Contenzioso

Rassegna della cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sul riparto degli oneri di allegazione e prova in materia di demansionamento

Accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro

Dimissioni per giusta causa del lavoratore

Il calcolo della quota di riserva ai lavoratori invalidi

Infortunio sul lavoro a responsabilità del datore

Sul riparto degli oneri di allegazione e prova in materia di demansionamento

Cass. Sez. Lav. 22 dicembre 2015, n. 25780

Pres. Venuti; Rel. Ghinoy; P.M. Sanlorenzo; Ric. I.W.R. srl; Controric. M.M..

Demansionamento - Onere di allegazione e prova dell'inesatto adempimento dell'obbligo ex art. 2103 cod. civ. - A carico del lavoratore - Sussistenza - Onere di allegazione e prova dell'esatto adempimento di tale obbligo - A carico dello stesso datore di lavoro – Sussistenza

Quando il lavoratore denuncia l'illegittimità dell'esercizio dello ius variandi a causa di demansionamento o dequalificazione, ha l'onere di allegare gli elementi di fatto significativi circa l'inesatto adempimento dell'obbligo di adibizione a mansioni corrispondenti alla categoria e qualifica di appartenenza o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte (art. 2103 c.c.). Al datore di lavoro incombe, invece, l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero mediante la prova che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Nota

La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che, in accoglimento della domanda proposta da un lavoratore, riteneva sussistente, alla luce della prova testimoniale espletata, il demansionamento posto in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro.

Quest'ultimo, avverso tale sentenza, proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi.

In particolare, il ricorrente denunciava violazione di legge (art. 2103 c.c.) e vizio di motivazione, per aver la Corte d'Appello omesso qualsivoglia comparazione tra il vecchio e il nuovo incarico e per aver valorizzato, nella motivazione, circostanze fattuali dalle quali non emergerebbe alcun concreto ed effettivo demansionamento.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando i ben noti principi (già affermati da Cass. Sez. un. 30/10/2001, n. 13533; Cass. 06/03/2006, n. 4766; Cass. 08/07/2014, n. 15527; Cass. 17/09/2015, n. 18223) sul riparto degli oneri di allegazione e prova in materia di demansionamento. La Corte di legittimità ha, infatti, ribadito che, se sul lavoratore grava l'onere di allegare e provare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, sul datore di lavoro incombe l'onere di fornire la "prova contraria", ovvero di provare l'esatto adempimento del suo obbligo. Tanto può avvenire attraverso la prova: 1) o della mancanza in concreto di qualsiasi demansionamento; 2) o del legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari tale da giustificare il demansionamento; 3) o, comunque, di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 cod. civ.. Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, avendo la stessa rilevato che, a fronte delle risultanze fattuali che dimostravano la sussistenza del demansionamento, nessuna circostanza la società aveva dedotto e provato in senso contrario.

Sotto, poi, il lamentato profilo del vizio di motivazione, la Suprema Corte ha ritenuto tale pronuncia immune da censure - avendo la Corte di merito dato conto, con argomentazione logicamente congrua, delle fonti del proprio convincimento - e reputando, al contrario, le censure avversarie volte, sostanzialmente, a sollecitare una rivisitazione del quadro probatorio, inammissibile in Cassazione, a fronte di una congrua valutazione dello stesso da parte del Giudice di merito.




Accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2016, n. 2653

Pres. Macioce; Rel. D'Antonio; Ric. C.G.; Controric. F. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - In genere - Differenze dal lavoro autonomo -Natura del rapporto avente ad oggetto prestazioni di natura intellettuale - Carattere subordinato o autonomo - Accertamento - Criteri - Qualificazione data dalle parti al rapporto di lavoro come di collaborazione coordinata e continuativa - Rilevanza - Esclusione - Indici di qualificazione fattuali - Necessità

Con riferimento a prestazioni di carattere intellettuale che non richiedono alcuna organizzazione imprenditoriale né postulano un'assunzione di rischio a carico del lavoratore, il criterio fondamentale per l'accertamento della natura (autonoma o subordinata) del rapporto di lavoro è costituito dall'esistenza di un potere direttivo del datore di lavoro. Pertanto, la qualificazione del rapporto di lavoro, operata dalle parti, come contratto di collaborazione coordinata e continuativa non assume rilievo dirimente in presenza di elementi fattuali - quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali - che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto stesso.

