Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Licenziamento per giusta causa

Decadenza dall'impugnativa di licenziamento

Prescrizione del diritto alla rendita da malattia professionale

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2015, n. 24809

Pres. Roselli; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. Q.T.; Controric. A.S.C.S.C.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Nozione legale - Rilevanza - Necessità - Accertamento dei fatti e della loro concreta idoneità a costituire giusta causa - Fattispecie

Una previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, la riconducibilità del fatto addebitato alla nozione di giusta causa di cui all'art. 2119 c.c., anche in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, stabilendo se il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, anche in considerazione dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dal lavoratore e confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma, che aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice di lavoro.

Il lavoratore ha presentato ricorso per cassazione contestando la decisione impugnata per violazione dell'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, ritenendo che non sia conforme a diritto una valutazione unitaria delle varie condotte addebitate, considerato che le diverse condotte, singolarmente considerate, sarebbero risultate punibili, alla stregua delle previsioni del CCNL applicato al rapporto di lavoro, con sanzioni di tipo conservativo. Sul punto, inoltre, l'art. 18 comma 4 St. Lav., nel fare riferimento al "fatto contestato", avvalorerebbe la tesi della necessità di una valutazione di ciascuna condotta addebitata singolarmente. La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato alla stregua dell'orientamento secondo cui il Giudice deve, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, comunque verificare, anche prescindendo dalle previsioni del contratto collettivo, aventi natura meramente esemplificativa, la riconducibilità del fatto addebitato alla nozione di giusta causa di cui all'art. 2119 cc, stabilendo, anche in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, se questo sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo conto altresì dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (cfr. Cass. n. 5095/2011 e Cass. n. 22791/2013). A tal fine, il Giudice del merito è tenuto a valutare il comportamento, pur articolato in una pluralità di condotte (la cui compresenza, peraltro, non può dirsi ininfluente ai fini della considerazione della portata dell'inadempimento) e fatto oggetto di unitaria contestazione, ai fini della verifica, in relazione alle caratteristiche oggettive e soggettive dello stesso, della permanenza del vincolo fiduciario ovvero della perdurante possibilità per il datore di affidamento sull'esattezza dell'adempimento delle prestazioni future. Ciò premesso, nel caso di specie la Corte di merito ha accertato la legittimità del licenziamento sulla base di accertamenti di fatto e ragionamenti in diritto adeguatamente motivati e rispondenti a tali principi; pertanto, il motivo di ricorso del lavoratore non è stato ritenuto meritevole di accoglimento, con conseguente rigetto.


Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Cass. Sez. Lav. 5 novembre 2015, n. 22625

Pres. Stile; Rel. Berrino; P.M. Fuzio; Ric. L.F.; Controric. A. s.p.a.;

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo - Principio di immediatezza della contestazione - Valutazione della concreta situazione della società e della complessità dell'organizzazione aziendale - Temporanea assenza del CdA per riorganizzazione societaria in atto - Rilevanza - Legittimità della dilatazione dei tempi della procedura disciplinare

Nell'ambito del procedimento disciplinare regolato dall'art. 7, L. n.300 del 1970 il requisito dell'immediatezza deve essere interpretato con ragionevole elasticità, il che comporta che il giudice deve applicare il suddetto principio esaminando il comportamento del datore di lavoro alla stregua degli artt. 1375 e 1175 c.c., e può dallo stesso discostarsi eccezionalmente, indicando correttamente le ragioni che lo hanno indotto a non ritenere illegittima una contestazione fatta non a ridosso immediato dell'infrazione.

Nota

La Corte d'Appello di Cagliari ha respinto il gravame proposto da una lavoratrice avverso la sentenza di rigetto della richiesta di declaratoria di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimatole per avere ella effettuato, con intento fraudolento, irregolari timbrature di schede ed alterazioni di sistemi aziendali di controllo delle presenze e delle trasferte. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto che l'assenza per tre mesi degli organi societari connessa ad una integrale rivisitazione giuridico-strutturale della società giustificasse il ritardo di sei mesi nella valutazione della condotta tenuta dalla dipendente.

Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi. La società ha resistito con controricorso.

