Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamenti plurimi individuali per fine lavori nelle costruzioni edili

Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento per inidoneità sopravvenuta alle mansioni

Licenziamenti plurimi individuali per fine lavori nelle costruzioni edili

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2015, n. 4349

Pres. Di Cerbo; Rel. Venuti; P.M. Corasantini; Ric. T.C.; Controric. P.I. S.p.A.;

Lavoro Subordinato - Licenziamenti plurimi individuali - Giustificato motivo oggettivo - Deroga alla disciplina licenziamenti collettivi - Fine lavori nelle costruzioni edili - Nozione

La fine lavoro nelle costruzioni edili che, a norma dell'art. 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223 esclude l'applicabilità delle procedure per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, non consiste nella cessazione dell'attività dell'impresa o nel compimento dell'opera, ma nell'esaurimento di una fase dei lavori, in relazione all'esecuzione dei quali i lavoratori, anche per loro peculiari professionalità, erano stati assunti, che comporta il venir meno della utilità dell'apporto dei medesimi lavoratori all'attività dell'impresa edile.

Nota

Dei lavoratori dipendenti da un impresa edile in liquidazione impugnavano avanti al Tribunale del Lavoro di Torre Annunziata, i licenziamenti a loro intimati (nel 2007) per giustificato motivo oggettivo consistente nella "raggiunta fine fase lavorativa e conseguimento degli obiettivi". I ricorrenti affermavano di essere stati assunti per la realizzazione di un impianto di depurazione, oggetto di un contratto di appalto, e deducevano l'illegittimità dei licenziamenti, in primo luogo, per insussistenza del motivo oggettivo, poiché alla data dei recessi la datrice di lavoro doveva ancora ultimare una parte dei lavori commissionati e, in secondo luogo, per violazione della disciplina in materia di licenziamenti collettivi.

Il Tribunale rigettava il ricorso e la sentenza veniva confermata dalla Corte d'appello di Napoli.

Ad avviso della Corte territoriale, al caso di specie doveva applicarsi l'art. 24, comma 4 L. 223/1991, secondo cui la disciplina dei licenziamenti collettivi non trova applicazione nei casi di "fine lavoro nelle costruzioni edili". La Corte d'Appello riteneva quindi che i recessi intimati ai ricorrenti fossero dei licenziamenti individuali plurimi e ne riconosceva la legittimità, in quanto il giustificato motivo oggettivo risultava comprovato dall'effettivo esaurimento della fase di lavori commissionati alla datrice di lavoro nonché dall'impossibilità di impiegare i ricorrenti in altre mansioni, tenuto conto che i recessi avevano interessato tutti i dipendenti della società edile.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrevano i lavoratori; la società resisteva con controricorso.

I motivi del ricorso dei lavoratori si fondavano essenzialmente sul presupposto che la "fine fase lavorativa e conseguimento degli obiettivi", posta a base degli atti di recesso, era risultata smentita dagli atti di causa e in particolare dal verbale in cui il direttore dei lavori del committente dichiarava che rimanevano da compiere ancora "Euro 804.455,00 lordi di lavori".

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che le censure mosse dai ricorrenti riguardavano esclusivamente una diversa ricostruzione fattuale che invece era stata compiuta dalla Corte territoriale in modo coerente ed esaustivo. Nella sentenza d'appello impugnata, infatti, veniva dato atto che, nel verbale citato dai ricorrenti, si prevedeva esplicitamente che i lavori relativi alle opere accessorie fossero oggetto di specifici contratti di subappalto. La Corte territoriale concludeva quindi che i lavori di costruzioni per i quali erano stati assunti i ricorrenti erano stati ultimati, mentre quelli ancora da eseguirsi erano solamente opere accessorie, oggetto dei contratti di subappalto. Ad avviso della Suprema Corte, il giudice di secondo grado ha dato corretta applicazione al principio di diritto (già espresso in Cass. n. 9657 del 26 settembre 1998; Cass. n 8506 del 22 giugno 2000 e in Cass. n. 2782 del 6 febbraio 2008) secondo cui la nozione di "fine lavoro nelle costruzioni edili" che, a norma dell'art. 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223 esclude l'applicabilità delle procedure per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, non consiste necessariamente nella cessazione dell'attività dell'impresa o nel compimento dell'intera opera, bensì nell'esaurimento di una fase dei lavori - per l'esecuzione dei quali, i lavoratori, anche per loro peculiari professionalità, erano stati assunti - che comporta il venir meno della utilità dell'apporto dei lavoratori all'attività dell'impresa edile.




Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2015, n. 4347

Pres. Vidiri; Rel. Doronzo; P.M. Servello; Ric. S. S.p.A.; Controric. M.G.;

Licenziamento - Mancato superamento del periodo di prova - Giorni di riposo settimanale - Computabilità - Previsione derogatoria del contratto collettivo nazionale - Esclusione - Sussistenza

Il decorso di un periodo di prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale, mentre non è sospeso da ipotesi di mancata prestazione lavorativa inerenti al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività, deve ritenersi escluso, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata di fatto per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l'infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell'attività del datore di lavoro ed il godimento delle ferie annuali. Tale principio, tuttavia, trova applicazione solo in quanto non sia diversamente previsto dalla contrattazione collettiva, la quale può attribuire rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi che accadano durante il periodo medesimo.

Nota

La Corte di appello di Catanzaro confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al sig. M. motivato dal mancato superamento del periodo di prova ed aveva conseguentemente condannato l'azienda alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dall'illegittimo licenziamento fino alla reintegra.

Sosteneva la Corte territoriale che il recesso doveva ritenersi tardivo in quanto era stato irrogato allorquando il lavoratore aveva già superato il periodo di prova. Ed infatti, riteneva la Corte che, nella determinazione del periodo di prova, dovevano essere conteggiati, oltre ai giorni di effettivo servizio prestato dal dipendente (pari a cinquantatre giorni) anche quelli di riposo goduti dal lavoratore (pari ad otto giorni), in quanto durante tale periodo il mancato svolgimento della prestazione lavorativa inerisce al normale svolgimento del rapporto. Considerato pertanto che il lavoratore aveva prestato complessivamente 61 giorni di lavoro ed il CCNL per i dipendenti degli Istituti di vigilanza fissava in 60 giorni il periodo di espletamento della prova doveva ritenersi che il recesso fosse illegittimo in quanto era stato intimato dopo che il lavoratore aveva già superato il periodo di prova. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su di un unico articolato motivo.

In particolare, la società censurava la sentenza impugnata per violazione dell'art. 2096 c.c. e dell'art. 69 del CCNL del personale degli istituti di vigilanza, in relazione agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., assumendo che l'espressione adoperata nell'art. 69 del CCNL applicabile secondo cui la durata massima del periodo di prova non può eccedere i "60 giorni di effettivo lavoro prestato", e l'analoga espressione presente nella lettera di assunzione, doveva intendersi nel senso che potessero includersi nel periodo di prova solo i giorni in cui il lavoratore aveva effettivamente prestato attività di servizio, con esclusione quindi, dal computo del suddetto periodo, delle giornate di riposo legale e convenzionale godute dal lavoratore. Questa interpretazione, peraltro, sosteneva la Corte, doveva ritenersi l'unica rispondente alle finalità del patto di prova che è quella di consentire alle parti di verificare la reciproca convenienza della prestazione lavorativa nonché l'accertamento da parte del datore di lavoro della capacità del prestatore di lavoro.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni. In particolare, la Suprema Corte, dopo aver premesso che il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità è orientato nel senso di ritenere che il decorso del periodo di prova non è sospeso da ipotesi di mancato svolgimento della prestazione lavorativa inerenti al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività, mentre deve ritenersi escluso in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l'infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell'attività del datore di lavoro ed il godimento delle ferie annuali, ha tuttavia precisato che tale principio "trova applicazione solo in quanto non sia diversamente previsto dalla contrattazione collettiva, la quale può attribuire rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi che accadono durante il periodo medesimo" (Cass., 22 marzo 2012, n. 4573; Cass., 5 novembre 2007 n. 23061; Cass. 13 settembre 2006, n. 19558).

Alla stregua del suesposto principio la Suprema Corte ha ritenuto che l'interpretazione della norma contrattuale fornita dalla Corte territoriale, in virtù della quale dovevano ritenersi computabili nel periodo di prova anche i giorni di riposo settimanale in quanto gli stessi costituirebbero "una modalità di svolgimento dell'attività lavorativa", non fosse rispettosa del dato letterale della norma ed, in particolare, dell'uso ripetuto dell'aggettivo "effettivo" che si rinviene nel testo della norma medesima, così contravvenendo alle regole ermeneutiche di interpretazione del contratto ed, in specie, a quelle di cui all'art. 1362, comma 1 del codice civile.

