Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Non basta la dequalificazione per ottenere il risarcimento del danno

Nullità del patto di prova in caso di assunzioni successive

Licenziamento per superamento del periodo di comporto e responsabilità del datore di lavoro

Licenziamenti collettivi e criteri di scelta

I limiti all'adibizione a mansioni inferiori dei lavoratori non scioperanti

Non basta la dequalificazione per ottenere il risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 3 settembre 2015, n. 17511

Pres. Stile; Rel. Berrino; Ric. B.P.; Controric. P.I. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Mansioni - Diritto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in conformità della qualifica - Illegittimo rifiuto del datore di lavoro - Danno (anche biologico ed esistenziale) derivanti da dequalificazione - Definizione - Onere di allegazione - Prova della sua sussistenza - Onere incombente sul lavoratore - Configurabilità

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione - nel ricorso introduttivo del giudizio - dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.

Nota

La sentenza in commento affronta una pluralità di questioni circa i presupposti, sostanziali e processuali, necessari per la configurabilità delle fattispecie della dequalificazione nonché delle correlate pretese risarcitorie.

In concreto, il lavoratore lamentava, anzitutto, il diritto ad un inquadramento superiore, allegando a supporto il protratto svolgimento in due differenti periodi - seppur per singole durate inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva per il riconoscimento del superiore inquadramento - di mansioni più qualificanti rispetto a quelle d'assunzione. Si doleva, quindi, di esser stato successivamente adibito a mansioni non equivalenti a quelle del livello asseritamente conseguito, adducendo, altresì, un preteso mobbing.

Sia il Tribunale che la Corte d'Appello respingevano le domande del dipendente, evidenziando, tra il resto, la mancanza di contiguità dei periodi di adibizione a mansioni superiori - collocatisi a circa tre anni di distanza l'uno dall'altro - nonché, con riferimento al secondo periodo di assegnazione, l'esistenza in capo al prestatore sostituito dal ricorrente del diritto alla conservazione del posto di lavoro. Per l'effetto - argomentavano i Giudici del merito - "non poteva essere lamentato un demansionamento in relazione ad una qualifica non acquisita".

Avverso tale decisione il dipendente proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra il resto, che la Corte di merito non aveva tenuto conto che i due periodi di adibizione a mansioni superiori si erano conclusi, rispettivamente, soltanto dieci e sei giorni prima dei sei mesi indicati dalla contrattazione collettiva per il riconoscimento del diritto alla qualifica superiore - il che, a parere del lavoratore, dimostrava la mala fede della società datrice di lavoro - e che il lavoratore formalmente sostituito dal ricorrente nella mansione superiore non aveva, in concreto, mai ripreso servizio per impedimenti legati all'attività sindacale. Infine, il ricorrente si doleva dell'errata valutazione da parte della Corte d'Appello del quadro probatorio ai fini della dimostrazione dell'inadempimento datoriale e del suo, correlato, diritto al risarcimento del danno La Suprema Corte ha respinto il ricorso sulla base di un'articolata motivazione.

Con riferimento all'esclusione della promozione automatica nell'ipotesi di sostituzione del lavoratore con diritto alla conservazione del posto, la Cassazione ricorda che tale fattispecie si verifica in tutti i casi in cui sia configurabile una sospensione legale o convenzionale del rapporto del lavoratore sostituito e, dunque, anche nel caso in cui il sostituito sia assente per l'espletamento di attività sindacale, in forza di permessi retribuiti previsti dalla contrattazione collettiva, a nulla rilevando la frequenza, contiguità e/o continuità dei suddetti permessi.

Riguardo, poi, alla frequenza e sistematicità di reiterate assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori, il cui cumulo sia utile all'acquisizione del diritto alla promozione automatica in forza dell'art. 2103 c.c., non è sufficiente - a parere dei Giudici di legittimità - la mera ripetizione delle assegnazioni, essendo invece necessario, se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro, una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento. Infine, la Suprema Corte ha concluso affermando che, in tema di danno non patrimoniale derivante da preteso demansionamento, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del pregiudizio professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio - dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.




