Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Procedura di selezione di personale idoneo alla promozione

Demansionamento e danno non patrimoniale

Divieto di fumo negli ambienti di lavoro

Esenzione contributiva dell'incentivo all'esodo

Infortunio sul lavoro, danno patrimoniale e danno biologico

Procedura di selezione di personale idoneo alla promozione

Cass. Sez. Lav. 1° marzo 2016, n. 4031

Pres. Macioce; Rel. Patti; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. A.P.E.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Qualifiche - Promozioni - Affidamento a soggetto terzo della graduatoria - Discrezionalità del datore di lavoro - Sussistenza Risarcimento del danno - In genere - Danno non patrimoniale da demansionamento del lavoratore - Automaticità - Esclusione - Onere di allegazione e prova specifica - Necessità

Il ricorso ad una procedura di selezione esterna affidata a società che operi una valutazione con attribuzione di punteggio e formazione di una graduatoria, non implica ex se l'eliminazione della discrezionalità del committente nell'utilizzare la selezione, se non sia provato, a cura dell'interessato, che la graduatoria sia ritenuta vincolante per il committente.
In tema di danno da demansionamento, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.

Nota

Con sentenza della Corte d'Appello di Roma la società datrice di lavoro veniva condannata a risarcire al lavoratore il danno da perdita di chances per non essere stato incluso tra gli ottantanove soggetti che erano stati nominati dirigenti a seguito di una procedura di selezione del personale idoneo alla promozione affidata a società terza, pur essendo stato inserito al sessantottesimo posto nella graduatoria stilata da tale ultima società. Sul punto la Corte territoriale aveva rilevato una violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte della società ed un comportamento contraddittorio della stessa nella misura in cui, da una parte, avrebbe dimostrato di non volersi avvalere di alcuna libertà in merito alla scelta del personale da promuovere (affidando la selezione a società terza), dall'altra aveva deciso di non procedere alla scelta dei dirigenti secondo un ordine vincolante di graduatoria. La società era stata altresì condannata al risarcimento del danno da demansionamento poiché il lavoratore, nell'ultimo periodo del suo rapporto di lavoro, era stato totalmente privato delle sue mansioni. La Corte territoriale sosteneva di aver posto alla base di tale ultima condanna una serie di presunzioni semplici emerse in corso di causa. Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la società datrice di lavoro sulla base di tre motivi. Con i primi due motivi si sosteneva, rispettivamente, che la Corte territoriale fosse incorsa in errore nel ritenere che la società aveva male utilizzato la discrezionalità nella scelta organizzativa sulle nomine dirigenziali pur in assenza di vincoli giuridici in tal senso e l'erroneo accertamento del danno da perdita di chances (neppure specificamente dimostrato) in difetto di un ordine vincolante di graduatoria. Il terzo motivo riguardava il danno da demansionamento, in merito al quale la società sosteneva che la Corte territoriale lo aveva ritenuto in re ipsa.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati i primi due motivi, congiuntamente esaminati, sostenendo che il ricorso a società di selezione esterne, in assenza di bandi o atti equiparati, resti relegato al piano interno senza configurare alcun impegno negoziale a rispettare i risultati dell'operato del terzo. Ha proseguito, poi, la Cassazione sostenendo che, in mancanza di tali vincoli, neppure è configurabile una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, essendo gli stessi strumentali ad altra obbligazione che definisca i contenuti dell'esatto adempimento. Deve pertanto ritenersi che, in mancanza di un'autolimitazione dei poteri gestionali del datore di lavoro, il cui onere della prova resta in capo al lavoratore interessato, resti rimessa al datore stesso la scelta dei dipendenti da promuovere.

Anche il terzo motivo è stato ritenuto fondato. La Suprema Corte ha rilevato che le presunzioni cui la Corte territoriale aveva fatto riferimento erano state applicate in esclusiva funzione della liquidazione del danno e non della sua sussistenza, ed ha ribadito che il danno professionale - non potendo essere ritenuto automatico in caso di demansionamento - deve essere specificamente allegato e provato dal lavoratore. In virtù di quanto sopra la Suprema Corte ha cassato con rinvio l'intera sentenza.




