Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortuni sul lavoro e malattia professionale

I requisiti della comunicazione di trasferimento

Sul licenziamento disciplinare del dirigente apicale

Sull'immediatezza della contestazione nel licenziamento disciplinare

Esposizione ad amianto e valore probatorio delle certificazioni INAILl

Infortuni sul lavoro e malattia professionale

Cass. Sez. Lav. 12 marzo 2015, n. 4992

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. L.R.D.V. S.r.l.; Contr. M.P.P.;

Infortuni sul lavoro e malattie professionali - In genere - Nesso di causalità fra attività lavorativa ed evento - Criterio della equivalenza delle cause – Applicabilità

In materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.

Nota

Il caso in esame trae origine da una sentenza della Corte d'Appello di Cagliari che, confermando la decisione di primo grado, aveva accertato la responsabilità di un datore di lavoro nei confronti di una propria dipendente per violazione dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ. La corte territoriale, in particolare, aveva rilevato la progressiva emarginazione della lavoratrice dal ruolo lavorativo ricoperto, la privazione di mansioni e di strumenti di lavoro e la perdita di credibilità della stessa (quali conseguenze dei contrasti con la titolare della azienda e anche della deposizione resa dalla lavoratrice in controversie di altro dipendente licenziato), nonché un uso strumentale e persecutorio del potere disciplinare datoriale; la sentenza aveva accertato, altresì, che dalla detta condotta datoriale era derivato uno stato di malattia della lavoratrice.

Avverso tale pronuncia la società datrice di lavoro proponeva quindi ricorso per Cassazione deducendo vizio di motivazione per mancata valutazione nell'eziologia del danno di fattori causali concomitanti extra lavorativi.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso affermando che l'esistenza di fattori concausali extra lavorativi non rilevano per escludere il valore causale accertato dei fatti lavorativi, atteso che è del tutto consolidato il principio (affermato da ultimo da Cass. n. 23990 del 11 novembre 2014 e da Cass. n. 13954 del 19 giugno 2014) secondo il quale, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.




I requisiti della comunicazione di trasferimento

Cass. Sez. Lav. 18 marzo 2015, n. 5434

Rel. Pres. Macioce; Ric. R.M.; Controric. B.A.P.V. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Trasferimenti in genere - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Motivi del trasferimento - Comunicazione del trasferimento - Contenuto minimo - Integrazione successiva – Ammissibilità

Sul datore di lavoro incombe la prova delle ragioni del trasferimento, le quali, però, non è necessario che siano inserite nell'atto che lo ha disposto dato che esse, di contro, ben possono essere enunziate in sintesi e successivamente integrate.
Non esistono regole su di una particolare "ritualità" della comunicazione dello jus variandi territoriale, da ritenersi efficace a patto che sia ben chiara la scelta di esercitarlo, con la indicazione di sede nuova, delle espletande mansioni e della decorrenza.

Nota

La sentenza in esame prende spunto dal caso di un dipendente di banca che aveva prestato servizio presso l'agenzia di Trapani e dal mese di febbraio 1999 era stato assegnato all'ufficio legale e contenzioso di Marsala, percependo, sino al marzo 2000, l'indennità di missione. Con nota del 20 novembre 2000 il datore di lavoro comunicava, inoltre, al dipendente che l'assegnazione a Marsala doveva considerarsi "definitiva". Il dipendente contestava giudizialmente la legittimità del trasferimento e, in subordine, chiedeva l'erogazione della indennità dal marzo 2000. Il Tribunale del Lavoro, con sentenza del 2003, riconosceva solo il diritto del dipendente a percepire l'indennità di trasferta sino al 20 dicembre 2010 (data di maturazione del preavviso contrattuale del trasferimento a Marsala). La sentenza di primo grado veniva impugnata sia dal dipendente sia dalla società datrice di lavoro e la Corte di Appello di Palermo con sentenza del 2007, rigettato il gravame del dipendente, accoglieva quello della società nella sola parte afferente il quantum della indennità.

In motivazione, e per quel che rileva, la Corte di Palermo osservava che la suddetta nota del 20 novembre 2000 aveva mutato la sede di servizio, trasformando la prima assegnazione in missione in trasferimento all' ufficio di Marsala e che, alla base di tale trasferimento, erano state comprovate ragioni tecnico organizzative.

