Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per g.m.o. e intento discriminatorio

Licenziamento per giusta causa e tardività della contestazione disciplinare

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

In caso di declaratoria di nullità del termine il lavoratore deve essere riammesso in servizio nella sede originaria

Richiesta di risarcimento del danno da mobbing e demansionamento

Licenziamento per g.m.o. e intento discriminatorio

Cass. Sez. Lav. 13 ottobre 2015, n. 20534

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. I. s.n.c.; Contr. R.S.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Crisi risalente nel tempo e/o contingente - Incremento di profitto - Illegittimità - Controllo del giudice sulla sussistenza dei motivi - Configurabilità - Licenziamento discriminatorio e/o ritorsivo - Regime probatorio - Presunzioni (art. 2729 c.c.) - Motivo unico e determinante del recesso - Gravità e precisione - Raggiungimento della prova - Configurabilità

Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3 l. 604/1966 deve essere valutato sulla base di elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti, con la precisazione che nella relativa nozione è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento di profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione di costi. Seppure i criteri di gestione dell'impresa restino riservati al datore di lavoro, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., compete pur sempre al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore.

Con riferimento al regime probatorio del licenziamento discriminatorio ed in particolare alle presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d'uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento, purchè grave e preciso, dovendo il requisito della 'concordanzà ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta nuovamente i temi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ivi inclusa la sindacabilità giudiziale dei motivi addotti dal datore di lavoro, nonchè del licenziamento discriminatorio (nella specie, ritorsivo) e del relativo regime probatorio. In particolare, nel caso in esame, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatogli dalla Società sulla base di un'asserita crisi aziendale, invero molto risalente nel tempo (2008), deducendone la sottostante natura ritorsiva. Tale finalità si assumeva essere correlata ad un'iscrizione del lavoratore al sindacato di poco antecedente al recesso del datore ed a rimostranze varie, effettuate dal soggetto collettivo nell'interesse del nuovo affiliato, in tale periodo. La Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d'Appello - che aveva condannato la Società alla reintegrazione del lavoratore - in primo luogo sulla valutazione dell'insussistenza del motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, richiamandosi al noto orientamento secondo cui il g.m.o. "deve essere valutato sulla base di elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti" (Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282; Cass. 22 agosto 2007, n. 17887; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579). Ha inoltre sposato un'interpretazione "restrittiva" della nozione di giustificato motivo oggettivo, in base alla quale vi rientrerebbe "l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento di profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione di costi" (v., ex multis, Cass. 17 maggio 2003, n. 7750). A corollario di ciò, se da un lato la Cassazione si dichiara consapevole del fatto che "i criteri di gestione dell'impresa restano riservati al datore di lavoro, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost.", dall'altro non esita ad affermare che "compete pur sempre al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore".

Tale passaggio risulta centrale, dal momento che la Corte attrae una verifica senza dubbio "teleologicamente orientata" - volta cioè a comprendere il fine ultimo del licenziamento (conseguire un profitto o far fronte ad una crisi, contingente o meno) - all'interno del controllo sull'effettiva sussistenza del motivo di licenziamento: così legittimando, anche ai sensi dell'art. 30 l. 183/2010, il sindacato del giudice sul punto.

Passando al tema del licenziamento discriminatorio e del relativo regime probatorio, i giudici di legittimità aprono a che il convincimento del giudice per via presuntiva (ex art. 2729 c.c.) - che equivale al raggiungimento della prova - possa fondarsi anche "su di un solo elemento, purchè grave e preciso". Ed infatti, a parere della Corte, il "requisito della 'concordanzà" - che a sua volta presuppone una necessaria pluralità di elementi - non è da ritenersi indispensabile, in quanto sarebbe "menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi" (Cass. 29 luglio 2009, n. 17574). Sulla scorta di ciò la Cassazione ha confermato la decisione della Corte di merito che aveva riconosciuto natura discriminatoria al recesso intimato dalla Società datrice di lavoro, una volta venuto meno - per i motivi di cui sopra - il g.m.o. formalmente addotto; il tutto sulla base della valorizzazione, mediante lo schema delle presunzioni, di un unico motivo, assunto come determinante e giudicato rispondente ai criteri di cui all'art. 2729 c.c.

