Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Esperibilità dell'azione di regresso da parte dell'Inail

Indennità per ferie maturate e non godute e contribuzione

Risoluzione per mutuo consenso

Collegamento economico-funzionale tra le società e unico centro d'imputazione dei rapporti di lavoro

Impugnazione di licenziamento e decorrenza del termine decadenziale

Esperibilità dell'azione di regresso da parte dell'Inail

Cass., sez. lav., 30 marzo 2015, n. 6359

Pres. Lamorgese; Rel. Bandini; P.M. Ghersi; Ric. G.S.; Controric. Inail

Infortunio sul lavoro - Sentenza penale definitiva di condanna dell'autore del comportamento illegittimo da cui è derivato l'infortunio - Fattispecie - Azione di regresso dell'INAIL nei confronti della persona fisica giudicata responsabile dell'infortunio - Ammissibilità

E' ammissibile l'azione di regresso esperita dall'INAIL nei confronti dell'autore materiale del comportamento illegittimo da cui è derivato l'infortunio, giudicato responsabile o corresponsabile dell'infortunio con sentenza penale definitiva di condanna (nella specie la persona fisica che rivestiva il ruolo di responsabile del servizio di sicurezza e prevenzione all'interno della società datrice di lavoro è stata ritenuta corresponsabile con il datore di lavoro dell'infortunio occorso ad un lavoratore e, conseguentemente, passibile di azione di regresso da parte dell'INAIL, in ragione del ruolo ricoperto, posto che l'infortunio si era verificato in conseguenza di una violazione degli obblighi imposti dalla normativa sulla sicurezza sul lavoro).

Nota

Il caso di specie attiene ad un'azione di regresso esperita dall'INAIL per le somme erogate in ragione di un infortunio occorso ad un lavoratore, azione che l'INAIL aveva avviato non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso la persona fisica ritenuta materialmente responsabile del comportamento illegittimo da cui si era originato l'infortunio, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna che aveva accertato la responsabilità personale del predetto soggetto.

La Corte territoriale adita, in parziale riforma della decisione del giudice di prime cure che aveva riconosciuto la responsabilità del solo datore di lavoro l'unico, dunque, ad essere condannato nei confronti dell'INAIL aveva ritenuto responsabile in via solidale con il datore di lavoro anche l'autore materiale del fatto illegittimo da cui era derivato l'infortunio (ossia l'omessa predisposizione delle necessarie misure di prevenzione), posto che, come era stato accertato dal giudice penale, tale soggetto, in qualità di responsabile del servizio di sicurezza e prevenzione, era personalmente venuto meno agli obblighi impostigli dalla normativa sulla sicurezza sul lavoro.

Conseguentemente, il giudice di secondo grado aveva ritenuto fondata l'azione di regresso esperita dall'INAIL non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso chi si era reso materialmente autore del comportamento illecito da cui era derivato l'infortunio.

Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione afferma che nel caso di specie la responsabilità della persona fisica preposta al servizio di sicurezza e prevenzione all'interno della società datrice di lavoro era stata correttamente riconosciuta dalla Corte territoriale adita, non già, come sostenuto da tale soggetto, per effetto della sua qualifica di legale rappresentante della società datrice di lavoro, ma per essergli stato direttamente ricondotto il comportamento illecito da cui era derivato l'infortunio, in ragione del ruolo di responsabile del servizio di sicurezza e prevenzione da egli rivestito all'interno della società datrice di lavoro; infatti, l'infortunio de quo si era verificato in conseguenza di una violazione degli obblighi imposti dalla normativa sulla sicurezza sul lavoro ed era stato il predetto soggetto a predisporre il piano di sicurezza rivelatosi poi inidoneo, con accertamento della sua responsabilità personale per mezzo di sentenza penale di condanna passata in giudicato.

Secondo la Suprema Corte, l'azione esercitata dall'INAIL nei confronti delle persone civilmente responsabili per la rivalsa delle prestazioni erogate all'infortunato configura la speciale azione di regresso spettante (iure proprio) all'INAIL ai sensi degli artt. 10 e 11 del DPR 30 giugno 1965, n. 1124, allorché venga accertata la sussistenza di una responsabilità penale nei confronti del datore di lavoro o dei suoi preposti alla direzione dell'azienda o alla sorveglianza dell'attività lavorativa (Cass. S.U. n. 3288/1997).