Nullità del patto di prova in caso di assunzioni successive

Cass. Sez. Lav. 17 luglio 2015, n. 15059

Pres. Stile; Rel. Manna; P.M. Celeste; Ric. P.I. S.p.A.; Contr. A.F.;

Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Assunzione in prova - In genere - Patto di prova - Causa - Ripetizione in sequenza di contratti - Legittimità - Condizioni - Nullità - Fattispecie

Nel lavoro subordinato, la causa del patto di prova è quella di tutelare l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicché deve affermarsi l'invalidità del patto medesimo ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti è ammissibile solo se, in base all'apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto la nullità del patto di prova, apposto ad un contratto a tempo indeterminato stipulato il giorno seguente la scadenza dell'ultimo di quattro contratti a termine, aventi ad oggetto mansioni analoghe, in carenza di esigenze di ulteriore sperimentazione dell'affidabilità professionale del lavoratore).

Nota

La sentenza in commento trae spunto da una pronuncia della Corte d'Appello di Roma che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a un lavoratore per mancato superamento del periodo di prova.

Avverso tale pronuncia, la società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 2096 c.c.., per avere la gravata sentenza ritenuto nullo, per difetto di causa, il patto di prova in quanto apposto ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con un lavoratore le cui qualità erano già state verificate in occasione di quattro precedenti contratti a termine succedutisi fra le parti medesime, l'ultimo dei quali scaduto il giorno precedente la stipulazione del contratto a tempo indeterminato. La società ricorrente, a sostegno della propria tesi, richiamava, in particolare, quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale il decorso del tempo e il concorso di molteplici possibili fattori ben possono modificare non solo e non tanto le qualità professionali del lavoratore, ma anche il suo comportamento il relazione all'adempimento della prestazione e al differente contesto, lavorativo (essendo diverso il lavorare a termine rispetto al lavorare a tempo indeterminato) e territoriale, nel quale egli è chiamato ad operare. La società lamentava anche il fatto che la Corte territoriale non avesse considerato la brevità dei precedenti rapporti a termine e la distanza temporale tra loro nonché l'esito ampiamento negativo della prova.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso uniformandosi al proprio costante orientamento secondo il quale nel lavoro subordinato, la causa del patto di prova è quella di tutelare l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicché deve affermarsi l'invalidità del patto medesimo ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti è ammissibile solo se, in base all'apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.

Nel caso di specie la Cassazione ha sottolineato come alla società ricorrente non giovasse invocare tale giurisprudenza, dal momento che i giudici di merito avevano correttamente accertato l'inesistenza di esigenze di ulteriore verifica delle qualità professionali, della condotta e della personalità del lavoratore, già saggiate dalla datrice di lavoro nell'arco dei quattro anni e nove mesi precedenti la nuova assunzione, in cui si erano succeduti quattro contratti a termine fra le stesse parti, tutti con patto di prova, per lo svolgimento di incombenze del tutto analoghe a quelle relative al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In merito poi alle censure mosse dalla ricorrente secondo cui la necessità di stipulare un ulteriore patto di prova sarebbe stata giustificata dal diverso contesto territoriale e dal fatto che lavorare con contratto a termine sarebbe cosa diversa dal lavorare con contratto a tempo indeterminato, la Suprema Corte ha sottolineato che l'espletare nell'ambito di un rapporto di lavoro a termine mansioni analoghe a quelle svolte nel corso d'un rapporto a tempo indeterminato non rileva se non per il differente tasso di tutela di cui gode il lavoratore, circostanza estranea alla causa del patto di prova. Quanto, infine, al diverso contesto territoriale dell'ultimo rapporto di lavoro, la Cassazione ha rilevato che se in occasione della successiva assunzione una qualsiasi novità nelle condizioni contrattuali - estranea al contenuto della prestazione lavorativa - giustificasse la reiterazione del patto di prova, quest'ultimo potrebbe sostanzialmente essere ripetuto all'infinito, il che collide con la ratio dell'art. 2096 c.c. Nella fattispecie, pertanto, la Suprema Corte ha considerato giuridicamente esatta la dichiarazione di nullità per difetto di causa del patto di prova.




