Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sulla decorrenza del termine di decadenza per richiedere l'indennità sostitutiva della reintegra

Licenziamento disciplinare e lesione dell'elemento fiduciario

Licenziamento disciplinare e principio di tempestività della contestazione

Trasferimento d'azienda e diritti del lavoratore

Diritto all'indennità sostitutiva del preavviso

Sulla decorrenza del termine di decadenza per richiedere l'indennità sostitutiva della reintegra

Cass. Sez. Lav. 11 gennaio 2016, n. 203

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Servello; Ric. S. M.; Controric. R.F.I. S.p.A.

Illegittimità del licenziamento - Art. 18 st. lav. - Opzione per l' indennità sostitutiva della reintegra - Esercizio - Decadenza - Presupposto - Comunicazione della cancelleria del deposito della sentenza - Forme di conoscenza del provvedimento da parte del lavoratore equivalenti - Ammissibilità - Fattispecie: estrazione copia autentica della sentenza per la notifica a fini esecutivi

Ai fini del decorso del termine di decadenza di cui all'art. 18 co. 5 stat. lav. per il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra assume rilevanza la conoscenza - effettiva e completa - da parte del lavoratore della sentenza di declaratoria di illegittimità del licenziamento, a prescindere dalla comunicazione di avvenuto deposito della stessa da parte della cancelleria, potendo avere lo stesso valore anche la notificazione - operata dallo stesso ricorrente - della sentenza ai finì esecutivi.

Nota

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affrontato il delicato tema della decorrenza del termine per l'esercizio del diritto di opzione ex art. 18, c. 5, Stat. Lav. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92), fornendo una lettura "sostanzialista" dell'istituto. Nel caso in esame, il Tribunale di Salerno accoglieva l'opposizione proposta dalla società datrice avverso il decreto ingiuntivo, con il quale era stato ordinato il pagamento, in favore di un lavoratore, di una somma a titolo di indennità sostitutiva della reintegra, sul rilievo del mancato assolvimento, da parte di quest'ultimo, dell'onere della prova in ordine alla tempestività dell'esercizio dell'opzione. La Corte d'Appello di Salerno, spingendosi oltre, rigettava l'appello proposto dal lavoratore, ritenendo tardivo l'esercizio dell'opzione. In particolare, la Corte territoriale affermava che alla formale comunicazione della sentenza di declaratoria di illegittimità del licenziamento - che, nel caso di specie, non era stata effettuata dall'Ufficio - andasse equiparata la conoscenza della sentenza che il lavoratore avesse comunque acquisito; conoscenza che, nel caso di specie, era comprovata dalla notifica della sentenza ai fini esecutivi effettuata ad istanza di parte. Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso la società. La Suprema Corte ha respinto il ricorso, condividendo pienamente la correttezza della soluzione prospettata dalla Corte salernitana. In primo luogo la Corte, richiamandosi ad altri precedenti (cfr. ex plurimis Cass. 14/05/2008 n. 12100) ha affermato che l'opzione può essere esercitata sin dal momento della lettura del dispositivo contenente l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, sicché il termine cui fa riferimento l'art. 18, c. 5, Stat. Lav. - pari a trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza - deve considerarsi "termine finale", stabilito al fine di evitare una situazione di stallo, ove il datore di lavoro non inviti il lavoratore alla ripresa del servizio, nonché di contenere in tempi ragionevoli l'incertezza circa la continuazione del rapporto di lavoro. La Corte ha, altresì, affermato che, ai fini del decorso del termine di decadenza di cui all'art. 18 co. 5 stat. lav. per il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra, assume rilevanza la conoscenza, effettiva e completa, da parte del lavoratore, della sentenza di declaratoria di illegittimità del licenziamento, a prescindere dalla comunicazione di avvenuto deposito della stessa da parte della cancelleria. Tale conoscenza può ritenersi comprovata dalla notifica della sentenza - nella fattispecie effettuata dallo stesso lavoratore - ai fini esecutivi. Ciò che rileva, dunque, è la conoscenza che il lavoratore abbia del provvedimento, purché si tratti di una conoscenza "qualificata". Ha affermato, altresì, la Corte, sulla scorta di altri pronunce (Cass. 02/10/2008, n. 24418; Cass. 11/06/2012, n. 9421; Cass. 23/02/2000 n. 2068) che, sebbene le comunicazioni di cancelleria debbano avvenire, di norma, in una delle forme di cui all'art. 136 c.p.c., esse possono essere validamente eseguite anche in altre forme equipollenti, sempre che risulti la certezza, per effetto dell'attività della cancelleria, dell'effettiva presa di conoscenza, da parte del destinatario, della notizia da comunicare e della data in cui tale comunicazione è avvenuta, e sempre che sia ugualmente certo che l'atto abbia raggiunto il suo scopo.

