Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio in itinere e lavoratore in permesso sindacale
Lesione del vincolo fiduciario e licenziamento per giusta causa
Genericità della contestazione disciplinare
Il lavoratore non può rinunciare a diritti non ancora acquisiti
Abbandono del posto di lavoro e giusta causa di recesso

Infortunio in itinere e lavoratore in permesso sindacale

Cass. Sez. Lav. 7 luglio 2016, n. 13882

Pres. Mammone; Rel. Riverso; P.M. Sanlorenzo; Ric. L.A.; Controric. I.N.A.I.L.;

Infortunio in itinere - Indennizzabilità - Occasione di lavoro - Permesso sindacale - Partecipazione ad una riunione attinente l'organizzazione e la sicurezza dell'attività lavorativa - Sussiste

La partecipazione di un lavoratore, ancorché in qualità di sindacalista ed in permesso sindacale, ad una riunione promossa dal datore di lavoro presso la propria sede, ed avente ad oggetto l'organizzazione dell'attività lavorativa, non può di certo ritenersi attinente ad interessi diversi, estranei o immeritevoli di tutela rispetto a quelli presidiati dalla tutela assicurativa. Ne discende, pertanto, che deve ritenersi indennizzabile l'infortunio in itinere del quale sia stato vittima il lavoratore durante il viaggio di ritorno al cantiere dove egli alloggiava a seguito della riunione alla quale aveva partecipato mentre usufruiva di un permesso sindacale.

Nota

La Corte di Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, rigettava la domanda del lavoratore diretta ad ottenere la corresponsione dall'INAIL della rendita per inabilità permanente nella percentuale del 50%, a seguito di infortunio n itinere.

In particolare, la Corte territoriale riteneva che fossero carenti, nella specie, gli estremi per l'indennizzabilità del sinistro, sostenendo che mancasse il requisito dell'occasione di lavoro, in quanto l'incidente stradale si era verificato mentre il lavoratore si trovava in permesso sindacale retribuito ed a seguito della sua partecipazione ad una riunione, episodica ed occasionale, cui egli aveva partecipato come rappresentante sindacale.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore che deduceva, innanzitutto, violazione e falsa applicazione dell'art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, erroneamente, la Corte territoriale, avesse disatteso il ragionamento seguito dal giudice di primo grado, secondo cui la riunione alla quale aveva partecipato il lavoratore, in permesso sindacale, benché fosse aperta ai rappresentanti sindacali, doveva ritenersi funzionale all'organizzazione dell'attività lavorativa dell'impresa. Il lavoratore lamentava, altresì, che la Corte territoriale non avesse nemmeno tenuto in debito conto la circostanza, documentalmente provata, secondo cui lo stesso aveva partecipato alla riunione sindacale anche in qualità di addetto alla sicurezza e dunque anche per conto dell'azienda.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso.

La Cassazione ha osservato che la Corte d'appello aveva erroneamente escluso la riferibilità all'attività lavorativa della funzione espletata dal lavoratore come sindacalista, nonostante fosse risultato provato che la riunione era stata promossa dal datore di lavoro, presso la propria sede, ed aveva ad oggetto l'organizzazione dell'attività lavorativa, posto che nel corso dell'incontro dovevano essere discusse anche problematiche attinenti alla sicurezza delle gallerie e dei cantieri. Senza considerare, inoltre, che il ricorrente aveva partecipato alla suindicata riunione anche nella qualità di addetto alla sicurezza, e che l'incidente si era verificato durante il viaggio di rientro dalla predetta riunione al cantiere dove il lavoratore alloggiava in locali messi a disposizione degli operai dal datore di lavoro.

Sulla base di tali presupposti la Suprema Corte ha ritenuto che la partecipazione di un lavoratore, ancorché in permesso sindacale, ad una riunione che riguardi l'attività dell'impresa attenga ad interessi meritevoli di tutela e quindi rientranti tra quelli presidiati dalla tutela assicurativa.