Demansionamento e danno non patrimoniale

Cass. Sez. Lav. 7 marzo 2016, n. 4430

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.P.; Contr. A.S.L. R.;

Danno non patrimoniale - Danno alla salute - Omnicomprensività - Ristoro integrale del pregiudizio - Pregiudizi identici nella sostanza ma con nomi diversi - Non duplicabilità delle voci risarcitorie

Il danno non patrimoniale da lesione alla salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione ribadisce un orientamento già fatto proprio dalle Sezioni unite (Cass. SS.UU. 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26973, c.d. sentenze di San Martino), in materia di risarcimento del danno non patrimoniale. Nel caso in esame, a seguito di un demansionamento di cui nel medesimo giudizio era stata accertata l'illegittimità, il ricorrente lamentava l'incongruenza della somma già riconosciutagli a titolo di danno non patrimoniale:

nella specie quale "danno alla salute" (o biologico). La Cassazione rigetta la domanda del ricorrente, ritenendo che la Corte d'Appello abbia rispettato il principio secondo cui "il giudice del merito nella liquidazione del danno non patrimoniale è tenuto a perseguire una "personalizzazione" del danno, che passi attraverso la individuazione di criteri valutativi parametrata sulla specificità del caso esaminato e, conseguentemente, dando il dovuto rilievo anche alla natura ed alla entità delle sofferenze ed alle consequenziali ricadute sul vivere quotidiano del danneggiato". Indi, la Corte rileva la correttezza dell'iter argomentativo seguito dai giudici di merito, i quali hanno effettuato le valutazioni a tal uopo richieste, proprio "al fine di debitamente garantire l'integralità del ristoro spettante al danneggiato". Pertanto, posto che, in base al sopra menzionato orientamento delle Sezioni Unite, "il danno non patrimoniale da lesione alla salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva", ragion per cui ai fini della sua liquidazione "il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima", la Cassazione rileva che nella specie il danno appena menzionato - individuato e calcolato in base ai sopradetti criteri - è in effetti stato riconosciuto al ricorrente, naturalmente nella misura ritenuta congrua alla luce delle risultanze di causa. L'avvenuta liquidazione del danno non patrimoniale (nella specie, biologico), in ragione della sopracitata natura "ampia ed omnicomprensiva" dello stesso, rende impossibile il riconoscimento al ricorrente di voci risarcitorie ulteriori a titolo, sempre, di danno non patrimoniale. Queste ultime, infatti, pur se individuate con nomi diversi da quello relativo al profilo di danno non patrimoniale già attribuito ("danno alla salute"), si riferiscono egualmente a pregiudizi già entrati a far parte della valutazione che ha condotto alla liquidazione del sopradetto danno biologico. Alla luce di ciò, la Corte ritiene che il ristoro di tali voci ulteriori di danno non patrimoniale (come in effetti richiesto dal ricorrente) costituisca mera duplicazione della posta risarcitoria già attribuita a titolo di danno biologico e che, pertanto, tale domanda non meriti accoglimento.




Divieto di fumo negli ambienti di lavoro

Cass. Sez. Lav. 3 marzo 2016, n. 4211

Pres. Roselli; Rel. De Gregorio; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.A.M.; Controric. e ricorr. incid. R. S.p.A..

Risarcimento danni per esposizione al fumo passivo - Responsabilità a carico del datore di lavoro - Sussistenza - Inidoneità di circolari e direttive sul divieto di fumo a costituire prova liberatoria ex art. 1218 c.c.

L'emanazione di circolari e direttive sul divieto di fumare negli ambienti di lavoro - senza che sia stata irrogata alcuna sanzione disciplinare per omessa osservanza del divieto - non costituisce misura idonea a contrastare i rischi da esposizione al fumo passivo, né, di conseguenza, idonea prova liberatoria, ai sensi dell'art. 1218 c.c., tale da escludere la responsabilità (di natura contrattuale), a carico di parte datoriale, per i danni derivanti da esposizione al fumo passivo.

Mansioni - Divieto di variazione peggiorativa - Necessità - Criterio di equivalenza in concreto - Operatività - Riclassamento - Ammissibilità - Limiti - Rispetto dell'art. 2103 c.c. - Necessità

Il divieto di variazione peggiorativa, di cui all'art. 2103 cod. civ., comporta che al prestatore di lavoro non possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito, e garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali. Né l'osservanza dei criteri di cui all'art. 2103 cod. civ. può essere disattesa in sede di contrattazione collettiva, neppure nell'ipotesi del cosiddetto "riclassamento", che, pur implicando un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza delle mansioni, non può in ogni caso condurre allo svilimento della professionalità acquisita dal singolo lavoratore, mediante una equivalenza verso mansioni, che, anche se rivalutate, abbiano in concreto l'effetto di mortificarla.

