Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento discriminatorio e fecondazione artificiale

La giusta causa di licenziamento

Lettera di licenziamento consegnata da un terzo

Licenziamento per assenza ingiustificata prolungata

Termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento

Licenziamento discriminatorio e fecondazione artificiale

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2016, n. 6575

Pres. Roselli; Rel. Spena; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.L.G.; Controric. S.S..

Licenziamento discriminatorio - Differenza con il licenziamento per motivo illecito - Necessità che il motivo discriminatorio sia unico e determinante - Insussistenza - Fattispecie

La discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. La nullità derivante dal divieto di discriminazione discende, infatti, direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare attraverso la mediazione dell'art. 1345 c.c., con la conseguenza che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è nullo indipendentemente dalla concorrenza di un'altra finalità, pure legittima, posta alla base della condotta datoriale (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto discriminatorio, per ragioni legate al sesso, il licenziamento intimato alla lavoratrice che aveva manifestato la volontà di assentarsi dal lavoro, per un periodo di tempo futuro, al fine di sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale all'estero, ed ha affermato che la natura discriminatoria del licenziamento non potesse essere esclusa dall'esistenza di un pur valido motivo economico, consistente nella ripercussione negativa delle assenze sull'organizzazione del lavoro).

Nota

La Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, accoglieva la domanda proposta da una lavoratrice volta ad ottenere la dichiarazione di nullità/illegittimità del licenziamento intimatole dal datore di lavoro (titolare di uno studio professionale). In particolare, la Corte territoriale dichiarava la nullità del licenziamento, in quanto discriminatorio rispetto al proposito, manifestato dalla lavoratrice, di assentarsi dal lavoro (per un periodo futuro) al fine di sottoporsi all'estero a pratiche di inseminazione artificiale e, pertanto, ordinava disporsi la reintegrazione della lavoratrice, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla reintegra e al versamento dei contributi.

Avverso tale sentenza, il datore ha proposto ricorso per cassazione, evidenziando, in particolare, che: a) non poteva ritenersi sussistere il motivo discriminatorio o illecito a fronte di una condotta della lavoratrice intesa ad utilizzare l'istituto delle assenze per malattia al di là dei limiti ad esso propri, non essendo configurabile una assenza per malattia in "prevenzione"; b) la discriminatorietà e la natura unica e determinante del motivo illecito risultavano escluse dal tenore della lettera di licenziamento, nella quale si evidenziava, quale effettiva ragione del recesso, il motivo economico, costituito dalle ricadute negative delle assenze programmate sulla funzionalità dello studio.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando come la sentenza gravata, nel dichiarare nullo il licenziamento per discriminatorietà, ha fatto corretta applicazione del "principio di non discriminazione per ragioni di genere", di cui la direttiva 76/207 sulla "parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego" costituisce attuazione concreta. Ed invero, la Corte territoriale rilevava che l'unica ragione del provvedimento di recesso adottato dal datore di lavoro doveva ricercarsi nella "reazione" alla decisione della dipendente di assentarsi per sottoporsi all'inseminazione artificiale. Mediante il licenziamento, secondo la Corte d'Appello, era stata sanzionata una condotta legittima (id est: procedere ad un trattamento medico finalizzato alla maternità) avente carattere esclusivamente femminile. A fondamento del proprio decisum, la Corte di merito richiamava la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 26/02/2008, causa C 506/06, che ha ritenuto discriminatorio il licenziamento comunicato alla lavoratrice prima dell'impianto nell'utero degli ovuli fecondati in vitro, ove sia dimostrato che detto licenziamento sia stato essenzialmente determinato dalla peculiare condizione in cui versava la lavoratrice o dalla sua futura maternità. Nel suddetto precedente, il giudice europeo ha evidenziato che, nella fattispecie esaminata, non era applicabile la direttiva 92/85, richiamata dal giudice del rinvio (ed, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti disposto dall'art. 10, n. 1 della suddetta direttiva), essendo rilevante, piuttosto, la tutela contro la discriminazione fondata sul sesso, riconosciuta dalla direttiva 76/207.

Ebbene, la Corte di legittimità, nel confermare la pronuncia della Corte di merito, ha sottolineato che, per la qualificazione di un licenziamento come discriminatorio, rileva unicamente il "rapporto di causalità" tra il trattamento di fecondazione e l'atto di recesso e non anche la circostanza che l'intervento - con il conseguente impedimento al lavoro - sia stato semplicemente programmato (come nel caso in esame), sia in corso (come nella fattispecie scrutinata dalla Corte di Giustizia), ovvero sia stato già effettuato.

La Corte, poi, passando ad esaminare il secondo profilo di censura sollevato dalla datrice, ha ritenuto che la natura discriminatoria del licenziamento non potesse essere esclusa dalla esistenza di un, pur valido, "motivo economico", consistente nella esigenza di non compromettere l'organizzazione lavorativa dello studio professionale a causa delle future assenze della lavoratrice.