Nota

Con sentenza della Corte d'Appello di Venezia, che confermava la pronuncia impugnata del Tribunale territoriale, veniva rigettata la richiesta del ricorrente di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in capo alla società F. S.p.A. In particolare il ricorrente, per oltre dieci anni amministratore delegato di tre società controllate dalla F. S.p.A., sosteneva di aver lavorato per quest'ultima società per tutto il tempo, prendendo direttive ed ordini dalla stessa.

La Corte territoriale da una parte affermava la natura subordinata dell'attività svolta dal ricorrente in favore delle tre società controllate da F. S.p.A., dall'altra rigettava la richiesta di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo a quest'ultima sostenendo che il ricorrente, a tal fine, avrebbe dovuto allegare la simulazione del frazionamento dell'unica attività fra diversi soggetti.

Contro tale sentenza ricorreva per Cassazione l'amministratore sostenendo, tra l'altro, il vizio di motivazione della sentenza d'Appello in relazione all'obbligo di dimostrare la simulazione al fine di ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, avendo egli proposto azione di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato con unico soggetto: F. S.p.A. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Da un lato, infatti, la Cassazione ha ritenuto corretta la tesi del ricorrente per cui, avendo egli chiesto l'accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato in capo alla sola società controllante, non è necessaria ai fini dell'accoglimento della domanda l'allegazione e la prova della simulazione rispetto al frazionamento dell'attività tra più soggetti; dall'altro, però, ha rilevato che l'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato richiede in ogni caso l'esistenza dell'assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro e, conseguentemente, l'allegazione e la prova degli elementi che l'art. 2094 c.c. e la giurisprudenza formatasi sul punto ritengono essere rivelatori della subordinazione. In particolare, ha sostenuto la Cassazione che "con riferimento a prestazioni di carattere intellettuale che non richiedono alcuna organizzazione imprenditoriale né postulano un'assunzione di rischio a carico del lavoratore, il criterio fondamentale per l'accertamento della natura (autonoma o subordinata) del rapporto di lavoro è costituito dall'esistenza di un potere direttivo del datore di lavoro" e che "la qualificazione del rapporto di lavoro, operata dalle parti, come contratto di collaborazione coordinata e continuativa non assume rilievo dirimente in presenza di elementi fattuali - quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali - che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto stesso". La mancata indicazione concreta e specifica di tali elementi in relazione al rapporto del ricorrente con F. S.p.A. ha determinato il rigetto del ricorso.




Dimissioni per giusta causa del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 17 dicembre 2015, n. 25384

Pres. Stile; Rel. Esposito; P.M. Ceroni; Ric. D.M.P.; Contr. B.P. s.c.a.r.l.;

Chiusura divisione aziendale - Soppressione posizioni lavorative - Esercizio libertà di iniziativa economica - Art. 41 Cost. - Sussistenza - Dimissioni per giusta causa lavoratore – Insussistenza

La libertà di iniziativa economica, riconosciuta dall'art. 41 della Costituzione all'imprenditore, comporta che il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzzative e produttive che legittimano le scelte imprenditoriali deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, e non può essere dilatato fino a ricomprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che la scelta organizzativa aziendale concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Cassazione, un lavoratore aveva fatto ricorso al giudice del lavoro, deducendo di essere stato assunto da un istituto bancario, con inquadramento nella categoria di dirigente; di essere stato addetto ad uno specifico settore; che, a seguito di una riorganizzazione avvenuta nel 2003 al vertice dell'azienda, la società aveva deciso di rinunciare a tale settore di attività iniziando trattative con i lavoratori ivi addetti per giungere ad una risoluzione consensuale incentivata dei rapporti di lavoro. Il ricorrente sosteneva di aver ricevuto offerte di incentivazione all'esodo e di averle rifiutate perchè ritenute insufficienti; quindi, di essersi dimesso per giusta causa nel settembre del 2003. Conveniva in giudizio, pertanto, il proprio datore di lavoro chiedendo che fosse condannato al pagamento di somme a titolo di risarcimento del danno da demansionamento, di bonus, di indennità di preavviso. Il Tribunale rigettava integralmente le domande.