Ne consegue che, nell'ipotesi di richiesta di copia della sentenza munita di formula esecutiva (verificatasi concretamente nel caso di specie) e di successiva notifica della stessa, la conoscenza del provvedimento è acquisita in via formale, all'esito di un'attività istituzionale di cancelleria che impone l'individuazione del soggetto richiedente e di quello che ritira la copia autentica del provvedimento, nonché l'annotazione della data di rilascio della copia stessa, e costituisce, per tale ragione, forma equipollente della comunicazione di cancelleria.

Partendo da tali premesse, la Suprema Corte è così giunta ad affermare che, nelle ipotesi di decadenze processuali, il termine perentorio previsto per il compimento di un'attività processuale (nel caso di specie, esercizio del diritto di opzione entro 30 giorni dalla comunicazione di avvenuto deposito della sentenza), ben può decorrere dal momento in cui la conoscenza dell'atto si realizza in una forma equipollente.




Licenziamento disciplinare e lesione dell'elemento fiduciario

Cass. Sez. Lav. 11 dicembre 2015, n. 25044

Pres. Venuti; Rel. Ghinoy; P.M. Sanlorenzo; Ric. T.F.; Contr. S. s.r.l.;

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Gravità della violazione - Vincolo fiduciario - Irrimediabilità della lesione - Dubbio sul corretto futuro adempimento - Tenuità del danno patrimoniale - Legittimità

Per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.
A tanto non osta l'esiguità del danno patrimoniale arrecato, considerato che la modesta entità del fatto può essere ritenuta non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione al profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e quindi all'incidenza sul rapporto fiduciario, essendo necessario per configurarsi una giusta causa di recesso che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento.

Nota

Con la pronuncia in epigrafe la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del licenziamento disciplinare, in particolare concentrandosi sulla centralità dell'elemento fiduciario nel rapporto di lavoro. La Corte ripercorre il procedimento logico-giuridico che porta alla valutazione circa la legittimità di un licenziamento per giusta causa - ma le stesse considerazioni potrebbero estendersi anche a quello per giustificato motivo soggettivo, che si distingue, da un punto di vista sanzionatorio, per il diritto del lavoratore al preavviso - enucleando gli elementi che è possibile prendere in considerazione al fine di "riempire" di contenuto concreto (e, quindi, in linguaggio più tecnico, di "integrare") le clausole generali predisposte dal legislatore ai fini dell'irrogazione di un licenziamento per motivi disciplinari.