Ed invero - ha osservato la Suprema Corte - l'assunto attoreo ha come implicito presupposto la riconducibilità del licenziamento discriminatorio nell'ambito della fattispecie del licenziamento determinato da motivo illecito ex art. 1345 c.c., che sussiste soltanto allorquando il motivo illecito sia esclusivo e determinante. A sostegno di tale tesi, milita l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis 27/02/2015, n. 3986; Cass. 08/08/2011, n. 17087; Cass. 18/03/2011, n. 6282; Cass. 09/07/2009, n. 16155) che assimila il licenziamento discriminatorio al licenziamento ritorsivo, con conseguente nullità del licenziamento allorquando il motivo illecito sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova.

Ebbene, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, prende le distanze da tale ultimo orientamento, affermando che la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare per la "mediazione" dell'art. 1345 c.c. e, dunque, senza che sussista il motivo illecito unico e determinante. La condotta discriminatoria è idonea, quindi, di per sé sola a determinare la nullità del licenziamento, a prescindere dalla volontà illecita (ritorsiva) del datore di lavoro.

La Corte ha ritenuto tale interpretazione conforme al dettato normativo sia nazionale (art. 3, l. 308/90; art. 4, l. n. 604/1966; art. 15, l. n. 300/1970, nonché art. 4, L. 125/1991 e art. 28, D.lgs. 150/2011) sia comunitario (v. direttiva 76/207, secondo cui la discriminazione "diretta" fondata sul sesso, a differenza delle discriminazioni "indirette", è di per sé vietata, indipendentemente dal "fine" e dalle ragioni poste alla base della condotta discriminatoria), con la conseguenza che la normativa nazionale, ove interpretata nel senso di consentire una discriminazione diretta fondata sul sesso per concorrenza di un'altra finalità, pure legittima (nella specie, il dedotto motivo economico) sarebbe contraria alla direttiva.




La giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 25 marzo 2016, n. 6015

Pres. Nobile; Rel. Tricomi; P.M. Celentano; Ric. V.N. S.r.l.; Contr. C.B.B.S.;

Licenziamento per giusta causa - Dirigente - Valutazione sulla riconducibilità del fatto contestato a una sanzione conservativa - Non ricorre - Irrilevanza delle previsioni del contratto collettivo - Sussumibilità del fatto nell'ambito della giusta causa di licenziamento - Lesione irrimediabile del vincolo fiduciario - Sindacato del giudice del merito - Poteri

La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo: ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso di licenziamento per giusta causa di un dirigente; tuttavia, è bene chiarire sin d'ora che le argomentazioni della pronuncia esulano dalla specialità delle regole previste per il licenziamento del dirigente, potendosi applicare all'intera area del lavoro subordinato. In particolare, rileva che il Tribunale aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento irrogato, ritenendo che ai fatti contestati il contratto collettivo riconducesse una sanzione conservativa; invece, la Corte d'Appello, ribaltando la pronuncia di primo grado, aveva ritenuto i fatti posti a base del licenziamento gravi al punto da legittimare la massima sanzione espulsiva: accertando quindi la legittimità del licenziamento irrogato.

La sentenza presenta diversi profili di interesse, soprattutto con riguardo al potere del giudice del merito di valutare i fatti posti a base del licenziamento: più precisamente, in relazione alla domanda se - ed eventualmente in quale misura - il Giudice sia vincolato alle previsioni in materia disciplinare, contenute nel contratto collettivo.

Ebbene, la Corte innanzitutto enuncia un principio interpretativo senza dubbio di favor verso il lavoratore, limitando in via generale il potere di (diverso) apprezzamento del giudice di un fatto previsto specificamente dalla contrattazione collettiva come riconducibile ad una sanzione conservativa. Affermano infatti i giudici di legittimità: "un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, qualora sia contemplato come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, salvo che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva". Quindi, a meno che non si rinvenga una chiara diversa volontà delle parti in relazione a fatti connotati da una particolare gravità, la previsione di una sanzione conservativa a fronte di un determinato inadempimento del lavoratore vincola il giudice: con la conseguenza che quest'ultimo non potrà ricollegare al medesimo fatto una diversa - e più grave - sanzione, in sostanza superando in senso sfavorevole al lavoratore le previsioni contrattual-collettive.