Tale soluzione ermeneutica, oltre a porsi in linea con il complesso sviluppo della giurisprudenza di legittimità in materia di delimitazione dell'area di tutelabilità del lavoratore per infortunio in itinere (a tale riguardo cfr. Cass. 13 aprile 2016, n. 7313; Cass. 22 febbraio 2012, n. 2642; Cass. 4 aprile 2005, n. 6929; Cass. 23 aprile 2004, n. 7717; Cass. 6 ottobre 2004, n. 19940; Cass. 3 agosto 2001, n. 10750), ed ai numerosi interventi, sia della Corte Costituzionale che del legislatore, orientati nel senso dell'ampliamento della predetta tutela, risulta inoltre conforme, sul piano oggettivo, alla disciplina dettata dall'art. 12 del d.lgs. n. 38/2000. Tale norma, infatti, conferma l'estensione della tutela assicurativa all'infortunio che accada al lavoratore lungo il percorso che collega l'abitazione al lavoro e viceversa, escludendo la protezione assicurativa dell'infortunio nel solo caso di "interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro e, comunque, non necessitate".

 

Lesione del vincolo fiduciario e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 23 agosto 2016, n. 17248

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric C.G.; Controric. C.P.S.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Presupposti giustificativi - Incidenza dell'addebito sulla permanenza della fiducia - Rilevanza - Criteri di valutazione - Estremi

In tema di licenziamento per giusta causa, nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento.

Nota

Il lavoratore ha proposto ricorso con rito Fornero avverso il licenziamento per giusta causa comunicato dalla società all'esito di procedimento disciplinare. Il Giudice della fase sommaria ha rigettato il ricorso ritenendo giusta causa di licenziamento l'allontanamento del lavoratore dal luogo di lavoro di cui era responsabile dopo aver dichiarato falsamente al proprio superiore la necessità di fruire di un permesso e successivamente chiedendo alla collega responsabile del turno successivo di timbrargli il cartellino facendo così risultare completato il suo turno di lavoro.

Tale comportamento era stato ritenuto dalla Corte territoriale di gravità tale da ledere il vincolo fiduciario e quindi da non rientrare in alcuna delle ipotesi previste dal CCNL applicato al rapporto di lavoro per cui era prevista una sanzione conservativa.

Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore contestando che il comportamento tenuto non integrasse una giusta causa di licenziamento in quanto non previsto tra le ipotesi sanzionatorie del CCNL applicato e che la Società nel comminare la sanzione all'esito del procedimento disciplinare non aveva rispettato il principio di proporzionalità.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso chiarendo, con riferimento alla prima contestazione mossa dal lavoratore, che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, idoneo a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Con riferimento alla seconda contestazione, la Cassazione ha ritenuto che il comportamento del lavoratore, accertato dalla Corte territoriale, integra una giusta causa di licenziamento per la rottura dell'elemento fiduciario tenuto conto del grado di affidamento richiesto per l'espletamento delle mansioni affidate, della concretezza del fatto nella sua portata oggettiva e soggettiva soprattutto con riferimento alla sua funzione di preposto alla struttura e alla falsa attestazione di presenza in ufficio.

Genericità della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 10 agosto 2016, n. 16896

Pres. Amoroso; Rel. Boghetich; P.M. Fuzio; Ric. D.B.; Controric. A. s.p.a.;

Licenziamento disciplinare - Vizi formali - Contestazione generica - Violazione del requisito della motivazione - Sussistenza - Conseguenze - Applicazione del regime ex art. 18, comma 6 - Insussistenza del diritto alla reintegrazione

In caso di impugnazione di un licenziamento disciplinare è corretto sussumere nella previsione del comma 6 dell'articolo 18 della legge 300/1970 l'ipotesi di contestazione disciplinare che, pur contenendo una motivazione descrittiva dei profili di inadempimento rinvenuti nello svolgimento dell'attività del lavoratore licenziato, non contiene una sufficiente descrizione della condotta tenuta dal lavoratore tale da individuare i casi specifici di irregolarità e di negligenza rinvenuti. Si ha, infatti, violazione del requisito della motivazione non solo quando la motivazione sia assente, ma anche nelle ipotesi in cui sia generica, imprecisa, insufficiente sì da non consentire al lavoratore di poter apprezzare l'infrazione disciplinare che viene contestata.

