Contenzioso

Rassegna della cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Pluralità di dirigenti a diversi livelli e organizzazioni aziendali complesse

Diritto di assemblea e condotta antisindacale del datore di lavoro

Trasferimento ed eccezione di inadempimento

La tempestività della contestazione disciplinare

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 8 febbraio 2016, n. 2421

Pres. Venuti; Rel. Tria; P.M. Ghersi; Ric. D.A.; Controric. P.I. S.P.A.;

Licenziamento collettivo - Accordo sindacale - Criteri di scelta - Applicazione della procedura di mobilità ai soli lavoratori addetti al reparto soppresso –Legittimità

E' legittima la scelta di limitare la procedura di mobilità ad un solo reparto qualora ciò sia coerente con le motivazioni espresse nella comunicazione di avvio della procedura e sia intervenuto al riguardo un accordo con le OO.SS..

Nota

La Corte di appello di Brescia confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento intimato al lavoratore da parte della società datrice di lavoro nell'ambito della procedura per licenziamento collettivo aperta con comunicazione del 20 giugno 2012. La Corte territoriale rigettava le censure con cui il lavoratore deduceva la violazione dell'art. 4, comma 3 della legge n. 223/1991, in relazione alla genericità della comunicazione di avvio della procedura di mobilità, sia per la mancanza dei requisiti di attualità, specificità e concretezza delle causali di mobilità, sia per la mancata indicazione, nella comunicazione di avvio della procedura, dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi che avevano impedito di evitare, in tutto o in parte, l'adozione di soluzioni alternative. In ordine a tali censure la Corte territoriale osservava che, nella specie, nella comunicazione aziendale di avvio della procedura erano state indicate, con un criterio di ragionevolezza, le ragioni della soppressione del reparto dismesso, di cui risultava più conveniente l'esternalizzazione ed, inoltre, era specificato che erano stati scelti tutti gli addetti al suddetto reparto - che costituiva un settore specifico dell'attività - in numero di cinque dipendenti, precisando altresì le ragioni che avevano impedito l'adozione di soluzioni alternative. Pertanto, la Corte rilevava che la comunicazione di avvio della procedura era stata idonea a consentire la negoziazione e la conclusione dell'accordo sindacale e che, il criterio unico di scelta, rappresentato dalla appartenenza al reparto dismesso, era stato obiettivo e razionale, ragion per cui non era necessaria alcuna prova dell'assenza nel dipendente di altre specifiche professionalità idonee a garantirgli di essere utilmente impiegato in altro reparto. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore, fondato su sei motivi. Sostanzialmente il lavoratore sosteneva l'illegittimità della disposta limitazione della applicazione della procedura di mobilità ai soli addetti al reparto soppresso, sostenendo che di tale scelta la datrice di lavoro non avrebbe fornito idonee giustificazioni e che, comunque, sarebbe mancata una adeguata verifica giudiziale del giustificato motivo oggettivo che era alla base della collocazione in mobilità. Il dipendente impugnava, altresì, la statuizione della Corte di appello nella parte in cui aveva ritenuto che, nella specie, non era necessaria alcuna prova in merito al possesso, da parte del lavoratore, di altre specifiche professionalità idonee a garantirgli di essere utilmente impiegato in un differente reparto. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Innanzitutto, la Suprema Corte ha osservato che, ove sia stato raggiunto l'accordo sui criteri di scelta con le organizzazioni sindacali (come era accaduto nella specie), non operano i criteri legali sussidiari previsti dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, art. 5, comma 1, criteri questi ultimi che comportano il conseguente mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente ad un reparto o ad una sede soppressa se esso sia idoneo - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda -, ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti. A questi principi, ha proseguito la Suprema Corte, si è pienamente uniformata la Corte bresciana nella sentenza impugnata, nella parte in cui, con motivazione congrua e logica, ha affermato la legittimità della scelta di limitare la procedura di mobilità ad un solo reparto, dopo aver riscontrato e valutato l'avvenuto rispetto dei principi generali stabiliti dalla legge per l'avvio della procedura medesima, e dopo aver dato atto di un accordo intervenuto con le OO.SS. al riguardo. In virtù di tali ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.




