannato il Comune al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione.

La Corte di Appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il Comune a pagare al lavoratore le retribuzioni maturate dal 1.4.2011 al 15.6.2012, ed a versare i contributi previdenziali correlati a dette retribuzioni.

La Corte territoriale rilevava, infatti, che successivamente all'adozione del primo licenziamento del 7.3.2011, e successivamente alla proposizione del ricorso di primo grado, il Comune, avendo accertato che il certificato medico giustificativo della malattia era stato rilasciato da un medico libero professionista non abilitato, perché estraneo al Servizio Sanitario Nazionale, aveva nuovamente contestato l'assenza ingiustificata al dipendente ed, al termine del procedimento disciplinare, aveva adottato un nuovo e distinto atto di recesso, con provvedimento del 15.6.2012, non impugnato dal lavoratore.

La Corte territoriale riteneva, pertanto, che il secondo licenziamento del 15.6.2012, essendo fondato su di una circostanza nuova, ulteriore ed estranea, rispetto a quella addotta a giustificazione del primo atto di recesso - e connessa al fatto che il certificato attestante la malattia era stato rilasciato da un medico non abilitato, poiché estraneo al Servizio Sanitario Nazionale -, costituisse un nuovo e diverso atto di licenziamento.

Per tali ragioni, la Corte territoriale affermava che il secondo licenziamento dovesse considerarsi idoneo a risolvere il rapporto a far tempo dal 15.6.2012 e che, pertanto, l'indennità risarcitoria riconosciuta al lavoratore dovesse essere limitata al periodo ricompreso tra la data del primo e quella del secondo licenziamento, con conseguente esclusione della reintegra nel posto di lavoro.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su quattro motivi.

In particolare, il dipendente lamentava che la Corte territoriale, nel limitare la condanna risarcitoria al periodo compreso tra la data del primo licenziamento e quella del secondo, avesse erroneamente ritenuto che il provvedimento risolutivo del rapporto, adottato il 15.6.2012, non costituisse mera conferma del primo licenziamento, bensì rappresentasse un nuovo e diverso atto di recesso, con efficacia "ex nunc", del tutto autonomo e distinto rispetto al primo.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, in caso di licenziamento in regime di tutela reale, ove il datore di lavoro abbia intimato al lavoratore un licenziamento individuale, è ammissibile una successiva comunicazione di recesso da parte del datore medesimo, purchè il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso e sopravvenuto (nel senso di non noto in precedenza al datore di lavoro) e la sua efficacia resti condizionata all'eventuale declaratoria di illegittimità del primo (in tal senso cfr. Cass. 2 novembre 2015, n. 22357; Cass. 4 gennaio 2013, n. 106; Cass. 20 gennaio 2011, n. 1244; Cass. 6 marzo 2008, n. 6055).

Ciò perché, nell'area della c.d tutela reale, il primo licenziamento, in quanto illegittimo, non è idoneo ad estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato, determinando unicamente una sospensione di fatto della prestazione dedotta nel sinallagma, sino a quando, a seguito del provvedimento di reintegrazione del giudice, non venga ripristinata la situazione materiale antecedente al licenziamento.

La Suprema Corte ha, inoltre, precisato che, nel caso di plurime inadempienze del lavoratore, il datore di lavoro non può allegarne una a giustificazione del licenziamento disciplinare per poi procedere, con contestazioni a catena, ad intimare ulteriori licenziamenti, pur condizionati nell'efficacia in modo sequenziale, fondandoli su altri addebiti già noti in precedenza.

Applicando tali principi al caso in esame, la Cassazione ha rilevato che la Corte territoriale, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, aveva correttamente ritenuto che il secondo licenziamento del 15.6.2012, fosse stato giustificato sulla base di una circostanza nuova ed ulteriore, del tutto estranea al primo licenziamento, e correlata al fatto che il certificato, attestante lo stato di malattia, era stato rilasciato da un medico non dipendente della ASL, e nemmeno convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale. 

