Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2

Licenziamento collettivo per riduzione di personale

Lavoro giornalistico e subordinazione

Licenziamento disciplinare

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 12 novembre 2015, n. 23140

Pres. Roselli; Rel. De Marinis; P.M. Matera; Ric. P. I. S.P.A.; Controric. P.A.C.;

Licenziamento disciplinare - Art. 7 L. n. 300/1970 - Termine di cinque giorni per l'esercizio del diritto di difesa - Richiesta di audizione orale presentata oltre il suddetto termine - Decadenza - Non sussiste

La sanzione disciplinare è illegittima qualora il datore di lavoro non abbia consentito al lavoratore di rendere le giustificazioni orali, benchè quest'ultimo abbia presentato la relativa richiesta oltre il termine di cinque giorni entro il quale il lavoratore deve essere sentito a sua discolpa ai sensi dell'art. 7 della l. n. 300 del 1970.

Nota

La Corte di appello di Firenze, confermando la decisione resa dal giudice di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato alla lavoratrice per non essersi presentata al lavoro dopo l'invito alla ripresa del servizio rivoltole dalla società, in esecuzione dell'ordine giudiziale di reintegra. Tale ordine era stato emesso all'esito del giudizio di impugnazione della clausola giustificativa del termine apposta al contratto con il quale la lavoratrice era stata originariamente assunta. La decisione della Corte territoriale discendeva dall'aver ritenuto nullo il procedimento disciplinare che aveva portato all'irrogazione del licenziamento impugnato, per violazione del principio del contraddittorio, in ragione del fatto che la lavoratrice destinataria della contestazione disciplinare, non era stata sentita a sua difesa ad opera della società datrice, benché ne avesse fatto richiesta seppur tardivamente. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su di un unico motivo. La società ricorrente, denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970, lamentava che la Corte territoriale avesse fornito una erronea interpretazione della disciplina del contraddittorio nel procedimento disciplinare, nella parte in cui aveva ritenuto illegittima la mancata audizione a difesa della lavoratrice ad opera della società ricorrente, nonostante la lavoratrice medesima avesse tardivamente presentato la richiesta di essere ascoltata oralmente, dopo che già era scaduto il termine di cinque giorni, assegnato ex lege per l'inoltro delle proprie giustificazioni. La Suprema Corte confermava la sentenza della Corte di appello osservando che il termine di cinque giorni assegnato al lavoratore per l'esercizio del diritto di difesa a fronte della contestazione disciplinare ricevuta, non è configurabile alla stregua di un termine decadenziale, con la conseguenza che una volta decorso il predetto termine, resterebbe preclusa la facoltà di esercizio di tale diritto. Ha ulteriormente osservato la Corte che l'indicazione legale del predetto termine di cinque giorni vale soltanto a fissare il dies a quo a partire dal quale il datore di lavoro può manifestare la volontà di licenziare, ma non preclude al lavoratore di difendersi fino a che non sia stato adottato il provvedimento sanzionatorio, nel qual caso il datore di lavoro è tenuto a dare corso al richiesto esercizio del diritto di difesa, nel rispetto, comunque dovuto, del principio del contraddittorio. Sulla base di tali premesse la Suprema Corte ha conclusivamente ritenuto che, ancorché il termine di cinque giorni dalla ricezione della contestazione disciplinare - fissato dal datore di lavoro sulla base dell'art. 7, l. n. 300/1970, ed entro il quale il lavoratore deve manifestare la volontà di essere sentito a sua discolpa - non sia rispettato dal lavoratore, tuttavia la sanzione disciplinare va comunque considerata illegittima se, prima della sua inflizione, il datore di lavoro abbia ricevuto la manifestazione di volontà del lavoratore e ciononostante l'abbia ignorata.



Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1

Cass. Sez. Lav. 27 ottobre 2015, n. 21875

Pres. Stile; Rel. Ghinoy; P.M. Fuzio; Ric. E.R.; Controric. C.M.N. S.n.c.;

Licenziamento individuale - Giustificato Motivo Oggettivo - Rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time - Legittimità - Limiti - Effettività delle esigenze economico-organizzative che rendono necessaria la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time

Il datore di lavoro che licenzi il lavoratore che rifiuta la riduzione dell'orario di lavoro (attraverso la trasformazione del rapporto a tempo pieno in part-time) ha l'onere di dimostrare che sussistono effettive esigenze economico-organizzative in base alle quali la prestazione lavorativa non può essere mantenuta a tempo pieno, nonché il nesso causale tra le esigenze economico-organizzative e il licenziamento.

Nota

Una dipendente di un centro medico pugliese impugnava con ricorso ex art. 1, co. 48, L 92/2012 (c.d. Rito Fornero) il licenziamento intimatole nel gennaio 2014 per giustificato motivo oggettivo.

A tal fine, la ricorrente deduceva che il datore di lavoro, durante la sua assenza per maternità, aveva assunto, con contratto a termine, un altro dipendente per lo svolgimento delle medesime mansioni di direttore sanitario. Tale dipendente era stato poi confermato a tempo indeterminato, nel marzo 2013. Il centro medico, asseritamente costretto a procedere ad una riduzione dei costi del personale, con l'intento di mantenere in servizio entrambi i direttori sanitari, aveva proposto alla ricorrente e all'altro lavoratore di ridurre del 50% i rispettivi orari di lavoro, trasfondo i rapporti di lavoro da tempo pieno a part-time. Il lavoratore aveva accettato la proposta datoriale, mentre la ricorrente l'aveva rifiutata.

La lavoratrice sosteneva quindi la nullità del licenziamento, in quanto sorretto da un motivo illecito, consistente nel suo rifiuto di modificare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time.

La Corte d'Appello, confermando le pronunce rese al termine della fase a cognizione sommaria e del giudizio di opposizione, rigettava il reclamo promosso dalla lavoratrice, ritenendo legittimo il giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento. La Corte territoriale aveva infatti accertato la necessità aziendale di sopperire al deterioramento della propria situazione finanziaria, attraverso una riduzione dei costi del personale e, ritenendo insindacabile la scelta datoriale di utilizzare due direttori sanitari, aveva considerato legittimo il licenziamento, stante la mancata accettazione, da parte della ricorrente, della proposta di trasformare il proprio rapporto di lavoro in part-time, proposta che invece era stata accettata dall'altro direttore sanitario.

Avverso tale sentenza la dipendente ricorreva in Cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

Tra gli altri motivi di ricorso, la ricorrente lamentava violazione dell'art. 5 D.Lgs 61/2000 (abrogato, a decorrere dal 25 giugno 2015, dall'art. 55, co. 1, lett. a) del D.Lgs 81/2015), secondo cui il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in part-time, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando con rinvio la sentenza impugnata, ribandendo il principio di diritto (già affermato in Cass., 6 giugno 2013, n. 14319 e in Corte Cost. 224/2013) secondo cui il datore di lavoro che licenzi il lavoratore che rifiuta la riduzione di orario ha l'onere di dimostrare che sussistono effettive esigenze economico-organizzative in base alle quali la prestazione lavorativa non può essere mantenuta a tempo pieno, ma solo con l'orario ridotto, nonché il nesso causale tra le stesse esigenze economico-organizzative e il licenziamento.

Ad avviso della Corte di Cassazione, il vaglio operato dal giudice del reclamo non è adeguato, in quanto aveva omesso di verificare se, effettivamente, la situazione di crisi aziendale fosse tale da non tollerare il mantenimento del rapporto di lavoro a tempo pieno della ricorrente.



Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2

Cass. Sez. Lav. 18 novembre 2015, n. 23620

Pres. Roselli; Rel. Roselli; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.P.O.S. S.r.l.; Controric. L.M.;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Sostituzione di personale dipendente con altro personale più qualificato - Motivi - Valutazione imprenditoriale - Insindacabilità giudiziale - Ragioni sottese alla decisione imprenditoriale – Irrilevanza

Sussiste il giustificato motivo di licenziamento allorché il datore di lavoro ravvisi, in ragione dell'andamento economico dell'impresa, la possibilità di sostituire il personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive, sulla base di una valutazione imprenditoriale non sindacabile nel merito dal giudice e indipendentemente dal fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore.