Nota

La Corte d'Appello di Cagliari ha confermato la sentenza del Tribunale di rigetto dell'opposizione presentata da un lavoratore avverso l'ordinanza di parziale accoglimento dell'originario ricorso ex art. 1, comma 48 L. 92/12 in cui quest'ultimo aveva richiesto, per effetto dell'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, l'applicazione della sanzione della reintegrazione ex art. 18, comma 4 St. lavoratori. Con una valutazione condivisa dalla Corte territoriale, sia nella fase sommaria che in quella di opposizione, i giudici di primo grado hanno concluso per l'illegittimità del recesso in considerazione della genericità della contestazione disciplinare, rilevando, tuttavia, la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo di recesso, con conseguente applicazione della tutela indennitaria "debole" contemplata dal comma 6 dell'art. 18 St. lav. In particolare viene sanzionato il fatto che nella lettera di contestazione disciplinare la società ha denunciato "irregolarità" e "negligenze" nello svolgimento delle attività di addetto alle pratiche amministrative, senza, tuttavia, indicare le specifiche pratiche ove sono state rinvenute tali irregolarità, precisate solo nel corso del successivo processo.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a quattro motivi, censurando, in particolare, per quanto qui di interesse, la violazione dell'art.18 comma 4 St. lav. dovendo, a suo giudizio, rientrare nel concetto di giustificato motivo soggettivo per "insussistenza del fatto contestato" anche i vizi di forma del procedimento che consistano nella genericità e tardività della contestazione disciplinare.

Affermando il principio di cui alla massima la Suprema Corte si pronuncia per la prima volta sul tema in esame, molto dibattuto nella giurisprudenza di merito a valle dell'emanazione della L. Fornero, precisando che il vizio di genericità della contestazione disciplinare rientra in quelli del "requisito della motivazione" con conseguente applicazione della tutela indennitaria debole contemplata dal comma 6 dell'art. 18 St. Lav. Molte decisioni di merito sino ad oggi emesse hanno, invece, ritenuto che la contestazione generica violasse insanabilmente il diritto di difesa in modo da incidere sulla stessa "sussistenza del fatto contestato", meritando, quindi, la sanzione della reintegrazione.

Preme segnalare che analogo dibattito si è sviluppato nella giurisprudenza di merito anche in relazione al requisito della tempestività della contestazione e del recesso ed, anche su tale materia, la Suprema Corte è di recente intervenuta nella medesima direzione della pronunzia oggi in commento, ricomprendendo l'ipotesi nei vizi "formali" con conseguente applicazione della sola tutela indennitaria debole (Cass. 26 agosto 2016, n. 17371).

 

Il lavoratore non può rinunciare a diritti non ancora acquisiti

Cass. Sez. Lav. 12 agosto 2016, n. 17098

Pres. Venuti; Rel. Balestrieri; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. R.F.I. S.p.A.; Controric. F.A. e F.G.;

Lavoro subordinato - Rinunzie e transazioni - Art. 2113 c.c. - Annullabilità degli atti contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo - Diritti non ancora acquisiti - Fattispecie

Il regime di eventuale mera annullabilità degli atti contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, previsto dall'art. 2113 c.c., riguarda le ipotesi di rinuncia a un diritto già acquisito, mentre in caso di rinuncia all'incidenza dell'anzianità di servizio maturata ad una certa data sui diritti, derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, ancora non acquisiti nel patrimonio del rinunciante, la rinuncia viene ad assumere il valore di un atto diretto a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata in maniera inderogabile dalle norme di legge o di contratto collettivo, e ciò ne determina la nullità a norma dell'art. 1418 c.c. o l'invalidità o l'inefficacia a norma dell'art. 2077 c.c.

Nota

Il caso di specie riguarda una conciliazione intervenuta tra la società datrice di lavoro e due suoi lavoratori a definizione di un pregresso contenzioso giudiziale, nell'ambito del quale era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, l'esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato dal 1995.

Con la sottoscrizione dei verbali di conciliazione, avvenuta nel 2004, la società si era impegnata ad assumere formalmente i lavoratori ex nunc, corrispondendogli un'indennità per tutto il periodo precedente alla formale assunzione, e dichiarando di prestare acquiescenza alla sentenza limitatamente alla data di decorrenza del rapporto di lavoro.

Il Tribunale di Roma, successivamente adito dai lavoratori, riconosceva il diritto degli stessi agli scatti di anzianità maturati successivamente alla sottoscrizione dei suddetti verbali di conciliazione, deducendo che la società, pur impegnandosi ad assumere i lavoratori dal 1.11.2004, aveva espressamente riconosciuto l'esistenza del rapporto di lavoro con la decorrenza indicata del precedente giudicato (1.7.1995).