Pluralità di dirigenti a diversi livelli e organizzazioni aziendali complesse

Cass. Sez. Lav. 29 febbraio 2016, n. 3981

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Finocchi Ghersi; Ric A.N.M. S.p.A.; Controric. C.L.;

Lavoro subordinato - Categoria - Dirigente - Pluralità di dirigenti a diversi livelli in azienda - Ammissibilità - Condizioni

In organizzazioni aziendali complesse è ammissibile - anche in riferimento alla prassi aziendale ed alla concreta organizzazione degli uffici - la previsione di una pluralità di dirigenti (a diversi livelli, con graduazione di compiti) i quali sono tra loro coordinati da vincoli di gerarchia, che però facciano salva, anche nel dirigente di grado inferiore, una vasta autonomia decisionale circoscritta dal potere direttivo generale di massima del dirigente di livello superiore.

Nota

Il caso di specie trae origine dal ricorso promosso dal lavoratore avanti il Tribunale di Napoli, al fine di ottenere il riconoscimento del proprio diritto all'inquadramento nella categoria dirigenziale, con conseguente condanna della società datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive. A sostegno della propria tesi, la società convenuta deduceva, invece, che il ricorrente era stato inserito all'interno di una struttura gerarchica ove il ruolo dei preposti alle singole unità aziendali (tra cui il ricorrente) non poteva assumere il livello di responsabilità proprio di un dirigente. Il ricorso del lavoratore veniva accolto in primo grado e confermato in secondo grado, in seguito ad appello proposto dalla società. In particolare, alla base della propria decisione, la Corte d'Appello sosteneva che ben può esistere, in sistemi aziendali complessi, una pluralità di dirigenti a diversi livelli e che l'istruttoria svolta in primo grado aveva consentito di accertare che il ricorrente era stato preposto a dirigere un'intera unità aziendale, e che la responsabilità di tale unità era rimasta in capo al ricorrente anche in presenza di una figura dirigenziale intermedia, rappresentata dal Direttore Operativo, il quale, in posizione di sovra-ordinazione rispetto ai responsabili delle singole unità operative, operava in funzione di raccordo tra questi ultimi e il Direttore Generale, dettando direttive di carattere programmatico. Contro la sentenza della Corte di Appello ricorreva per Cassazione la Società, contestando, con unico motivo di ricorso, la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di secondo grado. La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, sottolineando che l'iter argomentativo posto a base della decisione di secondo grado era stato congruamente motivato e non era affetto da vizi logici, non incorrendo pertanto in alcuna violazione di legge, poiché il giudice di appello non aveva omesso di valutare il tratto caratteristico della figura del dirigente d'azienda, consistente nell'autonomia e discrezionalità delle scelte decisionali in grado di incidere sugli obiettivi aziendali, e ne aveva desunto la sussistenza, nel caso di specie, dalle caratteristiche della struttura organizzativa aziendale e dell'unità diretta dal lavoratore. Tali principi sono, inoltre, conformi a diritto, atteso che negli assetti organizzativi delle imprese, se di rilevanti dimensioni, ben possono coesistere dirigenti di diverso livello (cfr. Cass. n. 14885/2000) e che la previsione di una pluralità di dirigenti (a diversi livelli, con graduazione di compiti) tra loro coordinati, è ammissibile purché sia fatta salva anche nel dirigente di grado inferiore un'ampia autonomia decisionale, circoscritta solo dal potere direttivo generale di massima del dirigente di livello superiore (cfr. Cass. n. 8650/2005). Per tali motivi, la Corte ha rigettato il ricorso.



Diritto di assemblea e condotta antisindacale del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 26 febbraio 2016, n. 3837

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Finocchi Ghersi; Ric P.I. S.p.a.; Controric. C.