Sul punto, i giudici di legittimità, confermando un orientamento di certo non inedito, ammettono un ventaglio estremamente ampio di elementi, comprendente gli "aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo". In effetti, il tratto unificante di tale molteplicità di elementi, ed allo stesso tempo legittimante il recesso, rimane l'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario: parametro indispensabile, ma anche insuperabile, ai fini della valutazione della legittimità di un licenziamento, sia esso per giusta causa, ovvero per giustificato motivo soggettivo. A fronte di ciò, neppure l'eventuale esiguità del danno patrimoniale arrecato dalla condotta disciplinarmente rilevante del dipendente può intaccare la legittimità del licenziamento (in tal caso, per giusta causa), sempre a condizione che la stessa abbia irrimediabilmente inciso sul legame fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro. Ed infatti, sul punto la Cassazione afferma che "la modesta entità del fatto può essere ritenuta non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione al profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e quindi all'incidenza sul rapporto fiduciario". Pertanto, anche una condotta del lavoratore, sicuramente illegittima, ma che abbia cagionato un danno patrimoniale di minima entità può fondare un licenziamento, qualora la stessa sia in grado di porre in dubbio la correttezza del futuro adempimento del lavoratore e, quindi, abbia inciso sul legame di fiducia tra le parti del rapporto di lavoro.




Licenziamento disciplinare e principio di tempestività della contestazione

Cass. Sez. Lav. 12 gennaio 2016, n. 281

Pres. Venuti; Rel. Tricomi; P.M. Mastroberardino; Ric. D.B.G.; Contr. P.I. S.p.A.;

Contestazione disciplinare - Tempestività - Criteri di valutazione - Conoscenza e riferibilità del fatto al lavoratore nelle sue linee essenziali - Necessità

In materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione integra elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro in quanto, per la funzione di garanzia che assolve, l'interesse del datore di lavoro ad acquisire ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore non può pregiudicare il diritto di quest'ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicché ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l'esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida. In particolare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere rilievo autosufficiente la pendenza di un procedimento penale, attesa l'autonomia tra i due procedimenti.

Licenziamento disciplinare - Ruolo apicale rivestito dal lavoratore - Lesione elemento fiduciario - Valutazione con maggiore rigore – Legittimità

E' legittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore che, seppure non direttamente accusato di comportamenti fraudolenti, con la sua condotta altamente negligente, in ragione del ruolo apicale rivestito e, quindi, del superiore affidamento riposto dal datore di lavoro, ha creato le condizioni per la realizzazione da parte di altri condotte illecite.

Nota

La Corte di appello di Napoli, confermando la sentenza del Tribunale di Benevento, rigettava la domanda di un lavoratore, all'epoca dei fatti direttore di un Ufficio postale, tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli l'11 febbraio 2008. Il giudice di secondo grado aveva ritenuto infondata l'eccezione di tardività della contestazione e, nel merito, pur considerando che il ricorrente non si era mai direttamente impossessato di somme di denaro, aveva affermato che lo stesso aveva adottato una condotta altamente negligente tanto più grave in rapporto al superiore affidamento riposto nella figura di direttore.

Avverso tale sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione. Con il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 7, L. 300/1970, in quanto la corte di merito non avrebbe argomentato sulla circostanza che i fatti oggetto di contestazione erano già conosciuti dal datore di lavoro dal giugno del 2007. La Corte di Cassazione respinge il motivo premettendo che, come affermato con giurisprudenza consolidata della sezione, in materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione integra elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto per la funzione di garanzia che assolve, l'interesse del datore di lavoro ad acquisire ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore, non può pregiudicare il diritto di quest'ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicché, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l'esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida (Cass. del 13 febbraio 2015, n. 2902). Il principio dell'immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo e, dall'altro, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore, in caso di ritardo della contestazione, in relazione al carattere facoltativo del potere disciplinare, sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile (Cass. dell'8 giugno 2009, n. 13167). In particolare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere rilievo, di per sé, la pendenza di un procedimento penale, attesa l'autonomia tra i due procedimenti (Cass. del 26 marzo 2010, n. 7410).

Con l'ulteriore precisazione che il criterio dell'immediatezza va inteso in senso relativo, perché si deve tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per l'espletamento delle indagini dirette all'accertamento dei fatti e la complessità dell'organizzazione aziendale.

