Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento per giusta causa e motivazione del provvedimento in fattispecie analoghe

Licenziamento collettivo, criteri di scelta e comunicazione ex art. 4, c. 9, legge 223/91

Mancato rispetto delle intese negoziali e condotta antisindacale

Nozione di dirigente

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2015, n. 14311

Pres. Vidiri; Rel. Doronzoa; P.M. Carmelo; Ric. M.Z.; Controric. T.V. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Specificità della contestazione disciplinare - Incidenza dell'addebito sulla permanenza della fiducia - Criteri di valutazione - Riferimento alla coscienza sociale - Rilevanza

Per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

L'attività d’integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito - ai fini dell’individuazione della giusta causa di licenziamento - mediante riferimento alla "coscienza generale", è sindacabile in Cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza di tale giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

Nota

Un lavoratore addetto al trasporto disabili, veniva licenziato per giusta causa, per aver mostrato ad un minorenne disabile un video dal contenuto pornografico, durante lo svolgimento della sua mansione lavorativa. La Corte d’Appello di Venezia, confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso del dipendente volto ad accertare l’illegittimità del licenziamento. In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto sufficientemente specifica la contestazione disciplinare e che l’addebito fosse di gravità tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, in ragione dell’età e della disabilità del ragazzo nonché del carattere non privato dell’accaduto. Infatti, il minorenne aveva riferito l’episodio ad altri operatori e ai propri genitori che avevano immediatamente chiesto spiegazioni al comune, committente del servizio di trasporto disabili.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il lavoratore; la società resisteva con controricorso.

Il ricorrente lamentava falsa applicazione dell’art. 7 Statuto dei Lavoratori, ritenendo che la contestazione disciplinare fosse generica e che quindi violasse il proprio diritto di difesa.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha richiamato il principio (già espresso da Cass. 5 gennaio 2015, n. 13; Cass. 15 maggio 2014, n. 10662; Cass. 3 marzo 2010, n. 5115; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27842; Cass. l0 giugno 2004, n. 11045; sull’irrilevanza dell’indicazione del giorno e dell’ora v. Cass. 7 agosto 2003, n. 11933) secondo cui la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'esercizio del proprio diritto di difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità. La contestazione può ritenersi specifica quando individua, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati. La Corte di Cassazione, nel caso di specie, ha ritenuto sufficientemente specifica la contestazione disciplinare, in quanto indicante l’addebito nei suoi elementi qualificanti, costituiti dal fatto materiale ("ha utilizzato il video cellulare di sua proprietà per far visionare agli utenti minori presenti in quel momento sul mezzo di trasporto video e/o foto pornografici"), dal tempo ("nel corso delle settimane comprese tra (...) e il (...)") e dalle circostanze di luogo ("nello svolgimento della sua attività lavorativa"). Con altro motivo di ricorso, il lavoratore lamentava falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., in quanto il giudice di merito, nella valutazione della gravità dell’addebito, non avrebbe tenuto conto dell’intervenuto mutamento dei costumi e della morale sociale che, secondo il ricorrente, avrebbe reso la collettività più tollerante verso informazioni anche di contenuto volgare trasmesse via internet.

Sul punto, in primo luogo, è stato ribadito che ai fini del licenziamento per giusta causa è necessario verificare da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. In secondo luogo, la Suprema Corte ha ricordato che la nozione di giusta causa, rientrante tra le c.d. norme elastiche, consiste in un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione anche dei fattori esterni, relativi ai costumi e alla coscienza generale. Tale specificazione del parametro normativo ha natura giuridica, con la conseguenza che la relativa disapplicazione può essere censurata in sede di legittimità come violazione di legge. A tal fine è però necessario che il ricorrente lamenti in modo specifico la non coerenza del giudizio operato con riferimento alla "coscienza generale", rispetto ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.

La Suprema Corte ha quindi affermato che, nel caso di specie, la gravità della condotta contestata al lavoratore è stata correttamente correlata al contenuto osceno del video e alle condizioni soggettive della persona a cui lo stesso era stato mostrato. Correlazione che rende tale condotta certamente riprovevole secondo il costume e la coscienza sociali.