Nota

La fattispecie, sottoposta al vaglio della Suprema Corte, attiene al giudizio promosso da una giornalista che, dopo aver ricoperto per numerosi anni il ruolo di conduttore di telegiornale nazionale, assumeva di essere stata demansionata dalla propria datrice di lavoro, per essere stata assegnata al ruolo di "capo servizio nella redazione cultura" (mansioni dalla stessa originariamente disimpegnate) con conduzione di un programma in orario notturno e, per di più, con apporto professionale di pressochè minima entità. Chiedeva, pertanto, il riconoscimento del risarcimento del danno professionale e morale, in ragione del patito demansionamento, nonché il danno biologico derivante da esposizione a fumo passivo.

Il Tribunale di Roma accoglieva entrambe le domande. La Corte territoriale, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, escludeva la violazione dell'art. 2103 c.c., ritenendo sostanzialmente equivalenti il ruolo di "capo servizio nella redazione cultura" (id est: conduzione di rubriche culturali e/o realizzazione di servizi culturali) e quello di conduttore di telegiornale, mentre confermava il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro per l'esposizione della lavoratrice al cd. fumo passivo, con conseguente condanna della società al risarcimento del danno biologico e morale (liquidandolo anzi in misura maggiore, sulla base di una seconda consulenza tecnica d'ufficio).

A sostegno di tale conclusione, la Corte osservava, alla luce dell'istruttoria espletata, che: 1) non risultava provato in giudizio l'assunto attoreo secondo cui la lavoratrice era stata privata del potere di apportare il proprio contributo nella individuazione dei contenuti delle rubriche e dei servizi della redazione culturale; 2) doveva affermarsi la responsabilità di parte datoriale ex art. 2087 c.c. per non aver posto in essere misure idonee a prevenire la nocività dell'ambiente lavorativo derivante dal fumo, come risultante altresì dal supplemento di perizia, disposto in secondo grado, che aveva confermato la riconducibilità eziologica della patologia riscontrata a carico della lavoratrice alle condizioni di lavoro. Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso la società la quale proponeva, altresì, ricorso incidentale (avverso la parte della sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento del danno biologico in ragione della nocività dell'ambiente di lavoro), deducendo violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., anche in relazione all'art. 1223 c.c., per aver la Corte di merito riconosciuto la responsabilità per danni da "fumo passivo" sebbene mancassero puntuali e precisi elementi a carico del datore di lavoro, che si era adoperato, invece, emanando specifiche circolari e direttive. La Suprema Corte ha accolto il ricorso principale, cassando la sentenza gravata con rinvio alla medesima Corte d'Appello (in diversa composizione), e rigettato il ricorso incidentale. Ebbene, la Corte di legittimità, rifacendosi a numerosi altri precedenti, ha posto a base del proprio decisum i ben noti principi in materia di demansionamento, secondo cui: a) l'onere probatorio (circa il legittimo esercizio del potere direttivo) è a carico del datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. 08/07/2014 n. 15527; b) l'equivalenza delle mansioni và accertata in concreto, dovendo il giudice di merito accertare se le nuove mansioni (ancorchè rientranti nella medesima qualifica contrattuale) siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente e se ne favoriscano l'accrescimento professionale (Cass. 03/02/2015, n. 196; Cass. 04/03/2014, n. 4989; Cass. n. 14/06/2013, n. 15010; Cass. sez. un. 24/11/2006, n. 25033); c) l'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. non può essere disatteso neppure in sede di contrattazione collettiva, nell'ipotesi di cd. "riclassamento" - allorquando viene operato un riassetto e/o accorpamento delle qualifiche - non potendo il datore di lavoro adibire il lavoratore a differenti mansioni che, seppure compatibili con la nuova classificazione, sviliscono comunque il suo bagaglio professionale (Cass. 25/09/2015, n. 19037).

La Suprema Corte ha ritenuto che la pronuncia gravata non fosse in linea con i suesposti principi sia perché si colloca nella prospettiva (errata) di un onere probatorio a carico della lavoratrice, sia perché, nella valutazione circa l'equivalenza delle mansioni svolte, non ha tenuto conto della specifica pluriennale professionalità maturata dalla lavoratrice nella conduzione di telegiornali (oltre che nella attività di redazione propedeutica alle edizioni dalla stessa condotte); mansioni, da ritenersi entrambe, di più ampio respiro e di maggiore portata rispetto a quelle di caposervizio nella redazione Cultura (comportanti un apporto professionale minimo).