Tale azione è esperibile non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso i soggetti responsabili o corresponsabili dell'infortunio a causa della condotta da essi tenuta in attuazione dei loro compiti di preposizione o di meri addetti all'attività lavorativa, giacché essi, pur essendo estranei al rapporto assicurativo, rappresentano organi o strumenti mediante i quali il datore di lavoro ha violato l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro, senza che a ciò sia di ostacolo la possibile affermazione della loro responsabilità solidale, atteso che l'art. 2055 c.c. consente la diversità dei rispettivi titoli di responsabilità (contrattuale per il datore di lavoro ed extracontrattuale per gli altri).




Indennità per ferie maturate e non godute e contribuzione

Cass., sez. lav., 26 marzo 2015, n. 6189

 

Pres. Curzio; Rel. Marotta; Ric. M.I.C.A.C. S.p.A.; Controric. I.N.P.S.

Indennità sostitutiva delle ferie non godute - Carattere retributivo - Assoggettabilità a contribuzione - Sussistenza

L'indennità per ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma dell'art. 12 della legge n. 153/69, poiché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode delle garanzie previste dall'art. 2126 c.c. in favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore.

Un eventuale concorrente profilo risarcitorio di detta indennità non ne escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata nell'art. 12 della legge n. 153/69, costituendo, comunque, un'attribuzione patrimoniale riconosciuta in favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro, e non essendo ricompresa nell'elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla retribuzione.

Nota

La Corte di appello di Bari, confermando la sentenza del precedente grado, rigettava l'opposizione proposta dalla società ricorrente avverso il decreto ingiuntivo emesso in data 23/4/1999 con il quale era stato intimato alla medesima società il pagamento di importi dovuti a titolo di contributi e somme aggiuntive in relazione a somme corrisposte ai propri dipendenti a titolo di indennità sostitutiva di ferie non godute e permessi individuali retribuiti per gli anni 1993 e 1994.

La Corte territoriale perveniva a tale conclusione richiamando la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo cui la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura retributiva e, comunque, un suo eventuale concorrente profilo risarcitorio non ne escluderebbe l'assoggettabilità a contribuzione. Quanto ai permessi individuali retribuiti la Corte territoriale richiamava la costante giurisprudenza di legittimità che aveva affermato la sussistenza di un corrispondente obbligo contributivo anche con riferimento a detti permessi.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società sulla base di sei motivi.

In particolare la società eccepiva la violazione dell'art. 12 della legge n. 153/69, nonché vizio di motivazione con riferimento all'asserita omessa valutazione, da parte della Corte territoriale, delle conseguenze derivanti dall'introduzione dell'art. 10, Dlgs n. 66/03, deducendo, per un verso, la natura risarcitoria dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute e, pertanto, la conseguente esclusione di detta indennità dalla base contributiva e, per altro verso, l'insussistenza nella specie del requisito della "dipendenza" dal rapporto di lavoro, richiesto dalla legge, dovendo ritenersi che le somme spettanti in conseguenza di inadempienze eventualmente compiute dal datore di lavoro, non traendo origine dal regolare svolgimento del rapporto, non potessero considerarsi rientranti nell'imponibile contributivo.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

In primo luogo, la Suprema Corte, richiamando il costante orientamento espresso in materia, ha ribadito che l'indennità sostitutiva per ferie non godute deve ritenersi assoggettabile a contribuzione previdenziale, a norma dell'art. 12 della legge n. 153/69, poiché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha altresì precisato che un eventuale concorrente profilo risarcitorio di detta indennità non ne escluderebbe, comunque, la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dall'art. 12 della legge n. 153/69, trattandosi, in ogni caso, di un'attribuzione patrimoniale riconosciuta in favore del lavoratore "in dipendenza del rapporto di lavoro", ed in relazione ad una prestazione lavorativa, non dovuta, ma comunque effettuata dal lavoratore, e non essendo ricompresa nell'elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla retribuzione (in tal senso cfr. Cass., 16 gennaio 2015, n. 660; Cass., 26 gennaio 2012, n. 1101; Cass., 26 gennaio 2012, n. 1102; Cass., 25 gennaio 2012, n. 1057; Cass., 10 maggio 2010, n. 11262; Cass., 4 settembre 2006, n. 19023; Cass., 5 settembre 2005, n. 17761; Cass., 3 aprile 2004, n. 6607; Cass., 13 maggio 1998, n. 4839).