Il ricorrente interponeva appello e la corte di merito rigettava il gravame sul presupposto dell'avvenuta cessazione dell'attività nella divisione cui era stato addetto il ricorrente, con soppressione delle posizioni lavorative, e della dimostrata ricerca da parte dell'azienda di una soluzione condivisa per lo scioglimento del rapporto anche attraverso l'erogazione di incentivi economici. Conseguentemente, la Corte di appello riteneva insussistente la giusta causa di dimissioni in quanto la cessazione dell'attività del dirigente era una conseguenza delle legittime scelte aziendali, integrante la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e, in tal caso, la tutela economica del lavoratore era assicurata dalla misura dell'incentivo offerto dal datore di lavoro, superiore all'indennità di preavviso.

Avverso tale sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando violazione di legge, sostenendo che, una volta accertato che, per scelta aziendale, non era più stato messo in condizione di mantenere la propria posizione di lavoro, doveva ritenersi integrata l'ipotesi di cui all'art. 2119 c.c. cioè l'impossibilità di una prosecuzione anche temporanea della prestazione lavorativa e, conseguentemente, il suo diritto a rassegnare le dimisioni per giusta causa.

La Suprema Corte respinge il ricorso, evidenziando che le dimissioni per giusta causa presuppongono la sussistenza di un grave inadempimento da parte del datore di lavoro, mentre la Corte di merito aveva spiegato, con ragionamento congruo, che la decisione della società di cessare l'attività della divisione cui era addetto il ricorrente e di sopprimere le posizioni di lavoro afferenti, non era sindacabile nella sua discrezionalità in quanto espressione della libertà di iniziativa economica, tutelata dall'art. 41 Cost.

Tali affermazioni, a parere della Corte, trovano conferma nella giurisprudenza della sezione che, sia pure in tema di trasferimento, con argomentazione aderente alla fattispecie in esame, ha affermato che il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, e non può essere dilatato fino a ricomprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo (Cass. del 2 marzo 2016, n. 5099; anche Cass. del 29 settembre 2014, n. 20469).




Il calcolo della quota di riserva ai lavoratori invalidi

Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2016, n. 2210

Pres. Stile; Rel. Bronzini; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.G. S.p.a.; Contr. F.P.;

Lavoro degli invalidi - Assunzioni obbligatorie: quota di riserva - Apprendisti - Computo ai fini del calcolo della quota di riserva - Licenziamento del disabile e conseguente violazione della quota di assunzioni obbligatorie - Divieto – Sussiste

La disposizione di cui all'art. 4, l. 68/1999 è contenuta in un provvedimento specifico avente ad oggetto la "protezione dell'inserimento e dell'integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro", il che implica una tutela "rafforzata" della stabilità del rapporto di lavoro che si connota per assolvere a particolari esigenze di reinserimento e di inclusione sociale di soggetti in condizioni di significativa debolezza, soprattutto sul piano assunzionale. Appare evidente che la normativa sui disabili è speciale rispetto a quanto si stabilisce in via generale posta la specifica ratio sottesa alla legge del 1999. Pertanto, il regime delle esclusioni dal computo dell'organico aziendale non può che avere carattere tassativo e, avendo la legge del 1999 stabilito quali fossero i lavoratori da escludere, gli apprendisti non possono essere esclusi in quanto non nominati espressamente.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di chiarire che ai fini del calcolo della quota di assunzioni riservate ai lavoratori invalidi vanno considerato anche gli apprendisti.