Lavoro subordinato - Associazioni sindacali - Sindacati - Assemblea sindacale - Repressione della condotta antisindacale - Presupposti - Condotte tipizzate o comunque obiettivamente idonee a limitare la libertà sindacale - Elemento intenzionale - Necessità - Esclusione.

La condotta antisindacale di cui all'articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 1970), può riscontrarsi anche nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il Giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale.

Nota

Con ricorso ex articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, un'organizzazione sindacale chiedeva che fosse dichiarata antisindacale la condotta di una Società consistita nell'aver messo a disposizione per lo svolgimento di un'assemblea sindacale locali inidonei, in quanto esterni e distanti dal luogo di lavoro. Il Tribunale di Milano revocava in sede di opposizione il decreto pronunciato. La sentenza del Tribunale, impugnata dalla Società, veniva riformata dalla Corte di Appello di Milano, che riconosceva il carattere antisindacale della comunicazione del luogo dell'assemblea. Riteneva, infatti, la Corte di Appello, che fosse censurabile lo scarsissimo preavviso dato all'organizzazione sindacale, che aveva avanzato la sua richiesta con largo anticipo (circa quindici giorni prima della data prevista per l'assemblea): la comunicazione del luogo dell'assemblea venne, infatti, data dalla Società di sabato per l'assemblea del lunedì successivo, ossia, ribadisce la Corte, per un lasso di tempo (peraltro coincidente con il fine settimana), che non consentiva all'associazione di avvisare i convocati.

Contro la sentenza della Corte di Appello ricorreva per Cassazione la Società adducendo, tra gli altri motivi, che l'organizzazione sindacale aveva introdotto solo in appello, e dunque tardivamente, la questione della ristrettezza dei tempi tra la comunicazione datoriale della sede esterna messa a disposizione e il giorno fissato per l'assemblea e l'insussistenza del comportamento antisindacale ove il datore non aveva rifiutato di concedere il locale aziendale, avendone messo a disposizione uno idoneo dove svolgere le assemblee. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Da una parte, la Cassazione ha ritenuto inammissibile la censura relativa alla proposizione di una nuova domanda nel giudizio di Appello in quanto proposta con mezzo di gravame inidoneo, dall'altra ha ritenuto il ricorso infondato in quanto per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) è sufficiente che il comportamento controverso leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro.

In particolare, come statuito a più riprese dalla Suprema Corte (Cass. 22 aprile 2004, n. 7706) la condotta antisindacale di cui all'articolo 28 è rinvenibile anche in ipotesi di condotte astrattamente lecite, ma in concreto atte a comprimere la libertà sindacale. Ciò che rileva, in sede di accertamento, è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre la lesione della libertà sindacale. Nel caso in esame, secondo la Suprema Corte, la Corte di appello ha ben evidenziato come la ristrettezza dei tempi con i quali l'azienda aveva comunicato la sede esterna per lo svolgimento dell'assemblea era idonea a costituire causa di oggettivo impedimento per il sindacato che non era stato posto in grado di pubblicizzare l'assemblea tra i lavoratori.



Trasferimento ed eccezione di inadempimento

Cass. Sez. Lav. 29 febbraio 2016, n. 3959

Pres. Amoroso; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. A S.p.A.; Controric. P.L.A.;

Licenziamento per assenza ingiustificata - Trasferimento - Rifiuto del lavoratore di prendere servizio - Eccezione di inadempimento - Necessaria equivalenza tra inadempimento e prestazione rifiutata - Mancata disponibilità del lavoratore a svolgere la prestazione presso la sede originaria - Illegittimità

Il trasferimento realizzato in assenza delle prescritte ragioni tecniche, organizzative e produttive, legittima il rifiuto del dipendente di assumere servizio nella sede diversa cui sia stato destinato a condizione che tra l'inadempimento e la prestazione rifiutata vi sia equivalenza. In tal senso, occorre procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.
Nel caso di trasferimento illegittimo idoneo a pregiudicare gli interessi personali e familiari del dipendente, il rifiuto di assumere servizio presso la sede di destinazione dev'essere accompagnato dalla seria ed effettiva manifestazione di disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, in caso contrario, l'assenza dal lavoro sarebbe arbitraria non essendovi proporzione tra l'inadempimento datoriale, attinente solo al luogo della prestazione, ed il rifiuto del lavoratore.