Con il primo motivo la ricorrente si duole sostanzialmente del fatto che la Corte del merito, pur avendo riconosciuto essere decorso un lasso temporale di sei mesi tra l'accertamento dei fatti e la loro contestazione, l'abbia ritenuto congruo e giustificato dalle vicende societarie della convenuta, che avevano impedito un tempestivo esame della questione. A parere della lavoratrice il principio di buona fede e correttezza è assoluto e deve prevalere in ogni caso, non potendosi vanificare la sua legittima aspettativa - generata dal lungo intervallo trascorso - nella rinuncia da parte del datore all'esercizio del potere disciplinare. Peraltro si afferma che, nel caso concreto, il fatto disciplinarmente rilevante era chiaro ed evidente, pertanto non vi era necessità di alcun approfondimento, conseguentemente la dilatazione della procedura disciplinare risultava del tutto ingiustificata.

La Corte nel ritenere infondato il motivo afferma il principio di cui alla massima, già evidenziato in altri precedenti (Cass. 9 settembre 2003, n. 13190). Nella stessa direzione, aderendo al consolidato orientamento sul punto, la Cassazione precisa che, in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il principio dell'immediatezza della contestazione e quello della tempestività del recesso devono essere intesi in senso relativo, potendo essere compatibili con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro, per un'adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni da lui fornite (Cass. 7 luglio 2001, n. 9253). Secondo la Suprema Corte i giudici del merito hanno fatto corretta applicazione di tali principi laddove hanno valorizzato che, proprio nel semestre intercorso tra l'accertamento dei fatti ed il conseguente licenziamento, la struttura societaria si era radicalmente trasformata, dapprima con la caducazione del CdA e sua sostituzione con uno tecnico e poi con la nomina di un Amministratore Unico. A parere dei giudici di legittimità, del tutto correttamente la Corte territoriale ha reputato tali vicende idonee a rendere oggettivamente difficile la concertazione tra gli organi esecutivi e quelli di amministrazione ai fini della valutazione della necessità di adottare provvedimenti estintivi del rapporto di lavoro. Inoltre, sottolinea la Corte, il contesto era tale da impedire che si ingenerassero aspettative in merito alla rinuncia da parte del datore del potere disciplinare, essendo agevole ascrivere l'inerzia ad una paralisi gestionale.

Il secondo motivo viene dichiarato inammissibile non ravvisandosi il difetto di motivazione censurato. Il ricorso viene, pertanto, rigettato.


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 19 novembre 2015, n. 23690

Pres. Stile; Rel. Nobile; P.M. Fuzio; RicM.G.; Controric. B.P.M.;

Licenziamento - Giusta causa - Fattispecie - Dipendente di istituto bancario - Violazione del codice etico - Conflitto di interessi - Lesione del vincolo fiduciario - Sussiste

Sussiste la giusta causa di licenziamento del dipendente che, violando il codice etico, abbia agito in conflitto di interessi, con ciò determinando la lesione del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro. (Nella specie, un quadro direttivo dipendente di un istituto bancario era ripetutamente intervenuto per favorire la concessione di fidi a propri familiari, in violazione delle procedure aziendali, per un valore complessivo di quasi 50.000 euro).

Nota

Nel caso di specie un quadro direttivo dipendente di un istituto bancario era stato licenziato per giusta causa per aver commesso gravi irregolarità in occasione della concessione di fidi alla moglie, alla sorella e alla madre, per un valore complessivo di quasi 50.000 euro. In particolare, le irregolarità contestate al dipendente attenevano alla violazione del codice etico della banca in tema di conflitto di interessi.

Il Giudice del merito, accertata la sussistenza della condotta contestata, rigettava il ricorso del lavoratore avverso il provvedimento espulsivo di cui era stato oggetto. Nello specifico, la Corte territoriale rilevava che il conflitto di interessi posto in essere dal lavoratore licenziato era consistito nell'aver favorito in modo decisivo parenti stretti, facendo loro ottenere un accesso al credito bancario in varie forme, attraverso il sistematico mancato rispetto delle procedure interne stabilite per la concessione del credito.