Come è noto, l'obbligo di assumere una quota di lavoratori disabili, variabile in base al numero complessivo dei lavoratori occupati, discende direttamente dalla legge (l. 68/1999); quest'ultima, peraltro, fornisce attuazione ai principi in tal senso espressi da molteplici fonti internazionali e comunitarie: tra queste, la Convenzione sui diritti del disabile delle Nazioni Unite del 2006, la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (art. 26) e la Carta Sociale Europea (art. 15). Venendo al merito della questione, rileva che l'art. 4 della predetta l. 68/1999, nell'elencare le categorie di lavoratori che sono esclusi ai fini del calcolo della predetta quota, non menziona gli apprendisti. Di contro, in ossequio all'art. 53, d.lgs. n. 276/2003 - vigente all'epoca dei fatti - il lavoro degli apprendisti sembrava in apparenza destinato a non avere alcuna ripercussione sul numero complessivo di lavoratori disabili che le imprese sono tenute ad assumere: la norma infatti disponeva che "Fatte salve specifiche previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti". Pur essendo stata abrogata sin dal 2011, è appena il caso di precisare che la disposizione appena riportata è confluita, dapprima, nel d.lgs. n. 167/2011 (c.d. Testo unico dell'apprendistato), con la medesima formulazione e, di recente, nel d.lgs. n. 81/2015; quest'ultimo, all'art. 47, comma 3, dispone: "Fatte salve le diverse previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti". Di conseguenza, la disposizione attualmente vigente risulta differire da quelle del 2003 (a cui si riferisce la sentenza) e del 2011 (di tenore analogo alla prima) solamente per l'uso dell'aggettivo "diverse", in luogo del precedente "specifiche". Tale aspetto, come vedremo, tornerà utile nella valutazione sul possibile impatto del dictum della Corte in relazione alla vigente formulazione della norma in parola.

Tornando alla sentenza, la Cassazione, confermando la pronuncia di merito, sostiene la computabilità, ai fini del calcolo della quota di assunzioni riservate ai disabili, degli apprendisti. Nella specie, la Corte giunge a tale conclusione annullando il licenziamento di un lavoratore disabile per effetto del quale l'Azienda - a seguito dell'inclusione anche degli apprendisti nel calcolo del numero complessivo dei lavoratori, ai fini della determinazione della quota "riservata" ai disabili - era scesa al di sotto della soglia stabilita dalla predetta l. 68/1999.

Ed infatti, affermano i giudici di legittimità che la norma di cui all'art. 4 l. 68/1999 "è contenuta in un provvedimento specifico avente ad oggetto la 'protezione dell'inserimento e dell'integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavorò, il che implica una tutela 'rafforzatà della stabilità del rapporto di lavoro che si connota per assolvere a particolari esigenze di reinserimento e di inclusione sociale di soggetti in condizioni di significativa debolezza, soprattutto sul piano assunzionale". Da ciò si fa discendere che "la normativa sui disabili è speciale rispetto a quanto si stabilisce in via generale posta la specifica ratio sottesa alla legge del 1999". Pertanto, in considerazione sia della protezione di rango tanto costituzionale, quanto sovra-nazionale, di cui gode il tema del lavoro dei disabili, sia del fatto che la l. 68/1999 non contempla gli apprendisti tra i lavoratori da escludersi ai fini del computo della "quota riservata", così tenendoli fuori dal proprio campo di applicazione, sia, ancora, del fatto che l'art. 53, d.lgs. n. 276/2003 - vigente all'epoca dei fatti - faceva espressamente salve "specifiche" disposizioni di legge che prevedessero il computo degli apprendisti, la Cassazione afferma la prevalenza della disciplina del 1999 su quella del 2003 - considerando la prima alla stregua di lex specialis - e, dunque, la necessità di computare gli apprenditi nell'organico complessivo dell'azienda, al fine di calcolare la quota di lavoratori disabili che la stessa è tenuta ad assumere.