Invece, al di fuori di condotte specificamente considerate nei contratti collettivi, il giudice del merito può valutare la gravità dei comportamenti addebitati, applicando la sanzione ritenuta congrua. E ciò, pacificamente, vale anche per i casi in cui la gravità dei fatti abbia fatto venir meno il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, così legittimando un licenziamento per giusta causa. Infatti, prosegue la Cassazione, "la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo: ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore". Quanto sopra, sempre in virtù del favor riconosciuto alla parte debole del rapporto, non comporta però che il giudice rimanga vincolato - altresì - alla sanzione espulsiva eventualmente prevista dal contratto collettivo a fronte di specifiche condotte, tipizzate dalla stessa fonte contrattuale. Infatti, a parere della Corte, ben può il giudice "escludere (...) che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato".

Di conseguenza, una volta esclusa la riconducibilità ad una determinata condotta di una sanzione meramente conservativa, il giudice rimane libero di apprezzare la gravità degli addebiti contestati, potendo altresì ritenere integrata - o, viceversa, esclusa - la previsione di cui all'art. 2119 c.c., che consente il licenziamento c.d. in tronco del lavoratore.




Lettera di licenziamento consegnata da un terzo

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2016, n. 6067

Pres. Nobile; Rel. Tricomi; P.M. Celentano; Ric. C.M. s.r.l.; Contr. D.R.;

Lettera di licenziamento consegnata da un terzo - Ratifica successiva ad opera del datore di lavoro - Art. 1399 c.c. - Ammissibilità

Qualora la lettera di licenziamento venga consegnata non dal datore di lavoro ma da un terzo che non risulti a tal fine delegato, la giurisprudenza ritiene applicabile la disciplina dettata dall'art. 1399 c.c. - che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso da un soggetto privo del potere di rappresentanza - anche ai negozi unilaterali come il licenziamento, in virtù del rinvio operato dall'art. 1324 c.c.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, una lavoratrice proponeva, presso il Tribunale del lavoro di Nocera Inferiore, due distinti ricorsi nei confronti del proprio datore di lavoro, chiedendo, con il primo, il riconoscimento delle differenze retributive maturate per il lavoro straordinario e, con il secondo, che venisse dichiarata l'inefficacia o l'illegittimità del licenziamento intimatole dalla società.

La Corte di appello di Salerno, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda della lavoratrice avente ad oggetto il pagamento delle differenze retributive relative al lavoro straordinario mentre accoglieva la domanda relativa al licenziamento, dichiarandolo inefficace. Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per cassazione evidenziando, innanzitutto, che la circostanza che la lettera di licenziamento fosse stata consegnata dal commercialista della società, non comportava l'illegittimità dello stesso in quanto la giurisprudenza ha rilevato che sussiste la facoltà di ratifica da parte dell'organo competente, ratifica che nel caso di specie poteva considerarsi implicita nella costituzione in giudizio del soggetto titolare del potere di rappresentanza.

La Suprema Corte accoglie il motivo e, richiamando il proprio orientamento, statuisce che, nell'ipotesi in cui la lettera di licenziamento sia stata consegnata da un soggetto terzo rispetto alla società, nel caso di specie il commercialista, si applica la disciplina dettata dall'art. 1399 c.c. - che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso da un soggetto privo del potere di rappresentanza - anche ai negozi unilaterali come il licenziamento, in virtù del rinvio di cui all'art. 1324 c.c. (v. in proposito Cass. dell'1 dicembre 2008, n. 28514).

Con successivo motivo la società censura la sentenza di merito per violazione dell'art. 1334 c.c., in quanto, considerato che il licenziamento è un negozio unilaterale recettizio, lo stesso produce i suoi effetti nel momento in cui viene a conoscenza del destinatario, conseguentemente la corte di appello aveva errato nel ricondurre gli effetti estintivi ad un momento anteriore.

La Suprema Corte ritiene fondata anche tale doglianza ed afferma che erroneamente il collegio aveva ritenuto che la cessazione del rapporto si fosse verificata prima della comunicazione del licenziamento alla lavoratrice, considerando a tal fine sufficiente la mera comunicazione all'ULPMO avvenuta in precedenza. Ciò in quanto, prosegue la Cassazione, come correttamente sostenuto dalla società ricorrente, il licenziamento, quale negozio unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore (nello stesso senso Cass. del 24 marzo 2014, n. 6845).




Licenziamento per assenza ingiustificata prolungata

Cass. Sez. Lav. 31 marzo 2016, n. 6260

Pres. Roselli; Rel. Torrice; Ric. S.S.; Controric. E. S.r.l.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Fattispecie - Assenza ingiustificata dal lavoro - Legittimità - Accertato demansionamento ai danni del lavoratore - Irrilevanza

In tema di licenziamento per assenza ingiustificata prolungata, il carattere arbitrario dell'assenza e la sua idoneità a costituire giusta causa di licenziamento non può ritenersi scriminato dalla circostanza che la datrice di lavoro abbia demansionato il lavoratore.