Licenziamento per giusta causa e motivazione del provvedimento in fattispecie analoghe

Cass. Sez. Lav. 8 luglio 2015, n. 14251

Pres. Stile; Rel. De Marinis; P.M. Matera; Ric. V. S.p.A. Controric. R.R.S + I.N.A.I.L

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Gravità dell'inadempimento - Valutazione - Rapporto con la diversa valutazione di analogo inadempimento di un diverso dipendente - Rilevanza - Esclusione

Ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l'inadempimento del lavoratore è tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; solo l’identità delle situazioni, valorizzata dal giudice per verificare la proporzionalità della sanzione adottata, potrebbe, infatti, privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata con quelle assunte in fattispecie analoghe.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha cassato la decisione della Corte d’Appello di Caltanissetta che, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Gela, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per aver contravvenuto al divieto di introduzione ed assunzione di bevande alcoliche sul luogo di lavoro, con pregiudizio per la sicurezza degli impianti.

In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto che l’irrogazione della sanzione espulsiva non fosse adeguatamente giustificata poiché era stata immotivatamente applicata al solo lavoratore, mentre il capo della squadra nella quale egli era inserito - che aveva autorizzato tale condotta - era stato sanzionato con la sola sospensione dal servizio.

La società ha presentato ricorso per cassazione con diversi motivi, sostanzialmente tutti volti a censurare la non conformità a diritto e l’incongruità logica della pronunzia di secondo grado. La Corte territoriale, infatti, pur avendo accertato l’idoneità della condotta oggetto di contestazione disciplinare ad integrare gli estremi della giusta causa e quindi a giustificare la massima sanzione del licenziamento senza preavviso, aveva in concreto ritenuto il licenziamento ingiustificato solo per la disparità di trattamento applicata dal datore di lavoro.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, ai fini della sussistenza della giusta causa, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; solo l’identità delle situazioni, valorizzata dal giudice per verificare la proporzionalità della sanzione adottata, potrebbe, infatti, privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata con quelle assunte in fattispecie analoghe (cfr. da ultimo, Cass. 7.5.2013, n. 10550 e Cass. 8.3.2010, n. 5546).

Ebbene, nel caso di specie, la riscontrata identità della situazione che vedeva coinvolto il lavoratore ed il suo capo squadra non è stata valorizzata dalla Corte di merito nell’ambito del giudizio di proporzionalità della sanzione, poiché, al contrario, la Corte ne ha desunto una mera valutazione di inadeguatezza della sanzione intimata al lavoratore, pur avendo già ritenuto sussistente la giusta causa di recesso. Per tale motivo, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo.




Licenziamento collettivo, criteri di scelta e comunicazione ex art. 4, c. 9, legge 223/91

Cass. Sez. Lav. 7 luglio 2015, n. 14090

Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. B.I.I.S. s.p.a.; Controric. M.P.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione ex art. 4 comma 9 L. 223/91 - Criteri di scelta - Possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione - Caratteristiche - Natura oggettiva - Necessità di comparazione con altri lavoratori - Esclusione

Nell’ambito della procedura di mobilità la comunicazione ex art. 4, comma 9, indicante specificamente il criterio di scelta, individuato peraltro in sede di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, ha natura oggettiva, rendendo superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso.

Nota

La Corte d’Appello di Roma ha dichiarato l’illegittimità di un licenziamento collettivo ritenendo violato l’art. 4 L.223/91 in ragione del fatto che, nella comunicazione di cui al comma 9, era stato indicato solo il criterio di scelta della pensionabilità e l’elenco dei lavoratori licenziati senza alcun riferimento agli altri lavoratori.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola, in particolare, laddove, discostandosi dal prevalente orientamento di legittimità, ha ritenuto necessaria la comparazione dei lavoratori individuati col criterio di scelta della pensionabilità con tutti gli altri dipendenti.