Licenziamento per superamento del periodo di comporto e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 10 agosto 2015, n. 16667

Pres. Roselli; Rel. Bronzini; P.M. Servello; Ric. C.R.; Contr. M.A. S.p.A.;

Licenziamento individuale - Superamento periodo di comporto - Malattia professionale - Violazione art. 2087 c.c. - Accertamento responsabilità del datore di lavoro - Necessità

Se è vero che non possono essere imputate al lavoratore, ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto, quelle assenze che derivano dalla nocività nelle modalità di esercizio delle mansioni delle quali il datore di lavoro sia responsabile - per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminarne l'incidenza in adempimento dell'obbligo di protezione ed, eventualmente, anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di tale obbligo - è però necessario che venga accertata una responsabilità del datore di lavoro nell'avere, anche in parte, determinato la malattia e quindi l'assenza del lavoratore.

Nota

La Corte di appello di L'Aquila, in riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale del lavoro di Teramo, dichiarava la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato da una società ad un proprio dipendente, osservando che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, il lavoratore non aveva offerto la prova della natura professionale della malattia sofferta (discoartrosi) che aveva determinato il superamento di detto periodo. Al contrario - secondo la Corte di appello - la società aveva provato di aver adottato tutte le cautele del caso come risultava dalle ispezioni effettuate dalla ASL competente che non aveva mai rilevato alcunché di pericoloso in relazione ai reparti presso cui l'appellato era stato addetto. Sino al 2005 il lavoratore era stato giudicato idoneo dal medico di fabbrica e dopo tale data l'azienda lo aveva adibito a reparti ove aveva lavorato da seduto e senza sforzi fisici. Inoltre, rilevava la corte di merito, il lavoratore aveva subìto un incidente stradale nel 2000 e non aveva avvertito il proprio datore di lavoro delle precarie condizioni di salute dopo l'intervento chirurgico cui era stato sottoposto.

Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 2087 c.c. in quanto, sostiene il ricorrente che, nonostante avesse informato la società datrice di lavoro delle sue precarie condizioni fisiche, era stato adibito a mansioni gravose che avevano compromesso il suo stato di salute; anche dopo il 2005 era stato spesso inviato in reparti ove aveva espletato attività faticose che richiedevano la posizione eretta ed un sforzo fisico incompatibile con il suo stato di salute.

La Suprema Corte respinge il motivo, richiamando innanzitutto l'orientamento della sezione secondo il quale non possono essere imputate al lavoratore, ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto, quelle assenze che derivano dalla nocività nelle modalità di esercizio delle mansioni delle quali il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminarne l'incidenza in adempimento dell'obbligo di protezione ed, eventualmente, anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di tale obbligo (Cass. n. 5006/2000). E' principio consolidato, però, quello per cui occorre dimostrare una responsabilità del datore di lavoro nell'avere, anche in parte, determinato la malattia e quindi l'assenza del lavoratore.

Ebbene, nel caso di specie, ad avviso della Cassazione, la sentenza impugnata, con motivazione logica e coerente, aveva escluso tale responsabilità avendo accertato che il lavoratore era stato sempre sottoposto alle viste del medico di fabbrica che non avevano rilevato alcuna impossibilità nello svolgimento delle mansioni cui il ricorrente era stato addetto; che le ispezioni della ASL non avevano mai imputato alla società alcun rischio specifico per le attività svolte nei diversi reparti. Inoltre, dopo il 2005, in presenza di documentazione medica che attestava le difficoltà del ricorrente, lo stesso era stato immediatamente adibito a mansioni che venivano svolte da seduti o comunque senza un apprezzabile sforzo fisico.