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, conferma la decisione della Corte d'Appello adita, ribadendo in primo luogo il principio secondo cui spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravita, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro; nel compiere tale valutazione il giudice deve dare rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (v. fra le altre Cass. 13/2/2012 n. 2013, cfr. Cass. 10/12/2007 n. 25743, Cass. 24/7/2006 n. 16864). Peraltro, nell'ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l'idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario - rapporto che eÌ più intenso nel settore bancario - deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro (v. Cass. 27/1/2004 n. 1475, Cass. 28/4/2003 n. 6609). Dopo aver precisato quanto sopra, la Suprema Corte entra nel merito del caso di specie e giudica corretta la decisione della Corte territoriale, la quale, confermando la pronuncia di primo grado, aveva concluso per la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel comportamento del lavoratore, concretizzatosi nel sistematico mancato rispetto delle procedure interne stabilite per la concessione del credito, per aver favorito, in conflitto di interessi, i propri stretti congiunti. Tale comportamento, peraltro, non era stato singolo ed episodico, ma reiterato in un consistente arco di tempo (oltre un anno), con la conseguente irrimediabile recisione del vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, tenuto conto di ogni aspetto concreto del fatto e dell'elevato grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal lavoratore.

Sul conflitto di interessi generatosi dalla condotta tenuta dal lavoratore nel caso di specie, la Suprema Corte afferma che esso si è determinato per il sol fatto di aver il lavoratore favorito, sfruttando la propria posizione all'interno dell'organizzazione aziendale e contro gli interessi del datore di lavoro, i propri stretti congiunti (moglie, madre e sorella), permettendo loro di ottenere delle utilitaÌ secondo modalitaÌ che lo stesso lavoratore ha riconosciuto come violative delle regole bancarie. In ogni caso, secondo la Corte di Cassazione, non puoÌ non essere percepibile da parte di un quadro direttivo di I livello (come era il lavoratore licenziato) il disvalore oggettivo presente nella condotta di chi, violando le procedure, abbia concesso o indebitamente favorito la concessione di fidi alla moglie, alla madre e alla sorella, per un valore complessivo di quasi Euro 50.000,00.

Alla luce di quanto precede, la Corte di Cassazione conferma dunque la decisione di merito circa la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel caso di specie.


Decadenza dall'impugnativa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 11 dicembre 2015, n. 25046

Pres. Roselli; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.A.; Controric. A. S.C.A.R.L.;

Licenziamento per riduzione di personale - Rito Fornero - Opposizione ex art. 1, comma 51 l. n. 92/2012 - Eccezione di decadenza dall'impugnativa di licenziamento - Omessa proposizione nella fase a cognizione sommaria - Ammissibilità – Sussiste

L'opposizione ex art. 1, comma 51, l. n. 92/2012, può investire nuovi profili soggettivi ed oggettivi, fra i quali le eccezioni in senso stretto, come quella di decadenza, non sollevata dall'interessato durante la fase sommaria, in quanto essa non vale come impugnazione, ossia come istanza di revisione del precedente giudizio, inidonea ad introdurre nuovi temi della disputa.