Il dipendente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, in particolare, violazione dell'art. 2103 c.c. e del CCNL per non avere la sentenza della Corte Territoriale rilevato come il trasferimento avrebbe dovuto recare motivazione diretta ed espressa della volontà di trasferire lo stesso, e delle sue ragioni, senza far capo ad atti anteriori "per relationem". Con ulteriore motivo il dipendente lamentava la violazione dell'art. 112 c.p.c., per non aver rilevato come non sarebbe stato possibile attribuire d'ufficio all'atto del 20 novembre 2000 una volontà di trasferire, volontà che dalla lettera e dalla ratio dell'atto non emergeva affatto.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del dipendente, osservando che, pur incombendo sul datore di lavoro la prova delle ragioni del trasferimento, non è necessario che le stesse siano inserite nell'atto che lo ha disposto dato che esse, di contro, ben possono essere enunziate in sintesi e successivamente integrate (Cass. 19095 del 2013 e Cass. 11984 del 2010).

Non vi era, dunque, a parere della Corte, onere di indicare le ragioni del trasferimento nella suddetta lettera. Quanto alla interpretazione del testo come recante una chiara intenzione di operare il mutamento di sede del destinatario, tale nota, secondo la Corte, è stata correttamente, e logicamente, interpretata come espressiva della volontà di assegnare la sede in via definitiva, legittimamente facendo capo alla assegnazione in trasferta pregressa che veniva trasformata ex nunc. La Corte ha ritenuto, quindi, chiarissima la opzione interpretativa della Corte di merito, per la quale la lettera de qua nello statuire che la pregressa assegnazione di sede dovesse, da temporanea, ritenersi ex nunc "definitiva", era da considerarsi vera e propria comunicazione di trasferimento.

E' poi altrettanto chiaro, secondo la Corte di Cassazione, che non esistevano nè esistono regole su di una particolare "ritualità" della comunicazione dello jus variandi territoriale, da ritenersi efficace a patto che - come congruamente argomentato nella specie - sia ben chiara la scelta di esercitarlo, con la indicazione di sede nuova, delle espletande mansioni e della decorrenza.




Sul licenziamento disciplinare del dirigente apicale

Cass. Sez. Lav. 16 marzo 2015, n. 5175

Pres. Stile; Rel. Nobile; Ric. E.S.; Controric. C.A.P. S.c.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Dirigente - Garanzie procedimentali previste dall'art. 7, commi 2 e 3, L. 20 maggio 1970, n. 300 - Operatività - Mancanza - Conseguenze - Applicabilità degli effetti fissati dalla contrattazione collettiva per il licenziamento ingiustificato.

Le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, commi 2 e 3, L. 20 maggio 1970, n. 300 devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente - a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa - sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, anche logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento dell'insussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso.

Nota

La sentenza in commento affronta la questione dell'applicabilità al licenziamento disciplinare del dirigente apicale delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7, commi 2 e 3, L. 20 maggio 1970, n. 300.

Nella fattispecie, il lavoratore, "con qualifica di dirigente e mansione di direttore", era stato licenziato "in tronco", senza preventiva contestazione degli addebiti, per "un grave inadempimento nel rapporto di lavoro".

Il Giudice di primo grado - qualificato il recesso di natura disciplinare e ritenuta fondata l'eccezione di violazione dell'art. 7 cit. - aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento, condannando il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente.

La Corte di merito, in parziale riforma della sentenza di prime cure, pur ribadendo la violazione delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7 cit., osservava che tale vizio non poteva comportare la nullità del licenziamento, bensì unicamente l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva per il recesso privo di giustificazione (i.e. il "pagamento dell'indennità supplementare").

La Suprema Corte, richiamando il suo consolidato orientamento in merito (cfr. Cass. SS.UU. 30 marzo 2007, n. 7880), ha confermato le statuizioni della Corte d'appello, evidenziando che le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, commi 2 e 3, cit. devono trovare applicazione anche nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente - a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa - sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole), sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento dell'insussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso, dovendosi far riferimento, in mancanza di una specifica disciplina, ai criteri di cui all'art. 2099, comma 2, cod. civ.

Per contro - soggiunge la Cassazione - ove il lavoratore, seppure nominativamente qualificato come dirigente (e con attribuzione di un omologo trattamento), non rivesta nell'organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo ai dirigenti convenzionali e, dunque, sia qualificabile come pseudo-dirigente, all'omessa applicazione delle garanzie procedurali previste dall'art. 7 cit. devono seguire le conseguenze previste, secondo le norme ordinarie, per qualsiasi lavoratore subordinato non dirigente.




Sull'immediatezza della contestazione nel licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 18 marzo 2015, n. 5423

Pres. Roselli; Rel. Doronzo; P.M. Servello; Ric. L.B.; Controric. P.I. S.p.A.