La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto che, nel caso in esame, alla luce del chiaro disposto letterale della previsione contrattuale in oggetto, appariva evidente che la volontà delle parti fosse nel senso di collegare la verifica della reciproca convenienza del rapporto ad una reale sperimentazione dello stesso, con esclusione dei giorni in cui la prestazione non è di fatto resa rendendo la sperimentazione meramente virtuale. Per tali ragioni la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rimesso la causa ad altro giudice che, dopo i necessari accertamenti di fatto, dovrà effettuare una nuova valutazione in merito al compimento o meno del periodo di prova da parte del lavoratore, tenendo conto della disciplina collettiva e dei principi enunciati in tema di interpretazione del contratto dettati negli artt. 1362 e ss. cc..




Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 26 febbraio 2015, n. 3931

Pres. Macioce; Rel. D'Antonio; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. M.G.; Controric. S.A.C.G. S.a.s.;

Lavoro subordinato - Annullabilità del recesso esercitato nei confronti del lavoratore disabile occupato obbligatoriamente - Ambito di applicazione - Licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo - Altri tipi di licenziamento - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Applicabilità – Esclusione

In tema di licenziamento del lavoratore disabile, l'art. 10, comma 4, della legge n. 68 del 1999 - che prevede l'annullabilità del recesso esercitato nei confronti del lavoratore disabile occupato obbligatoriamente qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dal precedente art. 3 della stessa legge - riguarda soltanto il recesso di cui all'articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale, o il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e non anche gli altri tipi di recesso datoriale. Ne consegue che la norma non si applica al licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Brescia, che a sua volta aveva confermato la pronuncia del Tribunale di Cremona, con la quale era stata rigettata la domanda del lavoratore di accertamento dell'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Nello specifico, il lavoratore lamentava la violazione dell'art. 10, comma 4, della L. n. 68/l999, secondo cui è annullabile il licenziamento - per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo - del lavoratore occupato obbligatoriamente, quando al momento della cessazione del rapporto il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva.

Secondo la Corte d'Appello, tuttavia, il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce un'ipotesi speciale di licenziamento, distinta dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e pertanto l'art. 10 comma 4 citato dal ricorrente, essendo di stretta interpretazione, non è applicabile alla fattispecie in esame. Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, deducendo che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, seppur speciale, e quindi soggetto alla disciplina di cui alla L. 68/1999. Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato che le previsioni dell'art 10 comma 4 della L. 68/1999 sono tassative e non possono estendersi al licenziamento per superamento del comporto. Ed infatti, la Corte aveva già in passato sottolineato che "in tema di licenziamento del lavoratore disabile, l'art. 10, comma 4, della legge n. 68 del 1999 - che prevede l'annullabilità del recesso esercitato nei confronti del lavoratore disabile (o di categoria equiparata) occupato obbligatoriamente "qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva" prevista dal precedente art. 3 della legge - riguarda soltanto il recesso di cui all'articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo e non anche gli altri tipi di recesso datoriale" (Cfr. Cass. 15873/2012).

Ebbene, a detta della Corte di Cassazione, la Corte territoriale aveva fatto corretta applicazione di tali principi, sottolineando che il licenziamento per superamento del comporto non è riconducibile alle ipotesi previste dall'art. 10 comma 4 della L. 68/1999, considerato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al quale si riferisce tale disposizione, non può che essere quello per soppressione del posto (ossia il cd. licenziamento economico), in simmetria con il licenziamento collettivo per riduzione di personale.

Sulla base di tali elementi, la Corte di Cassazione ha pertanto concluso per il rigetto il ricorso.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 22 gennaio 2015, n. 1173

Pres. Macioce; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. L.F.F.; Controric. M.I. S.p.A.;

Licenziamento per giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Criteri - Gravità e ripetitività della condotta del lavoratore - Assenza di giustificazioni plausibili - Sistematicità e intenzionalità della condotta – Sussiste

Non è sproporzionato il licenziamento per giusta causa intimato a fronte di una condotta del lavoratore grave, ripetuta nel tempo e priva di giustificazioni plausibili, in quanto sistematica e intenzionale. (Nella specie era stato intimato il licenziamento per giusta causa ad una lavoratrice che si era resa responsabile di centinaia di richieste di rimborsi, risultati poi indebiti, per un valore annuo superiore a diecimila euro, senza fornire giustificazioni plausibili).