Tale interpretazione, fondata su un dato normativo non più in vigore (l'art. 53 d.lgs. n. 276/2003), in virtù delle argomentazioni addotte, potrebbe ritenersi applicabile anche al vigente art. 47, comma 3, del d.lgs. 81/2015, il quale, come anticipato, differisce dal primo, sul piano della derogabilità, solo per il riferimento a "diverse previsioni di legge". Sul punto, avendo la Corte considerato la l. 68/1999 lex specialis rispetto alla normativa del 2003 - più recente, ma in ogni caso di tenore più generale - si può ritenere che il medesimo ragionamento posto a base della sentenza in commento possa applicarsi anche con riferimento all'art. 47, d.lgs. n. 81/2015: ed infatti, la lieve difformità della formulazione letterale, ancorchè incidente sul piano della derogabilità della disposizione, non riesce a superare l'assorbente considerazione del carattere speciale della normativa del 1999.




Infortunio sul lavoro a responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2016, n. 2209

Pres. Stile; Rel. Esposito; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.S.; Contr. F. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Diritti e obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Prevenzione degli infortuni sul lavoro - Obbligo del datore di lavoro non solo di adottare le idonee misure protettive, ma anche di vigilare sull'uso di tali misure da parte dei dipendenti - Sussistenza - Conseguenze - Responsabilità ex art. 2087 cod. civ. - Configurabilità - Condizioni - Onere probatorio incombente rispettivamente sul lavoratore e sul datore di lavoro - Oggetto - Individuazione - Fattispecie.

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte dei dipendenti. Di conseguenza, ai fini dell'accertamento della responsabilità datoriale per infortunio occorso al lavoratore sul luogo di lavoro, mentre incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo

Nota

La sentenza in commento trae origine da una pronuncia della Corte d'Appello di Lecce che, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda avanzata da un lavoratore nei confronti della società sua datrice di lavoro, diretta a ottenere il risarcimento dei danni allo stesso occorsi in relazione a un infortunio sul lavoro. La Corte territoriale osservava che dalle dichiarazioni rese dai testi, colleghi del lavoratore, era emersa una ricostruzione diversa da quella posta a base della domanda e tale da mutare l'addebito originariamente mosso dal ricorrente alla condotta aziendale, consistente non più nell'inopinata rimozione di un dispositivo di sicurezza dal macchinario sul quale l'infortunato stava lavorando ma nell'aver consentito che i medesimi colleghi di lavoro dell'infortunato operassero in un modo imprudente e pericoloso. La Corte rilevava, inoltre, che la particolare posizione dei testi esaminati, autori della condotta e interessati a giustificarla, rendeva poco credibile la deposizione circa il fatto, riferito dagli stessi, che il loro operato fosse determinato dai tempi imposti dall'azienda e che non era comprensibile quale costante vigilanza l'azienda avrebbe dovuto esercitare sull'attività svolta dai lavoratori affinché la stessa si svolgesse in sicurezza, posto che le operazioni erano da compiersi manualmente dai predetti lavoratori, che le conclusero intempestivamente.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello il lavoratore proponeva ricorso per cassazione deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c.. Secondo l'assunto del ricorrente la Corte territoriale avrebbe erroneamente individuato la causa esclusiva dell'infortunio nel comportamento "imprudente e pericoloso" dei due testi colleghi di lavoro dell'infortunato, senza considerare che proprio tale comportamento era idoneo a rivelare la responsabilità dell'azienda sotto il profilo di omissione della dovuta vigilanza circa il rispetto delle misure di sicurezza e delle regole di prudenza, esigibili anche contro la volontà del lavoratore.

Con ulteriore doglianza il ricorrente deduceva inoltre violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. in tema di ripartizione dell'onere della prova, rilevando che la Corte territoriale era erroneamente giunta ad addossare al lavoratore l'onere della prova circa la vigilanza che l'azienda avrebbe dovuto effettuare per evitare l'evento, nonché quello relativo all'individuazione dei soggetti delegati al controllo. La Suprema Corte ha accolto il ricorso affermando il principio di diritto di cui alla massima sopra riportata.

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