Licenziamento disciplinare - Principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare - Carattere relativo - Valutazione delle circostanze del caso concreto – Necessità

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare prevista dall'art. 7, L. n. 300 del 1970 deve essere inteso in senso relativo, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati. Sicchè il requisito della immediatezza deve essere riferito non già al momento della scoperta del primo episodio, ma al momento in cui il protrarsi della inadempienza ha reso intollerabile la prosecuzione, anche temporanea, di un rapporto divenuto ormai privo di contenuto.

Nota

La sentenza in commento affronta il principio di immediatezza della contestazione nel licenziamento disciplinare. Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda, proposta da una lavoratrice, addetta al maneggio di denaro, avente ad oggetto l'accertamento e la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole per giusta causa, a seguito di appropriazione indebita di denaro posta in essere ai danni dell'azienda. La Corte territoriale, in accoglimento dell'appello proposto dalla società, riteneva tempestiva la contestazione disciplinare, atteso che, sebbene il primo episodio di irregolarità fosse noto ai diretti superiori gerarchici sin dal maggio 2004, solamente dall'indagine - svolta dalla struttura di tutela aziendale dall'ottobre al dicembre 2005, a seguito di una lettera anonima, e conclusasi con un rapporto ufficiale del febbraio 2006 - emergeva il perpetrarsi di una condotta illecita in cui si inseriva il primo episodio. Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi. In particolare, denunciava la violazione del principio di tempestività dell'esercizio del potere disciplinare, nonché l'omessa e insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, avendo ritenuto insussistenti le dedotte carenze motivazionali della sentenza gravata. A supporto del proprio decisum la Cassazione ha richiamato l'orientamento, ormai consolidato in sede di legittimità, secondo cui: a) la regola desumibile dall'art. 7 Stat. Lav., secondo cui l'addebito deve essere contestato immediatamente, va intesa in un'accezione relativa, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento dei fatti contestati (cfr. ex plurimis Cass. 19/06/2014, n. 13955; Cass. 17/09/2008, n. 23739); b) ai fini della sussistenza del requisito della immediatezza, rilevano non i singoli episodi ma la condotta complessiva, unitariamente considerata, sicchè l'immediatezza della contestazione deve essere riferita non già al momento della scoperta del primo episodio ma al momento in cui la società ha avuto contezza del perpetrarsi della condotta e della complessiva condotta fraudolenta posta in essere dal lavoratore (Cass. 12/10/1993, n. 10088). Nella prospettiva accolta dalla Suprema Corte, dunque, la fase di accertamento e valutazione del fatto concreto imputabile al lavoratore è compatibile con il decorso di un ragionevole periodo di tempo, soprattutto quando la fattispecie concreta è composta da una pluralità di atti e fatti, singolarmente insufficienti a determinare il corretto avvio del procedimento disciplinare. In buona sostanza, è la conoscenza completa del fatto e, dunque, la sicura acquisizione e comprensione del valore dell'illecito, che discrimina l'immediatezza della contestazione.

Ecco allora che, alla luce dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia della Corte territoriale la quale, valutando le circostanze del caso concreto, senza incorrere in alcuna incoerenza argomentativa e/o contraddizione nel percorso logico seguito, ha escluso la tardività della contestazione disciplinare sulla scorta delle seguenti circostanze: a) solo a seguito dell'indagine eseguita nell'ottobre 2005 e conclusasi con il rapporto finale del febbraio 2006, il datore di lavoro aveva avuto piena cognizione della complessiva e fraudolenta condotta della lavoratrice; b) la contestazione non aveva avuto ad oggetto il singolo episodio del 2004 e, neppure, i singoli episodi antecedenti (e solo successivamente scoperti), ma il comportamento complessivo della dipendente; c) la decisione della società di soprassedere sulla prima irregolarità commessa dalla lavoratrice - in quanto ritenuta non particolarmente grave e, comunque, risoltasi nella restituzione del maltolto e nell'accettazione di un trasferimento ad altro ufficio - non comporta la consumazione del potere disciplinare, ben potendo il datore di lavoro, a seguito di più approfonditi accertamenti, contestare il fatto diverso e più grave di una condotta fraudolenta protrattasi per un più rilevante periodo di tempo.