Sicchè, in base a tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, al fine di raggiungere la prova della discriminatorietà e/o della ritorsività di un licenziamento, il lavoratore (su cui incombe l'onere della prova) potrà beneficiare del regime probatorio agevolato fondato su "presunzioni" anche in mancanza dell'allegazione di più elementi tra loro "gravi, precisi e concordanti" (art. 2729 c.c.). Costui potrà infatti anche limitarsi all'allegazione di un solo elemento presuntivo, a condizione che esso - singolarmente considerato - possa aver generato l'atto di recesso che si assume illegittimo e che, in ogni caso, presenti i caratteri della "gravità" e della "precisione".




Licenziamento per giusta causa e tardività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 5 ottobre 2015, n. 19830

Pres. Stile; Rel. Manna; P.M. Celeste; Ric. T.I. S.p.A.; Contr. L.C.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Immediatezza della contestazione - Criteri di valutazione - Ragionevole configurazione dei fatti addebitati - Rilevanza - Assoluta certezza della verificazione dei fatti - Necessità - Esclusione - Conseguenze - Fattispecie.

Nell'ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il principio di immediatezza comporta che la contestazione disciplinare debba avvenire non appena il datore di lavoro abbia elementi tali da fargli ritenere ragionevolmente sussistenti le infrazioni e non può, invece, procrastinarla fino a quando non abbia acquisito l'assoluta certezza dei fatti (Nella specie, la S.C. ha ritenuto il principio correttamente applicato dalla Corte d'appello che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato a un dipendente in quanto la società datrice di lavoro, 6 mesi prima della contestazione, grazie ad una prima relazione dell'Internal Audit, era venuta in possesso di tutti gli elementi per decidere se procedere alla contestazione disciplinare e, quindi, valutare la sanzione disciplinare da irrogare, senza alcuna necessità di attendere, come poi era invece avvenuto, l'esito delle ulteriori indagini dell'Internal Audit).

Nota

Il caso in esame trae origine da una pronuncia della Corte d'Appello di Torino che, in totale riforma della sentenza di primo grado, annullava per tardività della contestazione il licenziamento disciplinare intimato a un lavoratore. La società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per avere la Corte Territoriale affermato la tardività della contestazione (avvenuta il 20 marzo 2012) rispetto alla data degli illeciti disciplinari (per fatti risalenti al 2008), non avendo considerato invece la data in cui la società ne aveva avuto contezza. La ricorrente chiariva, inoltre, che da una prima relazione dell'Internal Audit del mese di agosto 2011 la società era venuta a conoscenza soltanto di alcune anomalie, ma che soltanto dopo le ulteriori indagini svolte e la relazione dell'Internal Audit del febbraio 2012 si era avuta la prova dei fatti oggetto di contestazione. La Cassazione ha rigettato il ricorso richiamando un proprio consolidato orientamento secondo il quale la contestazione disciplinare deve avvenire non appena il datore di lavoro abbia elementi tali da fargli ritenere ragionevolmente sussistenti le infrazioni e non può, invece, procrastinarla fino a quando non abbia acquisito l'assoluta certezza dei fatti.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, affermando che la società quanto meno nell'agosto 2011 (grazie alla prima relazione dell'Internal Audit, risalente ad oltre sei mesi prima della contestazione) aveva avuto notizia di tutti gli elementi necessari per procedere alla contestazione disciplinare.




Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 21 ottobre 2015, n. 21476

Pres. Roselli; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. L.D.I. s.r.l. in l. e L. B. s.r.l.; Controric. F.C.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Riduzione dell'ambito di applicazione al solo reparto soppresso - Ammissibilità - Condizioni - Sussistenza di oggettive esigenze tecnico produttive - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Necessità

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all'art. 4, c. 3, L. N. 223/1991, restando onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata.