Nota

La decisione della Suprema Corte in commento ha ad oggetto la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato in conseguenza di una prolungata assenza ingiustificata, contro cui la lavoratrice ha eccepito che l'assenza era dovuta anche al demansionamento perpetrato ai suoi danni. Con sentenza del Tribunale di Milano veniva accertato il demansionamento ai danni della lavoratrice da parte della società datrice di lavoro ma, al contempo, veniva respinta la domanda di accertamento del licenziamento per giusta causa intimato ai danni della prima in conseguenza di un'assenza ingiustificata dal lavoro di 9 giorni lavorativi. La sentenza veniva poi confermata dalla Corte d'Appello che sosteneva, per quanto qui interessa, che era stato dimostrato che l'assenza si fosse protratta per 9 giorni lavorativi e, quindi, ben otre il termine di 5 giorni che il CCNL applicato al rapporto sanzionava con il licenziamento con preavviso. La lavoratrice impugnava la sentenza sotto vari profili. In particolare la stessa sosteneva la violazione degli standard valutativi della giusta causa e del principio di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto all'inadempimento contestato, oltre che l'omessa valutazione del contesto aziendale nel quale si collocava l'assenza. Quanto al contesto aziendale, infatti, la lavoratrice sosteneva che - tra le altre cose - non era stato tenuto in alcuna considerazione il fatto che l'assenza era avvenuta a seguito di un demansionamento operato ai suoi danni per oltre un anno.

La Suprema Corte ha respinto tutte le doglianze della lavoratrice, rigettando l'intero ricorso.

Quanto ai profili sopra analizzati, nello specifico, la Suprema Corte ha rilevato che, benché sia corretto sostenere che la valutazione della lesione dell'elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro sia da valutare con rispetto agli aspetti concreti della fattispecie quali la natura del rapporto e la posizione delle parti, la valutazione del caso concreto operata dalla Corte d'Appello era stata corretta.

La Corte ha, infatti, rilevato che la lavoratrice era venuta meno al suo dovere primario e fondamentale di rendere la prestazione assentandosi ingiustificatamente per 9 giorni lavorativi. Quanto poi al contesto aziendale e con specifico riferimento all'accertato demansionamento, ha affermato che il carattere arbitrario dell'assenza e la sua idoneità a costituire giusta causa di licenziamento non può ritenersi scriminato dalla circostanza che la datrice di lavoro abbia demansionato la lavoratrice.

Il licenziamento è stato ritenuto, quindi, legittimo.




Termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2016, n. 2747

Pres. Macioce; Rel. Buffa; Ric. P.G.; Controric. S.S.S. S.r.l.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento - Decorrenza del termine di decadenza per impugnare - dalla comunicazione del recesso e non dall'effettiva cessazione del rapporto - fondamento.

Il licenziamento, quale negozio unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore giunge a conoscenza del dipendente, sicché la decorrenza del termine di decadenza, per l'impugnazione del recesso, opera dalla comunicazione del licenziamento e non dal momento, eventualmente successivo, di cessazione dell'efficacia del rapporto.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce quale sia il dies a quo del termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento nell'ipotesi in cui la data di ricezione della comunicazione di recesso da parte del prestatore non coincida con quella di cessazione dell'efficacia del rapporto di lavoro, ancorché postergata per effetto del prolungamento del periodo di preavviso.

Nella specie, la Corte territoriale, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore, sull'assunto che quest'ultimo fosse decaduto dal relativo diritto ex art. 6, L. 15 luglio 1966, n. 604, non avendo impugnato il recesso nel termine di legge.

La Cassazione conferma la decisione della Corte di merito, evidenziando, anzitutto, che il licenziamento, quale negozio unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore giunge a conoscenza del dipendente, sicché la decorrenza del termine di decadenza, per l'impugnazione del recesso, opera dalla comunicazione del licenziamento e non dal momento, eventualmente successivo, di cessazione dell'efficacia del rapporto.

Principio, questo, che, a parere dei Giudici di legittimità, non soffre deroghe neppure nell'ipotesi in cui, dopo il recesso, si realizzi il trasferimento dell'azienda presso la quale operava il lavoratore licenziato, atteso che il cessionario dell'azienda subentra in tutti i rapporti dell'azienda ceduta nello stato in cui si trovano, ivi compreso il rapporto caratterizzato da un licenziamento intimato dal cedente, con conseguente onere, per il lavoratore, di impugnare il recesso nei sessanta giorni per evitare di incorrere nella predetta decadenza. Col corollario - enunciato dalla Suprema Corte - che il cessionario, convenuto in giudizio ex art. 2112 c.c., potrà opporre tutte le eccezioni relative al rapporto di lavoro, alle modalità della sua cessazione o alla tutela applicabile al cedente avverso il licenziamento, a prescindere dalle difese spiegate da quest'ultimo e dalla formazione del giudicato nei suoi confronti ed in favore del lavoratore.

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