La Cassazione ha, pertanto, dichiarato superato il diverso orientamento giurisprudenziale che, riconoscendo natura risarcitoria all'indennità sostitutiva delle ferie non godute, ne ha conseguentemente escluso l'assoggettabilità a contribuzione (in tal senso Cass., 2 agosto 2000, n. 10173).

Per le ragioni sin qui esposte la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.




Risoluzione per mutuo consenso

Cass., sez. lav., 18 marzo 2015, n. 5454

Pres. Curzio; Rel. Pagetta; Ric. S.L.; Controric. S.T.P.B. S.p.A.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto di lavoro alla scadenza del termine - Risoluzione per mutuo consenso - Configurabilità - Condizioni - Limiti

Per la configurabilità di una risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dalla conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa volontà comune delle parti medesime di porre fine ad ogni rapporto. La valutazione del significato e della portata di tali elementi di fatto compete al giudice del merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

Nota

Con la sentenza in sentenza la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d'Appello di Bari, che aveva ritenuto risolto per mutuo consenso il rapporto lavorativo intercorso, per effetto di reiterati contratti di somministrazione, tra il lavoratore e la società.

Secondo la Corte d'Appello, il notevole lasso di tempo trascorso fra la cessazione del rapporto di lavoro e la domanda del lavoratore (circa 6 anni) e lo svolgimento di altra attività lavorativa sarebbero state circostanze rivelatrici del disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per cassazione, criticando la sentenza impugnata per aver erroneamente ritenuto sussistente la sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro in considerazione di elementi non univoci, quali l'inerzia ed il reperimento di altra occupazione lavorativa.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto affermato che per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (cfr. da ultimo Cass. 5887/2011). E' quindi necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l'esercizio del diritto o dell'azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare una volontà chiara e certa delle parti di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (cfr. sul punto Cass. 15403/2000). Ebbene, nella fattispecie, la Corte d'Appello aveva considerato una serie di elementi non idonei ad essere configurati come espressione del disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro, non rilevando il mero decorso del tempo ed il reperimento di altra occupazione, che, rispondendo ad esigenze di sostentamento quotidiano, non indica la volontà del lavoratore di rinunciare ai propri diritti verso il precedente datore di lavoro (cfr. sul punto Cass. 21310/2014). Per tali motivi, la Corte ha cassato la sentenza impugnata.




L'esistenza di un collegamento economico-funzionale tra le società non è sufficiente al fine di ravvisare un unico centro d'imputazione dei rapporti di lavoro

Cass., sez. lav., 30 marzo 2015, n. 6366

Pres. Macioce; Rel. Patti; P.M. Celeste; Ric. G.M.; Intim. D.G. e altri

Gruppi di imprese - Centro unico di imputazione del rapporto di lavoro - Requisiti - Collegamento economico-societario - Insufficienza - Simulazione e/o preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico - Necessità

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge degli atti costitutivi delle società del gruppo mediante interposizioni fittizie, ovvero reali, ma fiduciarie, ovvero un'illecita interposizione di manodopera ai sensi dell'art. 1 L. 1369/60, con conseguente separazione tra datore di lavoro nominale ed effettivo destinatario della prestazione lavorativa.

Nota

La Corte d'Appello di Palermo ha respinto il ricorso avverso la sentenza del Tribunale di rigetto della richiesta di un lavoratore volta ad ottenere l'erogazione di emolumenti retributivi, previo accertamento dell'unicità del rapporto di lavoro fittiziamente frazionato tra varie imprese collegate, ma tutte controllate da un'unica persona fisica cui facevano capo. In particolare, in base all'esame della documentazione esibita e delle prove orali raccolte in primo grado, la Corte territoriale ha ritenuto non dimostrati i presupposti necessari per l'esistenza di un centro unico di imputazione in capo alla persona fisica indicata.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione articolato su sette motivi e le società già convenute nei precedenti gradi di merito sono rimaste intimate.

Con specifico riferimento alla problematica del centro unico di imputazione, il ricorrente ha, in particolare, lamentato che il Tribunale avesse erroneamente individuato il presupposto delle sue domande nel collegamento economico funzionale tra tutte le imprese riconducibili alla medesima persona fisica nella prospettiva del gruppo, anziché nell'imputabilità datoriale del rapporto di lavoro esclusivamente al predetto soggetto.

Nell'esaminare i motivi svolti sul punto la Suprema Corte ha affermato il principio di cui alla massima, aderendo ad un orientamento consolidato da oltre un decennio (Cass. 24 marzo 2003, n. 4274; Cass. 6 aprile 2004, n. 6707; Cass. 6 giugno 2014, n. 12817).

