Contenzioso

Patti di non concorrenza, derogabilità in contrasto con la tutela della parte debole

di Alessandro Limatola


La Corte di cassazione con la sentenza 17239/2016 ha ribadito due principi di diritto espressi con la pronuncia 12127/2015:
1) la disciplina introdotta per effetto della legge 422/2000 , in assenza di una norma transitoria ad hoc e in applicazione dell'articolo 11 delle preleggi, non può trovare applicazione a quei patti che, pur essendo destinati a produrre i propri effetti successivamente al 1° giugno 2001, sono stati conclusi anteriormente a tale data;
2) la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile.
I due principi enunciati dalla Suprema corte sono tra loro strettamente connessi, in quanto entrambi risentono della ritenuta non imperatività del “nuovo” articolo 1751 bis del codice civile.
Con la sentenza 17239/2016 la Cassazione ha ribadito la natura derogabile dell'articolo 1751 bis, secondo comma, del codice civile in quanto norma:
a) non presidiata da una sanzione di nullità espressa;
b) non diretta alla tutela di un interesse pubblico generale.
In relazione a tali principi alcuni spunti di riflessione appaiono opportuni. L'assenza della sanzione della nullità non vale ad affermarne la derogabilità, in quanto la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative potrebbe verificarsi indipendentemente da un'espressa comminatoria di nullità.
Del resto l'articolo 1418 del codice civile esprime un principio generale, rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione di precetti imperativi non si accompagna una specifica previsione di nullità; ciò è tanto vero che la Cassazione ha espressamente qualificato come inderogabile la disposizione prevista dall'articolo 1750 del codice civile (si veda la sentenza 5795/1994) e ciò nonostante che tale norma non commini alcuna sanzione di nullità per il caso di sua violazione.
Il vero punto dolente che la Cassazione si è trovata ad affrontare riguarda gli effetti della possibile statuizione della natura imperativa dell'articolo 1751 bis, secondo comma, del codice civile. In tal caso la stessa troverebbe applicazione anche a quei patti che, pur stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore, non abbiano ancora esaurito i propri effetti a quella data e ciò - non già per una applicazione “retroattiva” della nuova norma - ma per la sua sostituzione automatica (anche ex articolo 1419, secondo comma, del codice civile) con la difforme clausola contrattuale.
Con riguardo al punto b) e alla ritenuta natura non imperativa della norma in questione che la Corte pone in rapporto di causalità con l'affermazione secondo cui l'art.1751 bis, II comma, del codice civile non tutelerebbe “un interesse pubblico generale”.
Tuttavia l'accertamento della natura imperativa di una determinata norma di legge si risolve nell'indagine sullo scopo perseguito e, in particolare, sulla natura pubblicistica della tutela apprestata (Cassazione Sezioni unite 2697/1972; Cassazione 5795/1994).
Ciò non significa che non possano ritenersi imperative anche quelle norme che, pur destinate espressamente alla tutela del singolo soggetto, sottendano un ulteriore e diverso significato costituito dall'interesse dell'ordinamento a che certi principi cardine non siano comunque violati. Principio questo espresso anche recentemente dalla Suprema corte a sezioni unite (sentenza 26242/2014).
Accantonando per un minuto la questione concernente la natura imperativa o meno della norma in questione, va fatta l'analisi del nuovo testo dell'articolo 1751 bis, introdotto con la legge 422/2000. Lo stesso ha, per certi versi, equiparato sul piano sostanziale la figura dell'agente di commercio a quella del lavoratore subordinato.
Lo scopo perseguito dal legislatore con tale modifica normativa è infatti da ricercare in quello di garantire anche all'agente di commercio, la cui prestazione abbia i caratteri della personalità (inquadrabile così in una figura allargata di “parasubordinato”), un'indennità non solo nel caso in cui egli sia incolpevolmente rimasto senza lavoro, ma anche nel caso in cui egli sia costretto a non svolgere la propria attività nel periodo immediatamente successivo alla cessazione del rapporto, così venendo limitata quella libertà di lavoro che trova immediata e diretta tutela nell'articolo 4 della Costituzione che costituisce criterio di interpretazione del nuovo assetto normativo.
Ciò è tanto vero che il legislatore ha escluso la riconoscibilità dell'indennità per il patto di non concorrenza post contrattuale a quegli agenti (per esempio costituiti in Spa) che per le loro caratteristiche soggettive possono contare su un potere contrattuale non inferiore a quello del preponente o che, per la loro struttura organizzativa, possano non risentire delle limitazioni di operatività.
E proprio la limitazione di operatività dell'articolo 1751 bis, secondo comma, del codice civile a quegli agenti particolarmente deboli e meritevoli di protezione potrebbe indurre ad affermare la natura inderogabile della nuova normativa (che altrimenti rimarrebbe priva di significato), analogamente a quanto già statuito dalla Suprema corte relativamente all'articolo 1751 bis, primo comma, del codice civile la cui disciplina è stata definita espressamente “indisponibile dalle parti per la natura e lo spessore degli interessi in gioco” (Cassazione 19586/2010), tanto che un patto, incompatibile con le disposizioni di legge, è nullo per la parte eccedente e sostituito di diritto in base all'articolo 1419 del codice civile (Cassazione 27839/2009).
La natura imperativa e, conseguentemente, inderogabile dell'articolo 1751 bis, secondo comma, del codice civile potrebbe essere confermata dalla ratio legis finalizzata a impedire che la parte contrattualmente più debole sia costretta al rispetto dell'obbligo di non concorrenza post contrattuale senza alcun corrispettivo. Questa conclusione potrebbe ritenersi non rispondente ai principi generali ispiratori della riforma sopra richiamati.

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