Nota

All'esito di una procedura di liquidazione coatta amministrativa di un'impresa assicurativa, la Corte d'Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, condannava la convenuta ad assumere il ricorrente presso la sede di Roma.

Tuttavia, la società assegnava il dipendente alla sede di Torino, ove lo stesso prendeva servizio. Sei anni dopo, gli veniva comunicato il trasferimento presso la sede di Milano. Al termine di un periodo di assenza per malattia, iniziato prima della comunicazione di trasferimento, il lavoratore manifestava la propria disponibilità a riprendere servizio esclusivamente presso la sede di Roma. La società ribadiva che presso tale sede non vi era alcun posto di lavoro disponibile, confermando il trasferimento a Milano.

Il dipendente, considerando illegittimo il trasferimento, non si presentava sul luogo di lavoro, né a Milano, né a Torino, né a Roma. Stante l'assenza ingiustificata per oltre cinque giorni, la società intimava il licenziamento per giusta causa.

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale, accoglieva la domanda del lavoratore volta ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro presso la sede di Roma o, in subordine alla comprovata mancanza di posti ivi disponibili, presso la sede di Torino, oltre al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegra.

La Corte territoriale rilevava che il lavoratore non aveva mai prestato acquiescenza al trasferimento presso la sede di Torino, considerandolo quale mera trasferta ed avendo più volte richiesto e sollecitato di essere assegnato alla sede di Roma in ottemperanza alla precedente sentenza di condanna. Il trasferimento da Torino a Milano veniva considerato illegittimo, in quanto la società non aveva effettuato alcuna indagine per trovare al lavoratore un'altra occupazione presso la sede di Torino e perché effettuato senza il consenso del lavoratore, previsto da alcuni accordi sindacali nonché dall'art. 33, comma 5, L. 104/1992 dato che il ricorrente assisteva la madre affetta da grave disabilità. La Corte considerava quindi legittimo il rifiuto del lavoratore al trasferimento presso la sede di Milano, quale eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., con conseguente illegittimità del licenziamento.

Avverso tale sentenza la società ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.

La società, tra gli altri motivi di ricorso, lamentava la violazione o falsa applicazione dell'art. 1460 c.c., sostenendo che il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione avrebbe potuto essere giustificato solo da un inadempimento totale ad obbligazioni fondamentali (quali quella retributiva o contributiva), non già da un inadempimento attinente al solo luogo di svolgimento della prestazione.

La Corte di Cassazione - dopo aver ribadito il principio (già affermato, tra le altre, in Cass. 27844/2009) secondo cui il trasferimento posto in essere in assenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive prescritte dall'art. 2103 c.c., legittima il rifiuto del dipendente di assumere servizio presso la nuova sede di lavoro - ha accolto tale motivo di ricorso, sottolineando che il richiamo dell'art. 1460, comma 2, c.c. alla nozione di buona fede, comporta la necessità che tra inadempimento e rifiuto della prestazione vi sia equivalenza, in modo tale che tra il primo giustifichi il secondo. A tal fine è necessario procedere ad una valutazione comparativa dell'inadempimento e della prestazione rifiutata, con riguardo alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto di lavoro nonché alla rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni e sugli interessi delle parti delle stesse (principio già espresso in Cass. 4474/2015 e Cass. 11430/2006).

La Corte di Cassazione ha altresì precisato che nel caso di trasferimento illegittimo idoneo a pregiudicare gli interessi personali e familiari del dipendente, il rifiuto di assumere servizio presso la sede di destinazione dev'essere accompagnato dalla seria ed effettiva manifestazione di disponibilità del lavoratore a prestare servizio presso la sede originaria, altrimenti l'assenza dal lavoro sarebbe arbitraria non essendovi proporzione tra l'inadempimento datoriale, che non attiene a tutti gli aspetti del rapporto sinallagmatico, ma solo al luogo della prestazione, ed il rifiuto del lavoratore.