 

Appalto e somministrazione irregolare

Cass. Sez. Lav. 13 settembre 2016, n. 17969

Pres. Macioce; Rel. Torrice; P.M. Fresa; Ric. M.P; Controric. I. S.p.A. e G.S. S.c.a.r.l.;

Appalto illecito - Riqualificazione in somministrazione irregolare -Licenziamento intimato dall'appaltatore non genuino - Impugnazione stragiudiziale nei confronti del committente - Necessità - Mancanza - Decadenza

Qualora un contratto di appalto sia riqualificato come somministrazione irregolare di manodopera, tutti gli atti di gestione compiuti dall'appaltatore-interposto devono intendersi riferiti al soggetto che in concreto ha utilizzato la prestazione lavorativa; pertanto, in caso di licenziamento intimato dall'appaltatore, l'impugnazione stragiudiziale dell'atto di recesso deve essere proposta, a pena di decadenza, anche nei confronti del committente che agisce, di fatto, come datore di lavoro.

Nota

Il Tribunale di Parma accoglieva il ricorso di un lavoratore volto ad ottenere l'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con una società committente, presso la quale aveva prestato la propria attività lavorativa in forza di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa concluso con l'appaltatrice, dichiaratoria di illegittimità del recesso esercitato dall'appaltatrice nonché la condanna delle convenute al pagamento di differenze retributive.

Il giudice di primo grado, avendo accertato l'illegittimità del contratto di appalto, condannava la committente al pagamento di differenze retributive e l'appaltatrice alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro, ritenendo che il lavoratore fosse decaduto, ex art. 6 L. 604/1966, dal diritto di impugnare il licenziamento nei confronti della committente.

La Corte d'Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado, ritenendo applicabile l'art. 27, comma 2, D.Lgs. 276/2003 (richiamato dall'art. 29, comma 3-bis cit. in materia di appalto) che, nel riferire all'utilizzatore tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, imponeva al lavoratore di impugnare il licenziamento intimatogli dall'appaltatrice-interposta anche nei confronti della committente-interponente. Impugnazione che, nel caso di specie, era mancata.

Avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva in Cassazione; la committente e l'appaltatrice resistevano con controricorso.

Il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 6 L. 604/1966, sostenendo che, poiché il recesso esercitato dall'appaltatrice doveva considerarsi tanquam non esset e non avendo la committente adottato alcun licenziamento formale nei suoi confronti, non sussisteva alcun onere di impugnazione nei confronti della committente.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, perché infondato.

Infatti, ad avviso della Suprema Corte, l'art. 27, comma 2 cit., disponendo in maniera espressa ed inequivoca che "tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la gestione del rapporto (...) si intendono compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione", sancisce che l'utilizzatore subentra nei rapporti così come costituiti e poi gestiti dal somministratore (irregolare). Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha sancito l'importante principio di diritto secondo cui nei casi di costituzione d'un rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore, ai sensi dell'art. 27 comma 1 D.Lgs. 276/2003, gli atti di gestione del rapporto posti in essere dal somministratore producono nei confronti dell'utilizzatore tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento, con conseguente onere del lavoratore di impugnare il licenziamento nei confronti di quest'ultimo ai sensi dell'art. 6 della legge 604/1966. 

 

Periodo di preavviso in caso di dimissioni

Cass. Sez. Lav. 15 settembre 2016, n. 18122

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Giacalone; Ric. M.C.; Controric. C.E. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Dimissioni - Facoltà di recesso del lavoratore - Libera disponibilità da parte di quest'ultimo - Clausola apponente limiti all'esercizio di tale facoltà - Legittimità

Il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto di lavoro, come nell'ipotesi di pattuizione di un patto di prolungamento del periodo di preavviso. Non contrasta pertanto con alcuna norma o principio dell'ordinamento giuridico la clausola con cui si prevedano limiti all'esercizio di detta facoltà, stabilendosi a carico del lavoratore il rispetto di un periodo di preavviso maggiore rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva.

Nota

Il caso di specie riguarda un patto di prolungamento del periodo di preavviso concordato tra lavoratore e datore di lavoro, che prevedeva, in caso di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni del lavoratore, un preavviso (di dodici mesi) maggiore rispetto a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile (un mese); ciò, a fronte del riconoscimento al lavoratore di un assegno ad personam e di un avanzamento di livello.

La Corte d'Appello di Bologna, confermando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo tale patto e conseguentemente condannato il lavoratore al pagamento in favore del proprio ex datore di lavoro di una somma corrispondente ai mesi di preavviso non lavorati. Ad avviso della Corte d'Appello, infatti, la contrattazione collettiva attribuisce alle parti individuali la facoltà di concordare un termine di preavviso diverso e maggiore rispetto a quello individuato dal CCNL e, nel caso di specie, non si può configurare alcun contrasto con l'art. 2118 c.c., poiché tale norma rinvia, per l'appunto, alla contrattazione collettiva per la determinazione del periodo di preavviso.