La Suprema Corte accoglie il motivo di ricorso affermando il principio di cui alla massima, già esternato in precedenti resi in fattispecie analoghe (Cass. 21 novembre 2012, n. 20493). La Cassazione richiama anche altre pronunzie in cui ha ritenuto non corretta la decisione di merito - dichiarativa dell’illegittimità della procedura in virtù della mancata indicazione nella comunicazione di tutti i lavoratori - avendo la Corte territoriale trascurato che il criterio di scelta della pensionabilità, individuato in sede di accordo sindacale e riportato nella medesima comunicazione, essendo oggettivo, rende superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito (Cass. 6 giugno 2011 n. 12196). La Cassazione precisa che la specificità dell'indicazione delle modalità di applicazione del criterio di scelta adottato è funzionale a garantire al lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo la piena consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su di lui, in modo da consentirgli una puntuale contestazione, pertanto il parametro per valutare la conformità della comunicazione all'art. 4, comma 9, deve essere individuato nella sua idoneità a garantire, in concreto, al lavoratore tale consapevolezza. Richiamando precedenti specifici (Cass. 9 agosto 2004, n. 15377; Cass. 6 giugno 2011, n.12196) si afferma che, in base al disposto dell’art. 4, comma 9, L. 223/91, anche quando il criterio prescelto è unico, il datore di lavoro deve specificare nella comunicazione le sue modalità applicative, in modo che la stessa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario del collocamento in mobilità, così da potere eventualmente contestare l'illegittimità della misura espulsiva, dimostrando che, in base al criterio, la scelta sarebbe dovuta ricadere su altri lavoratori. Applicando i principi citati la Suprema Corte ritiene non corretta la sentenza della Corte territoriale che, trascurando il carattere oggettivo del criterio della prossimità al pensionamento individuato in sede di accordo sindacale, ha ritenuto inidonea la comunicazione ex art. 4 comma 9 sul presupposto che conteneva solo l’elenco dei lavoratori licenziati, senza valutare la valenza oggettivamente esaustiva del criterio di scelta adottato, che rendeva superflua ogni comparazione.

Viene, pertanto accolto il ricorso principale e la sentenza viene cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.




Mancato rispetto delle intese negoziali e condotta antisindacale

Cass. Sez. Lav. 07 luglio 2015, n. 14105

Pres. Stile; Rel. De Marinis; P.M. Celeste; Ric. S.C.; Controric. F.P.T. S.p.A.;

Condotta antisindacale - Mancato rispetto delle intese negoziali - Antisindacalità - Impedimento all’esercizio delle prerogative sindacali - Necessità

Non ogni comportamento datoriale antagonista al sindacato può qualificarsi giuridicamente antisindacale, dovendo così configurarsi solo quelle condotte che oggettivamente si pongano come impeditive del corretto esplicarsi del conflitto collettivo alla cui garanzia la norma è orientata. Nel caso del mancato rispetto da parte del datore delle intese negoziali a contenuto normativo raggiunte con le organizzazioni sindacali la configurabilità di una condotta antisindacale implica che la condotta assuma carattere sistematico, così da tradursi in un attentato all’ordine contrattuale ed alla stessa posizione del sindacato.

Nota

La Corte di appello di Milano, in integrale riforma della sentenza resa dal Tribunale di Milano, revocava il decreto ex art. 28 l. n. 300/1970 ottenuto dal sindacato S.C. nei confronti della F.P.T. S.p.A. e rigettava le domande avanzate dal sindacato medesimo. In particolare, la Corte territoriale riteneva insussistenti e comunque inconfigurabili, in termini di antisindacalità, i dedotti comportamenti relativi, da un lato, alla violazione dell’accordo concluso in data 27.9.2006 dalla società F.P.T. con l’organizzazione sindacale ricorrente recante l’impegno, di durata annuale, della società ad una gestione degli esuberi con strumenti alternativi al licenziamento collettivo; e dall’altro, all’omesso invio, anche nei confronti del sindacato medesimo, della comunicazione di chiusura di detta procedura di cui all’art. 4, comma 9, l. n. 223/1991, recante la specificazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori licenziandi. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il sindacato sulla base di tre motivi. Nello specifico il sindacato deduceva, in primo luogo, l’erroneità della lettura dell’accordo collettivo operata dalla Corte territoriale nel senso di escludere la ricorrenza del dedotto obbligo - ad una gestione degli esuberi con strumenti alternativi al licenziamento collettivo - e della sua violazione, nonché denunciava l’incidenza dell’erronea interpretazione dell’accordo, cui era pervenuta la Corte di appello, sulla ritenuta non ravvisabilità nella specie della condotta antisindacale della società datrice. Inoltre, il sindacato confutava la medesima conclusione, tesa ad escludere l’antisindacalità della condotta datoriale, raggiunta dalla Corte territoriale anche con riguardo all’omesso invio della comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223/1991, rilevando, peraltro, l’erroneità della sentenza di appello nella parte in cui aveva dichiarato la legittimità della mancata comunicazione, per essere il licenziamento collettivo improntato, nella specie, all’unico criterio della prossimità al pensionamento. La Suprema Corte rigettava il ricorso. Innanzitutto, la Suprema Corte evidenziava che, alla luce del corretto indirizzo ermeneutico sotteso alla pronunzia della Corte territoriale, non ogni comportamento datoriale antagonista al sindacato può qualificarsi giuridicamente antisindacale, dovendo così configurarsi solo quelle condotte che oggettivamente si pongano come impeditive del corretto esplicarsi del conflitto collettivo alla cui garanzia è orientata la norma. Con specifico riferimento al mancato rispetto delle intese negoziali a contenuto normativo raggiunte con le organizzazioni sindacali, la Suprema Corte ha chiarito che la configurabilità di una condotta antisindacale implica che la condotta assuma carattere sistematico, così da tradursi in un attentato all’ordine contrattuale ed alla stessa posizione del sindacato. Applicando tali principi al caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata dovesse considerarsi congruamente argomentata, sia sotto il profilo logico che giuridico, nella parte in cui aveva escluso che l’apertura di una procedura di mobilità, in un contesto in cui pacificamente l’attività produttiva era cessata, costituendo l’esercizio di un diritto del datore di lavoro, potesse essere qualificata in termini di antisindacalità, in assenza di allegazioni precise da parte del sindacato di comportamenti discriminatori o di profili di violazione di principi generali di correttezza e buona fede nel comportamento datoriale. Ciò a prescindere dalla stessa qualificazione in termini di inadempimento dell’inottemperanza all’intesa del 27.09.2006 e della mancata comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223/1991.