Ad avviso della Suprema Corte, il rifiuto (totale) del lavoratore - che, ritenendo illegittimo il trasferimento a Milano, aveva rifiutato di svolgere la propria prestazione non solo presso tale sede, ma anche a Torino, ove lavorava da oltre cinque anni - sarebbe legittimo solo a fronte dell'effettiva disponibilità a Roma di un posto di lavoro e dell'ingiustificato rifiuto della società di adibire il lavoratore presso tale sede.

Dato che la Corte territoriale aveva omesso di svolgere tale indagine, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio.




La tempestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2016, n. 2743

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Servello; Ric. P.I. s.p.a..; Controric. S.P.;

Contestazione disciplinare - Principio di immediatezza e tempestività - Valutazione in senso relativo - Compatibilità con intervallo temporale maggiore se necessari particolari accertamenti

Il requisito dell'immediatezza della contestazione disciplinare deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore.

Nota

La Corte d'Appello di Roma ha riformato la decisione del Tribunale che aveva accolto il ricorso proposto dalla società volto ad accertare la legittimità di una sanzione disciplinare conservativa (sospensione per 5 giorni) irrogata ad una dipendente che aveva incassato e versato sul conto del titolare un assegno non trasferibile intestato ad un soggetto diverso.

I giudici del gravame hanno accolto il primo motivo di ricorso vertente sull'eccezione di tardività della contestazione disciplinare, ritenendo che essa fosse tardiva per carenze imputabili all'azienda che, per un unico fatto verificatosi il 16 settembre 2002, aveva atteso il 4 febbraio 2003 per avviare la procedura disciplinare poi conclusasi il 11 marzo 2003. In particolare la Corte d'Appello ha ritenuto che, sin dal compimento dell'atto, sarebbe stato possibile per la società risalire, attraverso verifiche contabili e documentali, al dipendente autore dell'operazione di incasso del titolo, essendo già disponibili tutti gli elementi a tal fine necessari. La dilatazione temporale aveva, invece, trovato ragione negli accertamenti eseguiti in ordine al soggetto che aveva provveduto all'incasso ed al suo conto, ovvero, a parere dei giudici territoriali, in accertamenti ultronei ed irrilevanti rispetto alla posizione della dipendente che aveva compiuto l'operazione e che era stata destinataria del provvedimento disciplinare in esame. Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo volto a censurare la valutazione di irrilevanza data dalla Corte d'Appello agli accertamenti effettuati dalla società nelle more tra il fatto e la sua contestazione al fine di verificare se la dipendente avesse agevolato la commissione dell'illecito penale.

La Suprema Corte accoglie il motivo di ricorso ed afferma il principio di cui alla massima, già ribadito in precedenti analoghi (Cass. 1 luglio 2010, n. 15649; Cass 10 settembre 2013, n. 20719; Cass 20 giugno 2014, n. 14103). Osserva la Corte che il comportamento negligente della dipendente si collocava in una vicenda più complessa che aveva visto coinvolte altre persone e della quale occorreva definire i tratti essenziali onde stabilire se la condotta della dipendente potesse aver agevolato la commissione dell'illecito penale. Si precisa, inoltre, che il fatto che le inadempienze poi contestate fossero conoscibili negli stessi termini sin da poco dopo il verificarsi del fatto non rileva ai fini della valutazione della tempestività della contestazione in quanto esse risultavano dagli accertamenti ritenuti occorrenti e giustificati dalla natura della vicenda. Peraltro, aggiunge la Corte, il differimento della contestazione necessitato dalla sussistenza di contorni della vicenda ancora non chiari è funzionale anche all'interesse dell'incolpato di esercitare compiutamente le proprie difese, che solo una vicenda ben definita può consentire di articolare.

Il ricorso viene, pertanto, accolto e la causa rinviata alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.

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