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi sulla questione della delimitazione dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta ex art. 5, c. 1, L. n. 223/1991, nell'ipotesi in cui il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda. Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, un lavoratore era stato licenziato dal proprio datore di lavoro, all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991, in quanto assegnato al Reparto Erboristeria (quale addetto alla ricezione degli ordini da parte degli agenti) che era stato soppresso e in considerazione dell'impossibilità di riallocazione dello stesso in altro settore dell'Ufficio Vendite (id est: Reparto Farmacia). La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di impugnativa di licenziamento proposta dal lavoratore, per violazione dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta ex art. 5 L. 223/1991. Ed invero, la Corte territoriale ha ritenuto che l'applicazione dei criteri di scelta doveva riguardare, ai sensi dell'art. 5, c. 1, L. n. 223/1991, tutti i lavoratori addetti all'Ufficio Vendite (e non solo quelli addetti al reparto soppresso), tanto più che dall'esame delle risultanze istruttorie era emerso che: 1. il lavoratore aveva prestato la sua attività anche per il Reparto Farmacie (non interessato dalla riduzione di personale); 2. lo stesso possedeva una professionalità equivalente a quella degli addetti al Reparto Farmacia; 3. il datore di lavoro non aveva offerto la prova della sussistenza di ragioni tecnico - produttive che giustificassero il più ristretto ambito di applicazione dei criteri di scelta.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso per cassazione proposto dalla società, atteso che la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio, in più occasioni ribadito (cfr. ex plurimis Cass. 09/03/2015, n. 4678; Cass. 12/01/2015, n. 203; Cass. 20/02/2012, n. 2429) secondo cui, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un'unità produttiva o a un settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare in mobilità, può essere limitata agli addetti dell'unità, reparto o settore da ristrutturare, purchè il datore di lavoro provi la sussistenza di ragioni tecnico-produttive che giustifichino la restrizione della platea dei lavoratori da comparare; ragioni che devono essere adeguatamente esposte nella comunicazione iniziale ex art. 4, comma 3, L. 223/91.

L'orientamento della Suprema Corte sembra, dunque, assestarsi nel senso che, anche nell'ipotesi di soppressione di un reparto e/o unità, la comparazione dei lavoratori da licenziare deve estendersi all'intera azienda, perché è questo l'ambito specificato dall'art. 5, c. 1, L. n. 223/1991. La restrizione della platea dei lavoratori da licenziare al solo reparto e/o unità interessata dalla ristrutturazione è un'ipotesi del tutto residuale che può avvenire esclusivamente sulla base di oggettive esigenze aziendali che il datore di lavoro deve indicare nella comunicazione iniziale e che deve provare in caso di giudizio. Pertanto, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti al reparto o settore ove sono ravvisati esuberi, se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso, da parte degli stessi, di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (v. Cass. 16/10/2015, n. 21015).




In caso di declaratoria di nullità del termine il lavoratore deve essere riammesso in servizio nella sede originaria

Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2015, n. 20437

Pres. Roselli; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. P.I. S.p.A.; Contr. S.B.;

Contratto a termine illegittimo - Conseguenze - Riammissione in servizio presso la sede originaria - Necessità - Trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c. - Ammissibilità - Limiti - Sussistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive - Necessità

L'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della medesima posizione di lavoro del dipendente, il cui rapporto di lavoro deve ritenersi non essere cessato. Conseguentemente, il reinserimento nell'attività lavorativa deve avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore, ex art. 2103 c.c., ad altra unità produttiva ma in tal caso il mutamento della sede deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, avuto riguardo alla situazione aziendale esistente al momento in cui il ripristino del rapporto deve essere operato.

Nota

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale della medesima città, aveva dichiarato l'illegittimità del trasferimento disposto dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice da Roma Acilia - sede presso cui la stessa avrebbe dovuto essere riammessa a seguito di una precedente pronuncia della Corte di appello che aveva dichiarato la illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro - a Bologna; conseguentemente, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato alla dipendente a causa del rifiuto della stessa di prendere servizio presso la nuova sede. A fondamento della decisione la Corte di merito evidenziava che la società, a riprova della legittimità del trasferimento, aveva depositato dei tabulati dai quali risultava l'assenza di posti disponibili a Roma ed in tutto il Lazio, ma tale documentazione, sosteneva la corte di appello, si riferiva al mese di giugno del 2009, epoca in cui la lavoratrice aveva sostenuto il colloquio per la riammissione e non al 19 marzo del 2009, data in cui la Corte di appello aveva disposto il ripristino del rapporto. Al contrario, sempre ad avviso della corte, da quei medesimi documenti risultava che a marzo 2009 vi erano posti disponibili nel Lazio e, conseguentemente, era giustificato, ex art. 1460 c.c., il rifiuto della lavoratrice di prendere servizio a Bologna e, quindi, era da ritenersi illegittimo il licenziamento intimatole.

Avverso tale sentenza la società propone ricorso per cassazione rilevando, in particolare, che dai documenti dalla medesima prodotti gli uffici nel Lazio risultavano saturi sul piano delle risorse di personale, ovvero non in grado di accogliere altri dipendenti, sin dall'inizio del 2008.