Nozione di dirigente

Cass. Sez. Lav. 7 luglio 2015 n. 14023

Pres. Roselli; Rel. Ghinoy; Ric. M.E. e M.P.; Controric. Z. 7 I. A. S.r.l. in liquidazione;

Lavoro - Lavoro subordinato - Lavoro Autonomo - Distinzione - Dirigente "alter ego" dell'imprenditore - Subordinazione "attenuata" - Accertamento - Criteri

Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un "alter ego" dell'imprenditore (preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario - ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente - verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro (e, in particolare, dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso), nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.

Nota

In primo grado i ricorrenti richiedevano la condanna della Società convenuta al pagamento di quanto loro spettante in conseguenza della prestazione, che qualificavano di lavoro subordinato con mansioni rispettivamente di direttore commerciale e di direttore della produzione, svolta in favore della stessa sino al novembre 2000.

Gli stessi avevano rivestito la qualifica di soci della Società e, uno dei due, era anche stato amministratore della stessa sino al 1995.

Il Tribunale adito rigettava la domanda dei ricorrenti ritenendo non provata la natura subordinata della prestazione resa. Successivamente, a seguito dell’impugnazione da parte dei ricorrenti, la Corte d’Appello confermava la sentenza del giudice di prime cure.

Contro la decisione della Corte d’Appello i ricorrenti proponevano ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. In particolare, sostenevano che la Corte avesse ritenuto non raggiunta la prova circa la natura subordinata del rapporto sulla base dell’erroneo presupposto che i testi intervenuti si sarebbero limitati a confermare genericamente i capi articolati in ricorso, senza chiarire a che titolo fossero a conoscenza delle circostanze ivi indicate. Ritenevano che il richiamo generico ai capitoli di prova fosse frutto della procedura di verbalizzazione e che il contenuto degli stessi fosse tale da dimostrare la loro osservanza di un orario di lavoro, l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il coordinamento con l’attività dell’imprenditore, l’assenza di rischio e la forma della retribuzione. Tali elementi, sempre secondo i ricorrenti, erano sufficienti a dimostrare la natura subordinata della prestazione svolta. La Suprema Corte ha ritenuto non fondato il motivo di impugnazione. La Cassazione, infatti, ha ribadito un principio ormai consolidato in tema di qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, secondo il quale è necessario, a tal fine, verificare, ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato, se il lavoro dallo stesso svolto possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro.

Partendo da tale principio, la Corte territoriale aveva ritenuto non provati gli elementi di cui sopra, fondamentali per la configurazione della subordinazione, ma aveva rinvenuto nel ricorso esclusivamente la valorizzazione di elementi che la giurisprudenza indica come sussidiari.

Conseguentemente la Cassazione ha ritenuto non sussistente alcun vizio di motivazione o violazione di legge ed ha rigettato il ricorso.

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