La Corte di legittimità ha, altresì, respinto il ricorso incidentale proposto dalla società non ravvisando, nella pronuncia gravata, alcuna violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e considerato che il ricorso tendeva sostanzialmente ad una nuova valutazione di merito (inammissibile in cassazione) rispetto a quella già effettuata dalla Corte territoriale con motivazione, peraltro, esente da vizi. Ed invero, la Corte di merito aveva evidenziato che la società si era limitata a richiamare circolari e disposizioni organizzative - senza neppure allegare di aver inflitto una qualche sanzione disciplinare (per violazione del divieto di fumo) - e che, dunque, la stessa non aveva fornito la prova liberatoria ex art. 1218 c.c. sulla stessa incombente. L'efficacia causale della manchevole condotta datoriale era stata, poi, confermata da ben due consulenze tecniche d'ufficio (svolte in entrambi i gradi di giudizio).

Pertanto, nel confermare la pronuncia della Corte d'Appello romana, la Suprema Corte ha affermato l'importante principio secondo cui l'emanazione di circolari e direttive sul divieto di fumare negli ambienti di lavoro non costituisce misura idonea a contrastare i rischi da esposizione al fumo passivo, né, di conseguenza, prova idonea a "liberare" ex art. 1218 c.c. il datore di lavoro dalla responsabilità risarcitoria per danni da esposizione al fumo passivo.




Esenzione contributiva dell'incentivo all'esodo

Cass. Sez. Lav. 3 marzo 2016, n. 4212

Pres. Roselli; Rel. Berrino; Ric. R.T.I. S.p.A.; Controric. I.N.P.G.I.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - In genere - Somme corrisposte al lavoratore - Esclusione dalla retribuzione imponibile - Condizioni - Finalità di incentivazione dell'esodo - Individuazione delle somme erogate con tali finalità - Criteri.

In relazione alla cessazione dal rapporto di lavoro di singoli lavoratori, rientrano tra le somme che, ai sensi dell'art. 4, comma secondo bis, del d.l. 30 maggio 1988, n. 173, convertito nella legge 26 luglio 1988, n. 291, vanno escluse dalle retribuzione imponibile in quanto corrisposte, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, non solo quelle conseguite con un apposito accordo per l'erogazione dell'incentivazione anteriore alla risoluzione del rapporto, ma tutte quelle che risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro per incentivare l'esodo, potendo risultare ciò sia da una indicazione in tal senso nell'atto unilaterale di liquidazione delle spettanze finali, sia da elementi presuntivi. In particolare, la predetta norma non condiziona l'esonero dal versamento della contribuzione previdenziale delle somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro alla contestualità tra la loro erogazione e la cessazione del rapporto.

Nota

La sentenza in commento chiarisce i presupposti dell'esonero contributivo delle somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto o che, comunque, traggono origine dalla predetta cessazione.

Nella specie, i Giudici del merito avevano statuito l'imponibilità previdenziale delle somme corrisposte ad alcuni lavoratori sull'assunto che i rispettivi rapporti di lavoro fossero già cessati al momento del pagamento delle somme, "per cui queste ultime non potevano rappresentare un incentivo ad un esodo già realizzato".

La Suprema Corte confuta tale criterio di giudizio, chiarendo, anzitutto, che - ai sensi dell'art. 12, c. 4, della legge n. 153 del 1969, come modificato dall'art. 6, c. 1, della legge n. 314 del 1997 - rientrano tra le somme che vanno escluse dalla retribuzione imponibile, in quanto corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, non solo quelle conseguite con un apposito accordo per l'erogazione dell'incentivazione anteriore alla risoluzione del rapporto, ma tutte le somme che risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro ai fini di incentivare l'esodo, potendo risultare ciò sia da un'indicazione in tal senso nell'atto unilaterale di liquidazione delle spettanze finali, sia da elementi presuntivi.

In definitiva - soggiunge la Cassazione - la normativa in esame non condiziona l'esonero dal versamento della contribuzione previdenziale delle somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro alla contestualità tra la loro erogazione e la cessazione del rapporto.