Nota

Nel caso di specie una lavoratrice veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo motivato dalla soppressione della sua posizione lavorativa a causa di una presunta crisi aziendale. Il Giudice del merito, sia in primo che in secondo grado, dichiarava l'illegittimità del predetto licenziamento, affermando che la necessità di sopprimere il posto di lavoro in questione era risultata un mero pretesto per licenziare la lavoratrice che lo occupava, non essendo stata fornita dal datore di lavoro la prova della crisi aziendale, posto che nel corso degli anni le prestazioni oggetto dell'attività che afferiva al posto di lavoro asseritamente soppresso non erano variate per qualità e quantità. Alla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro faceva seguito un secondo licenziamento per giustificato motivo oggettivo nell'ambito di una nuova organizzazione del personale che aveva visto l'assunzione nello stesso anno di nuovo personale, dotato di titoli di studio e competenze professionali che la lavoratrice licenziata non possedeva. Anche questo secondo licenziamento veniva impugnato dalla lavoratrice e dichiarato illegittimo dal Giudice del merito, il quale, tuttavia, non condannava il datore di lavoro alla reintegrazione, ma, ai sensi dell'art. 18, comma 7, Stat. Lav., come modificato dalla Legge n. 92/2012, dichiarava risolto il rapporto di lavoro, condannando il datore di lavoro al pagamento in favore della lavoratrice di un'indennità risarcitoria di ventiquattro mensilità per manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. Tale decisione derivava dal fatto che, ai sensi della predetta normativa, il Giudice "può applicare" la tutela reintegratoria, ma non deve farlo necessariamente e nel caso di specie la lavoratrice non aveva provato i fatti dimostranti la gravità del torto, ossia il "torto assoluto" giustificativo della tutela reale, come ad esempio il difficile reperimento di altra occupazione oppure la cattiva situazione patrimoniale e reddituale sua e della sua famiglia. Tale carenza probatoria della lavoratrice aveva quindi portato alla condanna risarcitoria in luogo di quella reintegratoria.

La Corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi sul ricorso del datore di lavoro, afferma con la pronuncia in esame che il contratto di lavoro può essere sciolto a causa di un'onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze ed esperienze di settore, nel momento della sua conclusione (art. 1467 c.c.) e tale sopravvenienza ben può consistere in una valutazione dell'imprenditore che, in base all'andamento economico dell'impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive. NeÌ l'esercizio di tale potere eÌ sindacabile nel merito dal giudice, tanto più in ragione di quanto previsto dall'art. 30 della L. n. 183 del 2010, previsione normativa incline a tutelare più intensamente la libertaÌ organizzativa dell'impresa.

Al controllo giudiziale sfugge necessariamente anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore (anche nei casi in cui questo controllo sia tecnicamente possibile), considerato altresì che un aumento del profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio per il suo patrimonio individuale, ma principalmente in un incremento degli utili dell'impresa ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori.

Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione accoglie, quindi, il ricorso del datore di lavoro cassando le sentenze di merito impugnate, ove, rilevata l'assenza di prova del calo produttivo, era stata erroneamente ritenuta superflua la verifica dell'attribuzione delle mansioni prima affidate alla lavoratrice licenziata ad altro personale (dotato di titoli e competenze che la lavoratrice licenziata non aveva) o comunque la redistribuzione delle mansioni tra il personale già presente o neo-assunto. Da ultimo, la Suprema Corte osserva che il controllo giudiziale della veridicità dell'operazione di riorganizzazione del personale e di redistribuzione delle mansioni addotto dal datore di lavoro nel caso di specie avrebbe dovuto tenere conto anche delle difficoltà economiche in reparti diversi da quelli in cui operava la lavoratrice licenziata, circostanza che, invece, il Giudice del merito non ha tenuto in considerazione, ritenendola estranea alla sua sfera di indagine e valutazione.