La Suprema Corte respinge il ricorso affermando che, come già più volte precisato dalla sezione, l'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della medesima posizione di lavoro del dipendente, il cui rapporto di lavoro deve ritenersi non essere cessato; il reinserimento nell'attività lavorativa deve, quindi, avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva ma in tal caso il mutamento della sede deve essere giustificato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, che il datore di lavoro, in caso di contestazione, ha l'onere di allegare e provare in giudizio (cfr. Cass. del 16 maggio 2013, n. 11927; Cass. del 9 agosto 2013, n. 19095).

Quindi, ad avviso della Cassazione, la mancata riammissione nella sede originaria configura un trasferimento, e per la valutazione della sua legittimità occorre avere riguardo alla situazione aziendale esistente nel momento in cui esso produce i suoi effetti e, dunque, nell'ipotesi in esame, alla data in cui il ripristino doveva essere operato. Nel caso di specie, conclude la Corte, dalla documentazione depositata dal datore di lavoro risultava che alla data della pronuncia della Corte di appello vi erano posti disponibili in una sede vicina a quella originaria della lavoratrice, sede presso la quale avrebbe dovuto disporsi la riammissione.




Richiesta di risarcimento del danno da mobbing e demansionamento

Cass. Sez. Lav. 5 novembre 2015 n. 22635

Pres. Stile; Rel. Doronzo; Ric. R. D. G. S.p.A.; Controric. F. A.;

Procedimenti in materia di lavoro e previdenza - Domanda giudiziale - Modifica - Originaria domanda di danno cosiddetto biologico in relazione al "mobbing" - Successiva qualificazione come demansionamento - Nuova domanda - Configurabilità - Esclusione

La riconduzione al "demansionamento" dell'identico comportamento ascritto alla datrice di lavoro a titolo di mobbing non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico.

Nota

Il caso in commento ha ad oggetto il rapporto tra la domanda di risarcimento del danno di mobbing e quella di risarcimento del danno derivante da demansionamento.

Il lavoratore aveva richiesto la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento dei danni biologico e da perdita di professionalità subiti in conseguenza della condotta datoriale, ritenuta integrare la fattispecie del cd. mobbing. In primo grado la richiesta del lavoratore era stata rigettata. La Corte d'Appello di Caltanissetta, invece, aveva ritenuto provata una condotta datoriale di demansionamento ai danni del lavoratore, consistita nel fatto che questo era rimasto inattivo per lungo tempo, e conseguentemente aveva condannato la società al risarcimento del danno biologico e da perdita di professionalità di cui sopra.

Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, tra l'altro, la violazione e falsa applicazione dell'art 112 c.p.c. per avere la sentenza della Corte territoriale condannato al risarcimento del danno biologico nonostante avesse rigettato la domanda di mobbing. In sostanza, con il quesito di diritto formulato, la società datrice di lavoro ha chiesto alla Suprema Corte di decidere se sia legittima - ai sensi dell'articolo sopra citato - la sentenza che in presenza di una domanda di mobbing e di risarcimento dei danni da esso causati ed esclusane la fondatezza, condanni il datore di lavoro a risarcire il danno biologico e alla professionalità in merito ad un asserito demansionamento, menzionato nella narrativa del ricorso ma non oggetto di alcuna domanda.

La Corte di Cassazione ha dichiarato infondato tale motivo e rigettato il ricorso. In primo luogo la Suprema Corte ha precisato che il giudice, nell'indagine volta all'individuazione della portata e del contenuto delle domande sottoposte alla sua cognizione, è tenuto ad effettuare un esame complessivo dell'atto introduttivo e non della sola parte dedicata alle conclusioni.

In secondo luogo, ha finito col ritenere che, data la complessità della fattispecie del mobbing - che si sostanzia in una serie di atti o comportamenti vessatori posti in essere ai danni del lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obbiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo - e la mancanza di una sua specifica disciplina, la riconduzione al "demansionamento" dell'identico comportamento ascritto alla datrice di lavoro non comporta domanda nuova rispetto a quella di mobbing, ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico.

Secondo la Corte, dunque, la domanda di risarcimento del danno da mobbing ricomprende quella, di portata e contenuto meno ampio, di risarcimento del danno da dequalificazione professionale fondata sui medesimi fatti e comportamenti.

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