Col corollario, in tema di riparto degli oneri probatori, che incombe sull'ente previdenziale, asserito creditore, l'onere di allegare e dimostrare la sussistenza di uno "specifico titolo retributivo" atto a giustificare la pretesa contributiva invocata.




Infortunio sul lavoro, danno patrimoniale e danno biologico

Cass. Sez. Lav. 1 marzo 2016, n. 4025

Pres. Manna; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. L.F.F; Contr. L.F.P.;

Art. 13 D. Lgs. 38/2000 - Infortuni e malattie verificatisi dopo il 9 agosto 2000 - Danno patrimoniale e danno biologico - Entrambi liquidati dall'INAIL - Infortuni e malattie verificatisi prima del 9 agosto 2000 - Danno patrimoniale - Liquidato dall'INAIL - Danno biologico - Liquidato dal datore di lavoro

L'art. 13 del D. Lgs. 38/2000 ha previsto - per le malattie e gli infortuni verificatisi o denunciati dopo il 9 agosto 2000 - l'estensione della copertura assicurativa obbligatoria dell'INAIL anche al danno biologico, in quanto l'ente previdenziale accerta e liquida sia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica sia il danno biologico patito dal lavoratore alla propria integrità psico-fisica. Al contrario, per gli eventi verificatisi in data precedente, l'INAIL liquidava esclusivamente il danno patrimoniale arrecato alla capacità lavorativa generica, conseguentemente tale rendita non deve essere sottratta dal calcolo del danno non patrimoniale.

Nota

La corte di appello di Catanzaro in riforma della sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Rossano, condannava il datore di lavoro al pagamento di una somma in favore del lavoratore a titolo di danno differenziale per l'infortunio subito nel gennaio del 1998 durante lo svolgimento delle mansioni di muratore edile.

Avverso tale sentenza, il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando, con il primo motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 10 Dpr. 1124/1965 e 13 del D. Lgs. 38/2000, per avere la sentenza erroneamente, a parere del ricorrente, effettuato la decurtazione della rendita erogata dall'INAIL dagli importi calcolati dal consulente tecnico, comparando termini tra loro disomogenei atteso che la rendita dell'INAIL considerava esclusivamente il danno patrimoniale alla capacità lavorativa generica (trattandosi di infortunio avvenuto nel 1998) mentre il pregiudizio quantificato in sede giudiziale teneva conto unicamente del danno non patrimoniale.

La Corte di cassazione accoglie il motivo, rilevando che il D. Lgs. 38/2000 ha previsto, per gli infortuni e le malattie verificatesi o denunciate dopo il 9 agosto 2000, - data di entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo - l'estensione della copertura assicurativa obbligatoria dell'INAIL anche al danno biologico. In tal caso l'INAIL accerta e liquida sia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica sia il danno biologico patito dal lavoratore alla propria integrità psico-fisica. Al contrario, per gli eventi verificatisi prima del 9 agosto 2000 - come nel caso di specie - l'ente previdenziale liquidava esclusivamente il danno patrimoniale arrecato alla capacità lavorativa generica, in forma di rendita rapportata alla retribuzione e al grado di inabilità.

Pertanto, a parere della Suprema Corte, erroneamente il consulente tecnico d'ufficio - e per esso la corte di merito - ha detratto dal danno biologico stimato le somme erogate dall'INAIL a titolo di rendita, trattandosi di voci di danno completamente differenti.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l'errata quantificazione compiuta dal giudice di appello in quanto, pur avendo quest'ultimo fatto correttamente riferimento alle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano, - ritenute dalla Cassazione valido parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico (cfr. Cass. 13982/2015) - ha però liquidato una somma a titolo di danno biologico inferiore rispetto a quanto previsto dalle predette tabelle. La Suprema Corte accoglie anche tale secondo motivo e afferma il principio secondo cui, il giudice, pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una motivazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, in sede di liquidazione equitativa del danno ex artt. 1226 e 2059 c.c., ad individuare validi criteri di giudizio parametrati alla specificità del caso e ad esplicitarli in sede di motivazione (cfr. Cass. 9231/2015). Ciò in quanto la categoria generale del danno non patrimoniale presenta natura composita articolandosi in una serie di voci aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (inteso quale patema d'animo o sofferenza interiore), il danno biologico (inteso quale lesione al bene salute) e il danno esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del danneggiato), delle quali - ove ricorrano ed adeguatamente allegate - occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento.

 

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