Esposizione ad amianto e valore probatorio delle certificazioni INAIL

Cass. Sez. Lav. 16 marzo 2015, n. 5174

Pres. Lamorgese; Rel. Tricomi; P.M. Matera; Ric. D. L.; Contr. C.P. s.r.l.;

Malattia professionale - Amianto - Risarcimento del danno biologico - Certificazione INAIL - Valore Probatorio - Elemento presuntivo

In merito alle certificazioni INAIL, occorre rilevare che il Ministero del lavoro, ha emesso degli atti di indirizzo con i quali ha dettato all'ente previdenziale le linee guida generali per formulare dei giudizi e definire le numerose domande dei lavoratori che si assumevano titolari del diritto alla maggiorazione contributiva per esposizione ad amianto. Con la conseguenza che un atto di indirizzo ministeriale contenente l'accertamento che presso un determinato impianto produttivo sia stata superata l'esposizione qualificata per gli operai addetti a determinate mansioni - atto che deve ritenersi redatto sulla base di adeguate conoscenze - integra un elemento presuntivo che concorre ad integrare la prova dell'esposizione all'amianto.

Malattia professionale - Nesso causale - Sussistenza di più condizioni - Applicazione art. 41 c.p. - Principio di equivalenza

In materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola dettata dall'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, il Tribunale di Ravenna aveva respinto la domanda del lavoratore tesa ad ottenere la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento del danno biologico e del danno morale patiti per la mancata adozione di idonei dispositivi di sicurezza nonché di adeguate misure di prevenzione contro l'esposizione alle polveri e fibre di amianto.

A fondamento della propria richiesta il ricorrente sosteneva di essere stato sottoposto ad intervento chirurgico per l'asportazione di un carcinoma e che l'INAIL aveva riconosciuto che il lavoratore aveva contratto malattia professionale a causa dell'esposizione all'amianto.

La corte di appello di Bologna, aveva confermato la decisione di primo grado, rilevando che la CTU medica aveva escluso una correlazione causale tra la malattia e l'esposizione all'amianto.

Avverso tale statuizione il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando innanzitutto la violazione di legge in quanto la corte di appello non aveva, a suo parere, considerato gli elementi di prova forniti dalle certificazioni INAIL che avevano accertato la sussistenza della malattia professionale.

La Suprema Corte respinge il motivo, affermando che, con riguardo alle certificazioni INAIL, la stessa Corte aveva già avuto modo di puntualizzarne la loro rilevanza al di fuori dello specifico contesto in cui sono emesse.

Invero, il Ministero del lavoro, ha emanato degli atti di indirizzo con i quali ha dettato all'ente previdenziale le linee guida generali per formulare dei giudizi e definire le numerose domande dei lavoratori che si assumevano titolari del diritto alla maggiorazione contributiva per esposizione ad amianto. Si è altresì ribadito che gli atti di indirizzo del Ministero del lavoro non possono essere utilizzati direttamente come prova dell'esposizione qualificata, esprimendo criteri di tipo generale e astratto forniti all'INAIL ai fini dell'accertamento in concreto della misura e della durata dell'esposizione, ma possono costituire elementi di valutazione nell'ambito della prova in giudizio dell'esposizione attraverso gli ordinari mezzi (Cass. 13 febbraio 2007, n. 3095).

Con la conseguenza che un atto di indirizzo ministeriale contenente l'accertamento che presso un determinato impianto produttivo sia stata superata l'esposizione qualificata per gli operai addetti a determinate mansioni - atto che deve ritenersi redatto sulla base di adeguate conoscenze - integra un elemento presuntivo che concorre ad integrare la prova dell'esposizione all'amianto.

Applicando tali princìpi al caso di specie, afferma la Corte che alle certificazioni in questione - l'una attinente alla contrazione della malattia professionale e l'altra relativa all'esposizione ad amianto - non può, quindi, attribuirsi la valenza dirimente invocata dal ricorrente in ordine al rapporto tra patologia ed asbesto, ma un elemento presuntivo che concorre ad integrare la prova dell'esposizione. Prova non fornita nel caso in esame atteso che dalla documentazione acquisita non risultava che l'INAIL avesse svolto accertamenti specifici per quantificare il livello di esposizione del ricorrente.

Con successivo motivo, il ricorrente censura la parte della sentenza nella quale era stato escluso il ruolo, almeno, concausale della esposizione all'amianto nella causazione della patologia, ricondotta unicamente ad un'altra causa, quale il fumo da sigaretta.

La Suprema Corte accoglie tale motivo evidenziando che, in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola dettata dall'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (tra le altre, Cass. 11 novembre 2014, n. 23990).

Nel caso in esame, la Corte di appello, a parere dei giudici di legittimità, non ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, tenuto conto che la stessa ha riconosciuto la compresenza di due cause, fumo di sigaretta ed esposizione ad amianto, ma ha rigettato la domanda in base ad un giudizio di alta probabilità del primo fattore fondato su affermazioni non adeguatamente motivate e generiche e quindi in violazione con la citata regola prevista dall'art. 41 c.p.

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