Licenziamenti collettivi e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 21 luglio 2015, n. 15210

Pres. Lamorgese; Rel. Di Cerbo; P.M. Servello; Ric. R. s.c.a.r.l.; Controric. C.L.

Licenziamento collettivo - Individuazione dei criteri di scelta del personale da licenziare mediante accordo sindacale - Criteri derogatori di quelli legali ex art. 5, c. 1, l. n. 223/1991 - Legittimità

Così come previsto dall'art. 5, c. 1, L. n. 223/1991, in relazione ai collocamenti in mobilità e ai licenziamenti collettivi, con accordo sindacale possono essere determinati criteri di scelta dei lavoratori diversi da quelli stabiliti per legge. (Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto che legittimamente l'accordo sindacale ha previsto, quale criterio di scelta, quello del nucleo familiare, in deroga al criterio legale dei carichi di famiglia previsto dall'art. 5, c. 1, L. n. 223/1991).

Licenziamento collettivo - Fattispecie - Fine lavoro nelle costruzioni edili - Deroga alla procedura per i licenziamenti collettivi ex art. 24, c. 4, L. n. 223/1991 - Applicabilità - Condizioni - Esaurimento di una fase dei lavori - Necessità

L'esclusione dell'obbligo di osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, prevista dall'art. 24, c. 4, L. n. 223/1991, fra l'altro, per la fine lavoro nelle costruzioni edili, motivata dall'impossibilità assoluta di un'ulteriore utilizzazione dei lavoratori destinatari dei provvedimenti di recesso, non opera quando la fase lavorativa non sia ultimata, ma sia in corso di graduale esaurimento, atteso che, in tal caso, si rende necessaria una scelta fra lavoratori da licenziare e lavoratori da adibire all'ultimazione dei lavori; scelta che deve seguire le regole di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991. (Nel caso di specie la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso del datore di lavoro avverso la decisione della Corte d'Appello, ha ritenuto che non ricorresse l'ipotesi di fine lavoro, atteso che, all'epoca del licenziamento, era ancora operativa una forza lavoro di settanta operai).

Nota

La sentenza in commento riguarda il caso di un lavoratore (dipendente di un'azienda addetta alla realizzazione e/o manutenzione di tratti autostradali), che ha adito il Giudice del Lavoro per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991; procedura, quest'ultima, motivata con il "graduale esaurirsi dell'unica commessa" tale da non consentire il mantenimento del livello occupazionale. A sostegno della domanda, il lavoratore deduceva la violazione della procedura di mobilità, ai sensi degli artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991 ed, in particolare, l'erronea applicazione dei criteri di scelta pattuiti con accordo sindacale. Il Tribunale rigettava la domanda.

La Corte d'Appello di Salerno, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento, con conseguente ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegrazione ex art. 18 Stat. Lav., sulla scorta delle seguenti considerazioni: a) al momento del licenziamento la società era ancora in attività avendo una forza lavoro di circa settanta operai; b) la fattispecie in esame non rientrava nell'ambito di quelle sottratte all'applicazione della l. n. 223/1991 (nella specie, ipotesi di "fine lavoro in edilizia" ex art. 24, c. 4, L. n. 221/1991), atteso il carattere di specialità della norma, come tale, non suscettibile di applicazione analogica a settori differenti (id est: settore autostrade); c) la società ha erroneamente applicato i criteri di scelta previsti dall'accordo sindacale, in particolare, con riferimento al criterio del "nucleo familiare" che, in deroga al criterio fissato dall'art. 5, c. 1, L. n. 221/1991, andava interpretato nel senso di "composizione del nucleo familiare" e non come numero di "soggetti a carico".