Applicando tali princìpi al caso di specie, a parere della Suprema Corte, correttamente la corte di merito aveva escluso la tardività della contestazione e, quindi, la lesione del diritto di difesa del lavoratore. Il Giudice di secondo grado, dopo aver premesso che il datore di lavoro con la sua condotta non aveva mai dato ad intendere di voler soprassedere alla verifica disciplinare, ha affermato che la contestazione era stata inviata al termine dell'indagine ispettiva e, quindi, in una concentrazione temporale assolutamente congrua che non aveva intaccato il diritto di difesa del lavoratore.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 3, L. 604/1966 per violazione del criterio di proporzionalità. Anche tale motivo viene respinto. Secondo la Cassazione, il giudice di secondo grado, con corretta motivazione, nel ritenere legittimo il licenziamento, ha considerato il ruolo apicale, di direttore dell'Ufficio postale, rivestito dal ricorrente, ruolo caratterizzato per sua natura da particolare fiducia in ragione del superiore affidamento riposto dal datore di lavoro. Il prestatore, nel caso di specie, aveva dimostrato di aver svolto la sua funzione con assoluta superficialità, creando le condizioni favorevoli - conoscenza reciproca delle password personali dei dipendenti per accedere ai sistemi informatici - per la realizzazione dei comportamenti fraudolenti da parte dei suoi sottoposti, con una condotta che era idonea a pregiudicare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro a prescindere dal dolo.




Trasferimento d'azienda e diritti del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2015, n. 23795

Pres. Stile; Rel. Napoletano; Ric. A.R. +37; Controric. P. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Diritti del prestatore di lavoro - Diritti già maturati da parte dei dipendenti dell'impresa ceduta - Anzianità - Conservazione - Rilevanza ai fini della corresponsione degli scatti di anzianità - Limiti

Nel caso di trasferimento di azienda, il riconoscimento, in favore dei lavoratori dell'azienda ceduta, dell'anzianità maturata presso il cedente non implica che il cessionario debba corrispondere gli scatti in riferimento a tale anzianità, essendo questi dovuti solo a partire dal periodo lavorativo regolato dalla contrattazione applicata presso il cessionario.

Nota

La sentenza in commento affronta la questione della conservazione dei diritti dei lavoratori trasferiti ai sensi dell'art. 2112 c.c., con specifico riferimento al riconoscimento degli scatti di anzianità. Con sentenza della Corte d'Appello di Firenze i ricorrenti, dipendenti comunali ceduti alla società convenuta in virtù di trasferimento d'azienda, si vedevano rigettare la domanda di condanna di detta società al pagamento delle differenze retributive derivanti dal ricalcolo degli scatti di anzianità in ragione dell'anzianità effettiva decorrente dall'epoca di assunzione nel comune di provenienza. La Corte rigettava il ricorso ritenendo la domanda non fondata ai sensi dell'art. 2112 c.c.

I lavoratori proponevano ricorso in Cassazione contro tale sentenza, per violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo d'impugnazione e rigettato il ricorso.

Confermando il suo più recente orientamento sul punto (Cass. 14208/2013 e 25021/2014) e argomentando sulla base di alcune pronunce della Corte di Giustizia (c-343/98 e c-108/10), la Cassazione ha sostenuto che l'art. 2112 c.c. non impone al cessionario che applichi un contratto collettivo diverso da quello del cedente di corrispondere gli scatti in riferimento all'anzianità maturata presso il cedente, essendo questi dovuti solo a partire dal periodo lavorativo regolato dalla contrattazione applicata presso il cessionario.

In tali casi, infatti, è necessario comprendere se il trattamento retributivo applicato dal cessionario sia peggiorativo rispetto a quello attuato presso il cedente, analizzando la retribuzione nel suo complesso e tenendo in considerazione le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento.

Solo nel caso in cui si riscontri, all'esito di tale esame, un peggioramento sostanziale del trattamento retributivo, si potrà considerare violato il disposto di cui all'art. 2112 c.c.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha rilevato che tale peggioramento sostanziale della retribuzione nel suo complesso non era neppure stato denunciato dai ricorrenti che, al contrario, avevano proposto un raffronto limitato al solo istituto retributivo dello scatto di anzianità. Su tali basi il ricorso è stato rigettato.