Ricorreva per Cassazione il lavoratore con diversi motivi, deducendo sostanzialmente la violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 c.c.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito il consolidato principio secondo cui il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto, come nell'ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, e che non contrasta pertanto con alcuna norma o principio dell'ordinamento giuridico la clausola con cui si prevedano limiti all'esercizio di detta facoltà, stabilendosi a carico del lavoratore un obbligo risarcitorio per l'ipotesi di dimissioni anticipate rispetto ad un periodo di durata minima (cfr., da ultimo, Cass. 17010/2014).

In tale contesto, la durata legale o contrattuale del preavviso è dunque derogabile dall'autonomia individuale in relazione a finalità meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento giuridico, quale quella per il datore di lavoro di garantirsi nel tempo la collaborazione di un lavoratore particolarmente qualificato, a fronte dell'attribuzione a quest'ultimo di ulteriori benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto circa la limitazione della facoltà di recesso.

In conclusione, la pattuizione individuale di una più ampia durata del preavviso a fronte di cospicui vantaggi per il lavoratore (come, nel caso in esame, l'avanzamento del livello professionale, con l'attribuzione del relativo trattamento economico, e la corresponsione di un assegno ad personam) è dunque legittima, essendosi già affermato in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 23235/2009) il principio secondo il quale, in materia di recesso dal rapporto di lavoro, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso in denaro.

Per tali motivi la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso. 

 

Scelta dei lavoratori da collocare in mobilità

Cass. Sez. Lav. 16 settembre 2016, n. 18190

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Celentano; Ric C.B., A.A., C.E., D.B., G.U., G.P., G.R., P.M., R.G.; Controric. R.A.T..

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - Riduzione e criteri di scelta del personale - Applicazione dei criteri di scelta con riferimento all'unità produttiva - Ammissibilità - Condizioni - Indicazione delle ragioni - Necessità - Omissione - Conseguenze

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un'unità produttiva o a un settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti dell'unità o del settore da ristrutturare, in quanto ciò non sia l'effetto dell'unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione di personale.

Nota

Nella sentenza in esame, i lavoratori impugnavano i licenziamenti comunicati all'esito della procedura di licenziamento collettivo contestando che la scelta dei profili da porre in mobilità non poteva essere limitata ai soli dipendenti addetti a un unico reparto in considerazione della fungibilità dei lavoratori ritenuti in esubero.

I lavoratori, soccombenti nei primi due gradi di giudizio promosso con rito Fornero, impugnavano la sentenza del Tribunale. La Corte di Appello rigettava il ricorso.

Avverso la decisione della Corte di Appello proponevano ricorso per Cassazione i lavoratori lamentando che la corte territoriale aveva errato nel ritenere legittima la comparazione tra i lavoratori dei profili professionali in esubero nell'ambito del solo reparto di produzione affetto dalla ristrutturazione e che la comparazione andava fatta all'interno dell'intero ambito aziendale.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Infatti, secondo la Corte, nell'ambito di un licenziamento collettivo per riduzione di personale, se la ristrutturazione si riferisce a una singola unità produttiva o a un settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti dell'unità o del settore da ristrutturare purché ciò non sia l'effetto di una scelta unilaterale del datore di lavoro, ma sia conseguenza di esigenze organizzative. Secondo la Corte, i motivi di restrizione della platea dei lavoratori da comparare devono essere adeguatamente esposti nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della Legge 223/1991, onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso tra le ragioni che hanno determinato l'esubero di personale e le unità o il settore produttivo cui fanno parte i lavoratori che l'azienda intende licenziare.

Con particolare riferimento al caso in esame, secondo la Cassazione era stato correttamente rilevato dalla Corte territoriale che la società aveva informato le organizzazioni sindacali che il personale in esubero era esclusivamente quello addetto al reparto produzione interessato dalla ristrutturazione.

Infine, se è vero che secondo un recente orientamento della Suprema Corte il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a reparto oggetto della ristrutturazione se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, è parimenti vero che nella specie tale fungibilità non è emersa e che la prova di tale circostanza grava sui lavoratori, che, secondo la corte di merito, nulla hanno dedotto in ordine alla fungibilità delle mansioni proprie, rispetto a quelle svolte dagli altri lavoratori della società.

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