Avverso la predetta sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione articolato in un unico motivo, con il quale denunciava vizio di motivazione, in relazione, in primo luogo, alla ritenuta estraneità della fattispecie in esame all'ambito di applicazione della deroga prevista dall'art. 24, c. 4, L. n. 223/1991 concernente la "fine lavoro nel settore edile" e, in secondo luogo, all'erronea applicazione del criterio contrattuale del "nucleo familiare", atteso che l'accordo sindacale non può derogare al criterio legale dei "carichi di famiglia". La Suprema Corte ha ritenuto privo di pregio il primo profilo, affermando, coerentemente ad altra precedente pronuncia (Cass. 06/02/2008, n. 2782) che la deroga alla procedura per i licenziamenti collettivi, prevista dall'art. 24, c. 4, L. n. 223/1991 per l'ipotesi di "fine lavoro nelle costruzioni edili", non opera quando la fase lavorativa non sia ultimata, ma sia in corso di graduale esaurimento, atteso che, in tal caso, si rende necessaria una scelta tra i lavoratori da licenziare e lavoratori da adibire all'ultimazione dei lavori; scelta che deve soggiacere, necessariamente, alle regole procedurali di cui agli artt. 4 e 5, L. n. 223/1991. Ebbene, sulla scorta di tale principio, la Corte di Cassazione ha evidenziato che non ricorre, nel caso di specie, l'ipotesi di "fine lavoro" invocata dalla società ricorrente, essendo stato accertato dalla Corte di merito, che, al momento del licenziamento, era ancora operativa forza lavoro. Tale rilievo - circa l'insussistenza del presupposto di "fine lavoro" richiesto dalla disciplina derogatoria ex art. 24, c. 4, l. n. 223/1991 - ha finito con l'assorbire l'argomento, utilizzato dalla Corte territoriale, secondo cui l'attività svolta dalla società ricorrente (id est: realizzazione di tratti autostradali) non sarebbe rientrata nell'attività edilizia.

La Suprema Corte ha, altresì, ritenuto infondato il secondo profilo di censura, sulla base del principio, anch'esso pacifico (cfr. ex plurimis Cass. 19/05/2006, n. 11886; Cass. 07/06/2003, n. 9153; Cass. 24/03/1998, n. 3133) secondo cui gli accordi sindacali possono legittimamente derogare, in tema di criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, ai criteri legali ex art. 5, c. 1, L. n. 223/1991. Ne consegue - ha osservato la Corte di legittimità - che deve ritenersi legittimo l'accordo sindacale che ha previsto, quale criterio di scelta, quello del nucleo familiare, in luogo del criterio dei carichi di famiglia di cui all'art. 5, c. 1, L. n. 223/1991. La Suprema Corte ha, dunque, sottolineato come la Corte d'Appello salernitana ha fatto corretta applicazione di tale principio, avendo attribuito al lavoratore un punteggio che tenesse conto del numero delle persone facenti parte del nucleo familiare (così come previsto dall'accordo sindacale concluso tra le parti), e non del numero dei familiari effettivamente a carico (come previsto dalla legge).




I limiti all'adibizione a mansioni inferiori dei lavoratori non scioperanti

Cass. Sez. Lav. 10 luglio 2015, n. 14444

Pres. Stile; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. C.A. s.c.a r.l.; Controric. F.C.;

Sciopero - Sostituzione di lavoratori scioperanti con il personale rimasto in servizio - Assegnazione a mansioni inferiori - Condizioni di ammissibilità - Marginalità, accessorietà e complementarietà delle mansioni inferiori assegnate - Inosservanza - Condotta antisindacale - Ragioni

In caso di sciopero, non assume carattere antisindacale la condotta del datore di lavoro che disponga l'utilizzazione del personale rimasto in servizio mediante l'assegnazione a mansioni inferiori, solo ove tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari a quelle proprie della posizione dei lavoratori così assegnati, dovendosi ritenere, diversamente, che la condotta del datore di lavoro sia lesiva dell'interesse collettivo del sindacato per aver fatto ricadere sui lavoratori non scioperanti le conseguenze negative dello sciopero attraverso la violazione dell'art. 2103 c.c.

