Contenzioso

È valido il ricorso contro il fermo amministrativo se l’amministrazione ha fornito informazioni errate

di Silvano Imbriaci

Una volta che siano decorsi 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, in mancanza di pagamento o di rateizzazione o di un provvedimento di sospensione, l’agente della riscossione pone in essere le necessarie attività volte al recupero delle somme.

Una delle più efficaci misure cautelari è il fermo amministrativo dei veicoli intestati al debitore, provvedimento solitamente preceduto da un preavviso nel quale l'interessato è invitato a mettersi in regola con i pagamenti entro un breve termine. Nel caso oggetto della sentenza di Cassazione 24300/2015, l'agente della riscossione, a fronte dell'impugnazione di preavviso di fermo emesso per il recupero di contribuzione Inps, ha eccepito la tardività del ricorso, in quanto, essendo ormai definitive le cartelle di pagamento non impugnate nei termini, l'impugnazione del preavviso di fermo sarebbe dovuta intervenire nel termine di venti giorni dalla notifica (in base all’articolo 617 del codice di procedura civile), potendosi individuare solamente come opposizione agli atti esecutivi.

Tuttavia, nel caso specifico, è stato rispettato il termine di 60 giorni, che risultava essere l'unico indicato nell'atto impugnato. Tale (evidentemente erronea) indicazione, secondo la Corte non può essere considerata irrilevante. A prescindere dalla qualificazione che all'azione si intenda dare, il ricorso non può essere dichiarato tardivo, in quanto il contribuente si è avvalso delle indicazioni che la stessa amministrazione ha inserito nell'atto.

Già in altre situazioni simili la Cassazione ha avuto modo di precisare che l'indicazione erronea del termine per impugnare l'atto crea un legittimo affidamento nel destinatario, tale da impedire il verificarsi di preclusioni processuali: per esempio, in caso di opposizione a cartelle di pagamento emesse per il recupero di sanzioni (Cassazione 1372/2013), o in materia di contenzioso tributario, laddove si è affermato che la cosiddetta clausola di impugnazione (obbligatoriamente inserita in ogni atto impositivo) produce l'effetto di far gravare interamente sull'autorità amministrativa, anche alla luce dei principi dettati dallo statuto del contribuente, le conseguenze del rischio di errore delle informazioni in essa contenute, con la conseguenza che l'adesione del destinatario anche ad una sola delle informazioni contenute nella clausola in questione è sufficiente a giustificare la rimessione in termini ai fini dell'impugnazione (si veda Cassazione 10822/2010).

Dunque secondo la Cassazione, l'aver seguito le indicazioni contenute nell'atto di per sé rende l'errore scusabile. E questo può accadere non solo per quanto riguarda l'indicazione dei termini, ma anche nell'individuazione del giudice competente (Cassazione sezione tributaria 10520/2015). In questi termini la giurisprudenza non fa che applicare l'articolo 10 della legge 212/2000, lo statuto del contribuente, secondo cui «i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede», e questo anche quando il contribuente sia riuscito autonomamente a rettificare l'errore incidente su altre informazioni (riguardanti per esempio l'organo giurisdizionale e le modalità dell'impugnazione).

Ciò che non viene considerato, e che costituisce spesso l'obiezione a questo tipo di ragionamento, è che solitamente il contribuente non agisce da solo, ma si trova a essere affiancato da professionisti e consulenti, oltre che operatori di settore (per esempio patronati), tutti soggetti sufficientemente informati circa le modalità, i tempi e i termini per contrastare gli atti impositivi. Sotto questa luce probabilmente il giusto principio della tutela dell'affidamento dovrebbe essere pienamente apprezzato soprattutto nelle ipotesi in cui la scelta del contribuente sia stata effettivamente autonoma e non eterodeterminata.

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