Licenziamento collettivo per riduzione di personale

Cass. Sez. Lav. 20 ottobre 2015, n. 21231

Pres. Amoroso; Rel. Doronzo; P.M. Servello; Ric. L.A.I.G.; Controric. T.W. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo per riduzione del personale - Disciplina prevista dalla legge n. 223 del 1991 - Controllo dell'iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell'impresa - Devoluzione alle organizzazioni sindacali - Ridimensionamento degli spazi di controllo demandati al giudice in sede contenziosa - Conseguenze.

In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, lo spazio di controllo devoluto al Giudice in sede contenziosa non riguarda gli specifici motivi della riduzione del personale, ma solo la correttezza procedurale dell'operazione (ivi compresa la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dalla legge n. 223/1991 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dalla lavoratrice e confermato la decisione della Corte d'Appello dell'Aquila, che aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimatole dalla società datrice di lavoro nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo. In particolare, la lavoratrice aveva impugnato il licenziamento ritenendo che i motivi posti a base della procedura di licenziamento, indicati nella comunicazione di apertura della procedura, fossero diversi da quelli reali, e che tale difformità costituisse violazione dell'art. 4 della legge n. 223/1991. La Corte d'Appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece ritenuto legittimo il licenziamento, dopo aver valutato che la procedura di licenziamento collettivo era stata svolta in maniera corretta e che la società non aveva attuato alcuna manovra elusiva della stessa, ritenendo che la (parziale) divergenza tra la situazione indicata con la comunicazione iniziale di apertura della procedura di mobilità e quella di fatto determinatasi al momento conclusivo, in cui furono adottati i provvedimenti di recesso, non costituisse violazione dell'art. 4 della legge n. 223/1991. La lavoratrice ha presentato ricorso per cassazione contestando la decisione impugnata per violazione dell'art. 4 della legge n. 223/1991 in relazione al principio di effettività delle circostanze indicate nella comunicazione di apertura della procedura. Ebbene, a detta della Corte, come già statuito in altre occasioni in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale (tra le altre, cfr. Cass. n. 5089/2009), la legge n. 223/1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato "ex post" nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell'impresa devoluto "ex ante" alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione. Pertanto, i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, ma solo la correttezza procedurale dell'operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali si finisce per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva.

Con specifico riferimento alla correttezza della procedura, essa potrà quindi considerarsi regolare ove la comunicazione di avvio, conformatasi ai requisiti prescritti dalla legge (indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza, nonché numero, collocazione aziendale e profili professionali del personale da eliminare), consenta alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso causale tra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità che, in concreto, l'azienda intende licenziare (v. anche Cass. n. 24646/2007).

In conclusione, il controllo giudiziale deve limitarsi alla verifica della completezza delle informazioni specificate dall'art. 4 della legge n. 223/1991, in quanto dirette a consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale; è, invece, estranea all'ambito del controllo del Giudice la verifica dell'effettività e della ragionevolezza dei motivi che giustificano, nelle enunciazioni del datore di lavoro, la riduzione di personale. Ciò premesso, nel caso di specie la Corte territoriale ha accertato la correttezza della procedura sulla base di accertamenti di fatto e ragionamenti in diritto adeguatamente motivati, pertanto, il motivo di ricorso della lavoratrice non è stato ritenuto meritevole di accoglimento, con conseguente rigetto.



Lavoro giornalistico e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 21 ottobre 2015, n. 21424

Pres. Amoroso; Rel. Lorito; P.M. Matera; Ric. I.M s.p.a.; Controric. G.B.C.;

Lavoro giornalistico - Natura - Elementi distintivi della subordinazione - Inserimento stabile nell'organizzazione aziendale - Continuità della prestazione e disponibilità negli intervalli - Responsabilità di un servizio - Necessità - Autonomia nello svolgimento della prestazione - Irrilevanza

In tema di attività giornalistica, sono configurabili gli estremi della subordinazione - tenuto conto del carattere creativo del lavoro - ove vi sia lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell'organizzazione aziendale, così da poter assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un'esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, con permanenza, nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, della disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore di lavoro.