Nota

Nel caso di specie la Corte territoriale adita, in riforma della decisione del giudice di prime cure, aveva ritenuto del tutto legittimo (escludendone la sproporzione rilevata in primo grado) il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che si era resa responsabile di centinaia di richieste di rimborsi, poi risultati indebiti, per un valore annuo superiore a diecimila euro.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, conferma la decisione della Corte territoriale adita e, con essa, il giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva formulato dalla Corte medesima. In particolare, la Suprema Corte afferma che la Corte d'Appello ha correttamente e congruamente motivato la proporzione ravvisata tra addebiti e sanzione espulsiva con la ripetitività (essendosi trattato di "numerosissimi addebiti dello stesso genere contestati in dettaglio") delle richieste di rimborsi e con l'analisi di quelle "più sospette", sulle quali la lavoratrice, dopo avere consultato la documentazione analizzata dal datore di lavoro e che aveva fondato la contestazione disciplinare, non aveva dato giustificazioni plausibili, se non quella banale, generica e ricorrente, dell'errore o distrazione. In ragione di quanto precede, secondo la Corte di Cassazione, è da considerarsi corretta e coerente la conclusione a cui è giunta la Corte territoriale adita riguardo all'intenzionalità del comportamento della lavoratrice e, conseguentemente, alla proporzionalità del licenziamento in tronco irrogatole, dal momento che tale comportamento era risultato sistematico e posto in essere nonostante il fatto che il datore di lavoro avesse inviato ai propri dipendenti, tra cui vi era anche la lavoratrice licenziata, una comunicazione in cui si informava della maggiore severità che, dopo un periodo di tolleranza, sarebbe stata applicata nel controllo delle note spese. Risulta, dunque, secondo la Corte di Cassazione, sussistente la giusta causa del licenziamento intimato nel caso di specie, posto che la condotta posta a base dello stesso è da ritenersi in sé grave e tale da minare il rapporto di fiducia tra le parti del contratto di lavoro (Cass. 21 giugno 2011, n. 13574), in quanto posta in essere non per negligenza o sprovvedutezza, bensì intenzionalmente e in violazione del dovere di diligenza di cui agli artt. 1176 e 2104 c.c.




Licenziamento per inidoneità sopravvenuta alle mansioni

Cass. Sez. Lav. 10 marzo 2015, n. 4757

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Servello; Ric. G.B. s.r.l.; Controric. S.M.;

Licenziamento - Inidoneità sopravvenuta alle mansioni - Impossibilità di utilizzo in altre mansioni - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Limiti - Deduzione da parte del lavoratore dell'esistenza di altri posti compatibili – Necessità

In tema di inidoneità fisica al lavoro, l'impossibilità di utilizzazione di un lavoratore in mansioni equivalenti, in ambiente compatibile con il suo stato di salute, deve essere provata dal datore di lavoro, sul quale incombe anche l'onere di contrastare eventuali allegazioni del prestatore di lavoro, nei cui confronti è esigibile una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage in ordine all'esistenza di altri posti di lavoro nei quali possa essere ricollocato.

Nota

La Corte d'Appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore per sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni di pertinenza in quanto - come accertato dalla commissione sanitaria e dal CTU in corso di giudizio - il ricorrente era risultato idoneo a svolgere altre mansioni indicate dal CTU e dal lavoratore stesso, senza peraltro che il datore avesse contrastato concretamente e specificamente la loro disponibilità. Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per Cassazione articolato su due motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.

Con il primo motivo si censura la sentenza per avere il giudice fatto riferimento a mansioni mai svolte dal lavoratore, non libere e non equivalenti a quelle già assegnate, trascurando che il lavoratore, pur in possesso del titolo di geometra, non era stato assunto come tale ma come magazziniere.

4. Con il secondo motivo si assume che il giudice del merito abbia sindacato le valutazioni organizzative di competenza del datore di lavoro. La Suprema Corte dichiara inammissibile il primo motivo per violazione del principio di autosufficienza del ricorso, sottolineando che non sono state riportate le qualifiche il che ha impedito alla Corte di verificare la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (Cass. 13 Novembre 2014 n. 24230). Nell'affermare il principio di cui alla massima, aderendo a specifici precedenti in termini (Cass. 3 marzo 2014, n. 4920), la Cassazione evidenzia, poi, che la società ricorrente non ha fornito alcun elemento idoneo a contrastare le affermazioni contenute in sentenza - fondate su allegazioni del lavoratore e sul risultato della CTU - secondo cui esistevano altre mansioni compatibili con lo stato di inabilità fisica sopravvenuta.

Del resto, nel rigettare il secondo motivo, la Cassazione, come già affermato in altri precedenti, precisa che, se l'esercizio dell'attività economica privata garantito dall'art. 41 Cost. non é sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale, esso deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute, sicché non viola la norma citata il giudice che dichiara illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, senza che il datore di lavoro abbia accertato se il lavoratore potesse essere addetto a mansioni diverse e di pari livello, evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell'organigramma aziendale (Cass. 13 ottobre 2009, n. 21710).

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