Nota

La fattispecie oggetto della sentenza in commento attiene alla valutazione della antisindacalità o meno del comportamento tenuto da un datore di lavoro, il quale, in occasione di due episodi di sciopero, aveva sostituito i lavoratori scioperanti con altri non scioperanti, anche di qualifica superiore.

In relazione all'anzidetta condotta, il giudice del merito accertava, sia in primo che in secondo grado, la sussistenza di un comportamento antisindacale del datore di lavoro.

In particolare, la Corte d'Appello adita fondava il proprio convincimento circa l'antisindacalità della condotta datoriale sul fatto che era stato accertato nel caso di specie che la sostituzione di lavoratori scioperanti era avvenuta con 10/15 lavoratori aventi qualifica di capo reparto o caposettore e che in tale occasione gli stessi avevano svolto mansioni inferiori a quelle proprie del livello rivestito, in violazione dell'art. 2103 c.c.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, conferma la decisione del giudice del merito, affermando in particolare che nel caso di proclamazione di uno sciopero da parte delle organizzazioni sindacali di categoria, può escludersi il carattere antisindacale della condotta del datore di lavoro che, nell'intento di limitarne le conseguenze dannose e quindi nell'esercizio delle prerogative imprenditoriali garantite dall'art. 41 Cost., disponga l'utilizzazione del personale rimasto in servizio mediante l'assegnazione a mansioni inferiori, solo ove tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari a quelle proprie della posizione dei lavoratori così assegnati, dovendosi ritenere, diversamente, che la condotta del datore di lavoro sia lesiva dell'interesse collettivo del sindacato per aver fatto ricadere sui lavoratori non scioperanti le conseguenze negative dello sciopero attraverso il compimento di atti illegittimi perché posti in essere in violazione dell'art. 2103 c.c. (v. Cass. n. 14157 del 2012, Cass. 26 settembre 2007, n. 20164, Cass. 16 dicembre 2009 n. 26368 e Cass. 19 luglio 2011, n. 15782, Cass. n. 2045 del 1998). Nel caso di specie era stato accertato nel corso del giudizio di merito che ai lavoratori non scioperanti erano state assegnate mansioni inferiori a quelle del livello rivestito, e che, contrariamente a quanto sostenuto dal datore di lavoro, tale personale non era stato impiegato in compiti di vigilanza e sicurezza, ma nelle normali operazioni di pertinenza del personale scioperante, in violazione dell'art. 2103 c.c., a nulla rilevando, secondo la Suprema Corte, che le mansioni (inferiori) assegnate ai predetti lavoratori fossero compatibili con la professionalità dagli stessi acquisita nello svolgimento della fase pregressa del loro rapporto di lavoro.

L'art. 2103 c.c. assicura, infatti, il mantenimento del livello di professionalità acquisito, che può essere progredito nel tempo dalle competenze iniziali ad altre più sofisticate, tanto da far conseguire al lavoratore un inquadramento più elevato; il fatto che nel caso di specie le mansioni assegnate al personale non aderente allo sciopero per sostituire i lavoratori scioperanti fossero compatibili con la loro professionalità pregressa non è di per sè sufficiente ad escludere la violazione dell'art. 2103 c.c., poichè le mansioni assegnate ai sostituti (peraltro tutt'altro che eccezionali e marginali) erano comunque di livello inferiore rispetto a quelle dagli stessi normalmente svolte. Da quanto precede discende, dunque, l'antisindacalità della condotta datoriale, posto che la sostituzione dei lavoratori scioperanti ha determinato nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, una illegittima (in quanto non giustificabile) violazione del divieto di adibizione a mansioni inferiori del personale non scioperante, a cui era stato assegnato il compito di sostituire i lavoratori che avevano invece aderito allo sciopero.

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