Nota

La Corte d'Appello di L'Aquila confermava parzialmente la decisione di primo grado con cui era stata dichiarata la natura subordinata, con qualifica di redattore, del rapporto di lavoro intercorso tra un quotidiano ed una lavoratrice che aveva sottoscritto un contratto di collaborazione, e, per l'effetto, condannata la società al pagamento delle differenze retributive. In riforma della sentenza, che aveva disposto la reintegrazione, la Corte territoriale dichiarava il rapporto cessato per mutuo consenso, confermando per il resto la pronunzia.

Avverso tale decisione il quotidiano ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi e la lavoratrice ha resistito con controricorso.

Per quanto qui rileva, con i primi due motivi la Suprema Corte ritiene che la società abbia richiesto una rivalutazione del merito delle risultanze istruttorie - pacificamente inammissibile in sede legittimità - pertanto essi vengono respinti, reputandosi del tutto corretto l'iter logico-argomentativo seguito dalla Corte territoriale. In particolare la Corte d'appello aveva ritenuto che le effettive modalità di svolgimento ed i contenuti della attività lavorativa espletata, così come risultanti dall'istruttoria, deponevano nel senso della sussistenza di un vincolo di dipendenza fra le parti, correlato alla continuità della prestazione, alla quotidianità della presenza in redazione, alla responsabilità del servizio, alla sottoposizione della attività giornalistica al controllo da parte del capo servizio Nel valutare la correttezza della pronunzia, la Suprema Corte aderisce all'orientamento consolidato sul punto affermato nella massima (Cass. 7 ottobre 2013, n. 22785; Cass. 2 aprile 2009, n. 8068), che individua i tratti distintivi del lavoro giornalistico subordinato nello stabile inserimento del giornalista, nella responsabilità di un servizio e nella permanenza della messa a disposizione delle sue energie lavorative negli intervalli tra le varie prestazioni. Nello specifico viene rimarcato che, caratterizzandosi il rapporto di lavoro giornalistico per la peculiare natura intellettuale e creativa della prestazione, il carattere subordinato del rapporto può essere riconosciuto a quell'attività che, per ampiezza di prestazioni ed intensità della collaborazione, comporta l'inserimento stabile del lavoratore nell'assetto organizzativo aziendale, costituendo aspetti qualificanti la continuità della prestazione e la responsabilità del servizio, le quali ricorrono quando il giornalista ha l'incarico di trattare in via continuativa un argomento o settore dell'informazione e mette costantemente a disposizione dell'imprenditore la sua opera, non rilevando, in contrario, il grado di autonomia con cui la prestazione viene svolta.

Inoltre - ricorda la Suprema Corte - nel lavoro giornalistico subordinato, stante la peculiarità dell'orario di lavoro e dei vincoli posti dalla legge per la pubblicazione del giornale e la diffusione delle notizie, acquista precipuo rilievo il carattere collettivo dell'opera redazionale (Cass. 9 giugno 1998, n. 5693) e la figura professionale del redattore implica l'inserimento della prestazione lavorativa nella redazione con partecipazione alla funzione di programmazione e formazione del prodotto finale e delle attività organizzate a tal fine, quali la scelta e la revisione degli articoli, la collaborazione all'impaginazione, la stesura dei testi redazionali ed altre attività connesse (Cass. 21 ottobre 2000, n. 13945; Cass. 6 maggio 2015, n. 9119), con quotidianità dell'impegno lavorativo, a differenza del collaboratore fisso di cui all'art. 2 CNLG la cui attività è caratterizzata silo dalla continuità della prestazione (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3037).

In base a tali considerazioni la Cassazione considera la pronuncia impugnata del tutto corretta, essendosi la Corte territoriale attenuta ai principi di diritto sopra richiamati laddove ha ravvisato nella quotidianità delle prestazioni consistenti nella ricerca, valutazione ed elaborazione degli avvenimenti di cronaca, il precipuo elemento distintivo della qualifica di redattore. Il ricorso viene, pertanto respinto.

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