Nota

La Corte di Appello di Reggio Calabria, pronunziando in sede di reclamo ex art. 1, comma 58, l. n. 92/2012, riformava la decisione resa dal Tribunale e rigettava la domanda proposta dal lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice nel quadro di una procedura di riduzione del personale. La decisione della Corte territoriale discendeva dall'aver questa, diversamente dai giudici della fase di urgenza e di opposizione, ritenuto l'eccezione di decadenza dall'impugnazione del licenziamento ex art. 6, l. n. 604/1966, sollevata dalla società soltanto in sede di opposizione, non solo pienamente ammissibile ma altresì fondata. Avverso tale decisione proponeva ricorso il lavoratore sulla base di tre motivi. In particolare, il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 48 e ss. l. n. 92/2012 nonché degli artt. 2969 c.c. e 115 c.p.c., oltre che dei principi fondamentali del rito del lavoro, sostenendo che l'eccezione di decadenza dal suo potere di impugnazione del licenziamento, sia in sede giudiziale che stragiudiziale, avrebbe dovuto essere sollevata dalla società datrice già nell'udienza di comparizione fissata dal giudice dopo il ricorso di impugnativa del licenziamento proposto ai sensi dell'art. 1, comma 48, l. n. 92/2012. Pertanto, l'eccezione sollevata soltanto con l'opposizione all'ordinanza di cui al successivo comma 51 doveva ritenersi inammissibile perché tardiva, in quanto l'opposizione non avrebbe potuto ampliare il thema decidendum già sottoposto al giudice col suddetto ricorso ex comma 48, tenuto conto altresì della peculiare natura dell'eccezione di decadenza che doveva pacificamente qualificarsi alla stregua di una eccezione in senso stretto. La Corte di Cassazione rigettava il ricorso. La Suprema Corte ha osservato che le due fasi del giudizio di primo grado, quella di cognizione sommaria, iniziata con il ricorso ex art. 1, comma 49 l. n. 92/2012, e quella di cognizione ordinaria, iniziata con l'opposizione ex art. 1, comma 51 della stessa legge, si inseriscono nel medesimo grado e si pongono in rapporto di prosecuzione. In ragione di ciò la Suprema Corte ha ritenuto che l'opposizione ex art. 1, comma 51, l. n. 92/2012, può investire nuovi profili sia soggettivi che oggettivi, fra i quali le eccezioni in senso stretto, come quella di decadenza, non sollevata dall'interessato durante la fase sommaria (vedi sent. Corte Costituzionale 13 maggio 2015, n. 78), in quanto essa non vale come impugnazione, ossia come istanza di revisione del precedente giudizio, inidonea ad introdurre nuovi temi della disputa. Per tali ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la sentenza impugnata.


Prescrizione del diritto alla rendita da malattia professionale

Cass. Sez. Lav. 27 novembre 2015, n. 24298

Pres. Bandini; Rel. Berrino; P.M. Ghersi; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. I.N.A.I.L. e C.G.

Assicurazioni sociali - Decorrenza del diritto alla rendita da malattia professionale - Rilevanza del momento di manifestazione della malattia - Conoscenza dell'esistenza della malattia da parte del datore di lavoro – Irrilevanza

La decorrenza del diritto alla rendita da malattia professionale, azionato non appena si erano concretizzati i presupposti della sua insorgenza, non può dipendere dal fatto esterno della conoscenza successiva da parte del datore di lavoro, in quanto l'art. 23 R.D. 17 agosto 1935, n. 1765 stabilisce che l'indennità per le malattie professionali decorre dal decimo giorno successivo a quello nel quale, a causa della malattia, ha avuto inizio l'inabilità assoluta al lavoro.

Assicurazioni sociali - Diritto alla rendita da malattia professionale – Prescrizione

La manifestazione della malattia professionale, rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale di tre anni ex art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, può ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l'esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell'assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., come la domanda amministrativa, nonché la diagnosi medica dalla quale la malattia sia riconoscibile per l'assicurato.

Nota

Una dipendente di una società telefonica citava in giudizio l'Inail (nel 1993) per ottenere la rendita da ipoacusia (indebolimento dell'apparato uditivo) di origine professionale. Tale diritto era stato riconosciuto al lavoratore nei primi due gradi di giudizio, riconoscimento che, tuttavia, era venuto meno a seguito della sentenza di cassazione (nel 1998) che aveva proclamato il difetto di legittimazione passiva dell'istituto assicurativo.

Il lavoratore iniziava quindi il giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro. La Corte d'Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, condannava il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore la rendita per malattia professionale in relazione all'accertata riduzione della capacità lavorativa (nella misura del 21%) a decorrere dal 1999.

La Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso incidentale promosso dal lavoratore, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, affermando che, ai sensi dell'art. 23 R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, il diritto alla rendita da malattia professionale decorre dal decimo giorno successivo a quello nel quale, a causa della malattia, ha avuto inizio l'inabilità al lavoro.

La Suprema Corte ha altresì ribadito il principio (già affermato da Cass. 27323/2005 e Cass. 2285/2013) secondo cui il termine prescrizionale di tre anni ex art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 del diritto all'indennità per malattia professionale decorre dal momento della manifestazione della malattia stessa, cioè dal momento in cui la consapevolezza circa l'esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell'assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., come la domanda amministrativa, nonché la diagnosi medica, dalla quale la malattia sia riconoscibile per l'assicurato.

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