La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, precisando che la conciliazione intervenuta tra le parti, pur precludendo ai lavoratori la possibilità di rivendicare differenze retributive per scatti di anzianità maturati per il periodo precedente la formale assunzione, non precludeva il loro diritto di avvalersi di tale anzianità ai fini del computo degli scatti di anzianità maturati successivamente.

Ricorreva per Cassazione la società, deducendo che, con la sottoscrizione dei suddetti verbali di conciliazione, i lavoratori avrebbero rinunciato al riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato per il periodo precedente alla formale assunzione, con conseguente rinuncia a tutti i diritti nascenti dal rapporto di lavoro stesso, tra i quali dunque, si deve dedurre, anche il loro diritto di avvalersi dell'anzianità di servizio dal 1995.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito il consolidato principio secondo cui il regime di annullabilità degli atti contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, previsto dall'art. 2113 cod. civ., riguarda soltanto le ipotesi di rinuncia a un diritto già acquisito.

La rinuncia all'incidenza dell'anzianità di servizio (maturata ad una certa data del rapporto di lavoro) sui diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo rientra invece nell'ambito dei diritti ancora non acquisiti nel patrimonio del rinunciante, pertanto la rinuncia viene ad assumere il valore di un atto diretto a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata in maniera inderogabile dalle norme di legge o di contratto collettivo, e ciò ne determina la nullità a norma dell'art. 1418 cod. civ., o l'invalidità o l'inefficacia a norma dell'art. 2077 cod. civ. (cfr. tra le altre Cass. n. 4811/2012).

Ciò premesso, la Corte ha sottolineato che l'interpretazione dei verbali di conciliazione in oggetto effettuata dalla Corte d'Appello risulta del tutto logica, poiché gli stessi, pur precludendo ai lavoratori la possibilità di rivendicare differenze retributive per scatti di anzianità maturati in base alla anzianità pregressa nel periodo antecedente la formale assunzione, non impedisce loro di esercitare il diritto di avvalersi di tale anzianità al fine del computo degli scatti di anzianità maturati dopo l'assunzione, trattandosi di diritti che non erano ancora maturati al momento delle conciliazioni. Tale soluzione, come ha rilevato la Corte d'appello, trova riscontro negli impegni assunti dalla società in sede di conciliazione ed è anche conforme al principio affermato dalla Corte secondo cui l'anzianità di servizio non è uno status o un elemento costitutivo di uno status del lavoratore subordinato, né un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, ma rappresenta la dimensione temporale del rapporto di lavoro, nel cui ambito integra il presupposto di fatto di specifici diritti (quali quelli all'indennità di fine rapporto o agli scatti di anzianità). Essa, pertanto non può essere oggetto di atti di disposizione (traslativi o abdicativi), e non è suscettibile di autonoma prescrizione distinta da quella di ciascuno dei singoli diritti che su di essa si fondano.

Sulla scorta di tali principi, la Corte ha quindi concluso per il rigetto del ricorso.

 

Abbandono del posto di lavoro e giusta causa di recesso

Cass. Sez. Lav. 26 luglio 2016, n. 15441

Pres. Bronzini; Rel. Spena; P.M. Ghersi; Ric. F. S.p.A.; Controric. G.P.;

Abbandono del posto di lavoro - Nozione - Giusta causa di licenziamento - Rilevanza del danno derivante dalla condotta - Esclusione - Fattispecie: guardia giurata

Ai fini della fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro da parte di una guardia giurata, rileva, sotto il profilo oggettivo, l'intensità dell'inadempimento agli obblighi di sorveglianza, dovendosi l'abbandono identificare nel totale distacco dal bene da proteggere (ovvero nella completa dismissione della condotta di protezione). Costituiscono elementi di valutazione di tale condotta: l'eventuale previo accordo con altri responsabili della sorveglianza del sito e l'adozione di cautele atte a mettere lo stesso in sicurezza ed, in generale, l'idoneità dell'inadempimento del lavoratore a pregiudicare le esigenze di prevenzione proprie del servizio svolto. La durata dell'abbandono del posto di lavoro, che non necessariamente deve protrarsi per l'intero orario residuo del turno di servizio, deve essere apprezzata non già in senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incidere sulle esigenze del servizio. Tale apprezzamento, deve essere compiuto con giudizio ex ante, relativo al momento dell'inadempimento e non già ex post, alla luce del concreto verificarsi dei fatti, essendo a tal fine irrilevante il mancato verificarsi di un danno, che resta del tutto estraneo alla sfera di intervento e controllo del dipendente.