In altri precedenti in termini, parimenti richiamati in motivazione (Cass. 15 maggio 2006, n. 11107; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3482), la Cassazione andando ancora più a fondo, ha precisato che il centro unico di imputazione del rapporto di lavoro ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i soggetti del collegamento economico funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

Avendo la Cassazione ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente applicato i suesposti principi ha rigettato i motivi di ricorso svolti dal lavoratore sul punto.




Impugnazione di licenziamento e decorrenza del termine decadenziale

Cass., sez. lav., 20 marzo 2015, n. 5717

Pres. Roselli; Rel. Maisano; P.M. Matera; Ric. CdC VdO S.r.l.; Controric. A.C.

Lavoro subordinato - Licenziamento - Impugnazione del licenziamento -Termine di decadenza per deposito del ricorso giudiziale - Decorrenza dalla spedizione dell'impugnazione stragiudiziale

La lettera della disposizione di cui all'art. 6, L. 604/1966, modificata dall'art.32, comma 1, L. 183/2010, che commina l'inefficacia "dell'impugnazione" extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, dimostra come il termine di decadenza per il deposito del ricorso giudiziale decorra dalla spedizione della lettera di impugnazione stragiudiziale del licenziamento.

Nota

La Corte d'Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente, considerando tempestiva l'impugnazione del licenziamento dalla stessa proposta con ricorso giudiziale depositato entro il termine decadenziale di 270 giorni decorrente dalla scadenza del termine di 60 giorni per l'impugnazione stragiudiziale. La norma di cui all'art. 6 L. 604/1966, come modificato dall'art. 32, comma 1, L. 183/2010, prevede l'onere in capo al lavoratore licenziato di impugnare (stragiudizialmente) il recesso datoriale entro 60 giorni dalla relativa comunicazione nonché l'onere di depositare il ricorso nel successivo termine di 270 giorni (termine ridotto a 180 giorni, dall'art. 1, comma 38, L 92/2012, in vigore dal 18 luglio 2012). Ad avviso della Corte territoriale il termine di decadenza per il deposito del ricorso giudiziale decorreva dalla scadenza del termine di 60 giorni per l'impugnazione stragiudiziale, con la conseguenza di ritenere tempestivo il ricorso giudiziale depositato entro 330 giorni dall'intimazione del licenziamento.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il datore di lavoro, la lavoratrice resisteva con controricorso.

Con l'unico motivo di ricorso, la società lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 6 L. 604/1966 laddove il giudice di secondo grado aveva ritenuto che il termine di 270 giorni decorresse dalla scadenza del termine di 60 giorni, anziché dall'impugnazione stragiudiziale.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rigettando nel merito le domande della lavoratrice.

Prima che il secondo comma dell'art. 6 L. 604/1966 venisse riformato dall'art. 32 L. 183/2010, il lavoratore licenziato era onerato soltanto di impugnare il licenziamento nei 60 giorni successivi, potendo depositare il ricorso giudiziale nel rispetto del comune termine di prescrizione quinquiennale. Ciononostante, la durata del termine prescrizionale lasciava troppo a lungo il datore di lavoro in una situazione di incertezza, sottoposto al rischio dell'eventuale ordine di reintegrazione e di condanna al risarcimento del danno che aumentava al trascorrere del tempo.

Nel 2010, il legislatore è quindi intervenuto, prevedendo che "l'impugnazione (stragiudiziale) è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 270 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro". Ad avviso della Suprema Corte, la lettera della disposizione contenuta nell'art. 32, comma 1 cit., che commina l'inefficacia "dell'impugnazione" extragiudiziale non seguita dalla tempestiva azione giudiziale, dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo. Inoltre, la Corte di Cassazione ha confermato che l'esigenza di celerità sottesa alla riforma legislativa finalizzata a tutelare l'interesse del datore di lavoro in merito alla definitiva cessazione del rapporto lavorativa, comporta che il termine di decadenza per il deposito del ricorso giudiziale debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell'atto di impugnazione stragiudiziale.

Infine, la Corte ha precisato che (come già chiarito da Cass. Sez. Un. 14 aprile 2010, n. 8830) è sufficiente che la lettera di impugnazione sia consegnata all'ufficio postale, che ne cura la spedizione, entro il termine di 60 giorni dalla ricevimento della lettera di licenziamento.

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