Diritto all'indennità sostitutiva del preavviso

Cass. Sez. Lav. 1° dicembre 2015, n. 24430

Pres. Venuti; Rel. Tricomi; P.M. Sanlorenzo; Ric. E.R.G. S.p.A.; Contr. A.P.;

Lavoro subordinato - Cessazione di appalto di pulizie - Passaggio diretto dei lavoratori all'impresa subentrante nell'appalto ex art. 6 del c.c.n.l. 30 aprile 2003 di settore - Risoluzione del rapporto ex art. 2118 c.c. - Indennità di preavviso - Obbligo del datore di lavoro di corrisponderla - Sussistenza - Fondamento

L'art. 2118, secondo comma, c.c. prevede l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore l'indennità sostitutiva del preavviso in ogni caso di licenziamento individuale che non sia preceduto da periodo di preavviso lavorato senza eccettuare l'ipotesi in cui il lavoratore licenziato abbia immediatamente trovato un'altra occupazione lavorativa. Ne consegue che l'indennità di preavviso è dovuta anche nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda un procedimento per pervenire al passaggio diretto e immediato del personale dell'impresa che cessa l'appalto di servizi a quella che subentra nell'appalto medesimo, lasciando ferme la risoluzione del rapporto di lavoro e la corresponsione di quanto dovuto per effetto della risoluzione stessa da parte dell'impresa cessante (ipotesi relativa all'art. 6 del c.c.n.l. 30 aprile 2003 FISE per i dipendenti da imprese e società esercenti servizi di igiene ambientale).

Nota

La sentenza in commento trae origine da una pronuncia del Tribunale di Massa che aveva rigettato la domanda di un lavoratore volta all'accertamento del proprio diritto a percepire l'indennità di mancato preavviso. Secondo il Tribunale, in particolare, il mancato rispetto del termine di preavviso e l'esclusione del diritto del lavoratore a percepire l'indennità sostitutiva avevano ragione d'essere nel fatto che il lavoratore era stato assunto con passaggio diretto - in applicazione di quanto previsto dal contratto collettivo applicato - dalla società subentrante nell'appalto in precedenza gestito dalla società convenuta. La Corte d'Appello, successivamente adita, accoglieva l'impugnazione del lavoratore e condannava quindi la società datrice di lavoro a pagare a quest'ultimo l'indennità di mancato preavviso.

Avverso la sentenza di secondo grado la società proponeva ricorso per Cassazione deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 c.c. La società ricorrente lamentava in particolare come la sentenza della Corte d'Appello avesse interpretato l'art. 2118 c.c. in modo formalistico, senza considerare la ratio del preavviso e senza fare, quindi, riferimento all'intenzione del legislatore. Secondo la prospettazione della società, infatti, la ratio dell'istituto sarebbe quella di consentire al lavoratore di trovare un'altra occupazione, circostanza che non ricorreva nella fattispecie in esame, in ragione di quanto previsto dal meccanismo di cui al contratto collettivo applicato, poiché il lavoratore era stato assunto dalla impresa neo appaltatrice senza soluzione di continuità. La Cassazione ha rigettato il ricorso uniformandosi a un proprio precedente orientamento, secondo il quale l'art. 2118, secondo comma, c.c. prevede l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore l'indennità sostitutiva del preavviso in ogni caso di licenziamento individuale che non sia preceduto da periodo di preavviso lavorato senza eccettuare l'ipotesi in cui il lavoratore licenziato abbia immediatamente trovato un'altra occupazione lavorativa. Ne consegue che l'indennità di preavviso è dovuta anche nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda un procedimento per pervenire al passaggio diretto e immediato del personale dell'impresa che cessa l'appalto di servizi a quella che subentra nell'appalto medesimo, lasciando ferme la risoluzione del rapporto di lavoro e la corresponsione di quanto dovuto per effetto della risoluzione stessa da parte dell'impresa cessante.

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