Sotto il profilo soggettivo deve evidenziarsi che l'abbandono richiede un elemento volontaristico consistente nella semplice coscienza e volontà di abbandonare il posto di lavoro, nel senso sopra definito, indipendentemente dalle finalità perseguite, fatta salva la configurabilità di cause scriminanti.

Nota

Un dipendente di una società di trasporto valori e vigilanza privata veniva licenziato (nel 2008) per giusta causa per aver abbandonato, seppur per pochi minuti, la postazione di piantonamento fisso presso la sede di un cliente, senza aver preventivamente avvisato la centrale operativa, lasciando socchiuso il cancelletto pedonale e la porta della guardiola aperta.

Tale fatto veniva riscontrato da alcuni ispettori giunti presso la sede del cliente, ai quali il dipendente riferiva di essersi recato ad un bar, poco distante, per comprare il giornale.

Il Tribunale di Arezzo accoglieva la domanda del lavoratore volta ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, sotto il profilo del difetto di proporzionalità della sanzione disciplinare, ritenendo integrato un ipotesi di momentaneo allontanamento dal posto di lavoro, piuttosto che la più grave fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro.

Tale pronuncia veniva confermata dalla Corte d'Appello di Firenze, che rigettando l'impugnazione promossa dalla società, affermava che la fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro potesse essere integrata solamente da un'assenza non momentanea, comportante una significativa interruzione della prestazione lavorativa ed alla quale corrisponda, sul versante soggettivo, la coscienza e volontà del lavoratore di sottrarsi all'adempimento delle proprie obbligazioni. Mentre, la fattispecie, meno grave, dell'abbandono del posto di lavoro, ricorrerebbe nelle ipotesi in cui il lavoratore non intenda sottrarsi ai propri obblighi, ma solo sospendere per breve tempo e per esigenze personali la propria prestazione.

Avverso tale sentenza l'azienda ricorreva in Cassazione; il dipendente resisteva con controricorso.

Il datore di lavoro lamentava, tra l'altro, violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., esponendo che i fatti contestati integrassero una violazione degli obblighi fondamentali del rapporto di lavoro incidente in modo irreversibile sul vincolo fiduciario e dunque tale da giustificare un recesso per giusta causa. La società ricorrente rilevava altresì che, ai fini della valutazione degli addebiti, era del tutto irrilevante l'effettivo verificarsi di un danno, in quanto eventualità indipendente dalla condotta del lavoratore e derivante da fattori puramente occasionali e che la distinzione - operata dai giudici di merito - tra la fattispecie di abbandono del posto di lavoro e quella di momentaneo allontanamento non trovava alcun riscontro nella disciplina collettiva applicata al rapporto.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso presentato dalla società, ha cassato con rinvio la pronuncia impugnata, affermando il principio secondo cui la fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro da parte di una guardia giurata presenta una duplice connotazione, soggettiva ed oggettiva: sotto il primo profilo, rileva l'intensità dell'inadempimento agli obblighi di sorveglianza, dovendosi l'abbandono identificare nel totale distacco dal bene da proteggere. Costituiscono elementi di valutazione di tale condotta l'eventuale previo accordo con altri responsabili della sorveglianza del sito e l'adozione di cautele atte a mettere il sito in sicurezza ed, in generale, l'idoneità dell'inadempimento del lavoratore a pregiudicare le esigenze di prevenzione proprie del servizio svolto. La durata dell'abbandono del posto di lavoro, che non necessariamente deve protrarsi per l'intero orario residuo del turno di servizio, deve essere apprezzata non già in senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incidere sulle esigenze del servizio. Tale apprezzamento, deve essere compiuto con giudizio ex ante, relativo al momento dell'inadempimento e non già ex post, alla luce del concreto verificarsi dei fatti, essendo a tal fine irrilevante il mancato verificarsi di un danno, che resta del tutto estraneo alla sfera di intervento e controllo del dipendente. Sotto il profilo soggettivo deve evidenziarsi che l'abbandono richiede un elemento volontaristico consistente nella semplice coscienza e volontà di abbandonare il posto di lavoro, nel senso sopra definito, indipendentemente dalle finalità perseguite, fatta salva la configurabilità di cause scriminanti.

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