Contenzioso

Rassegna della Cassazione 12 - 18 dicembre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Servizio di pronta reperibilità e riposo settimanale

Licenziamento disciplinare e sospensione cautelare

Licenziamento illegittimo e trasferimento di azienda

Identità di mansioni e inquadramento contrattuale

Servizio di pronta reperibilità e riposo settimanale

Cass. Sez. Lav. 18 dicembre 2014, n. 26723

Pres. Vidiri; Rel. Napoletano; P.M. Servello; Ric. Azienda USL di F.; Contr. D. P. R., R. S. e B. S.;

Servizio di pronta reperibilità - Svolgimento durante giorno festivo - Diritto ad un giorno di riposo compensativo - Esclusione - Ridotta fruizione del giorno festivo - Danno da usura psico-fisica - Onere di allegazione e prova - Necessità

Il servizio di pronta reperibilità svolto in giorni festivi, previsto dalla disciplina collettiva, si configura come una prestazione accessoria e strumentale, qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro vera e propria, consistendo nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato in vista di un'eventuale prestazione lavorativa. Conseguentemente il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e fa sorgere il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo - stabilito dal CCNL o, in mancanza, dal giudice - ma non comporta il diritto ad un giorno di riposo compensativo.

Nota - La Corte di appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale di Cassino, rigettava l'opposizione proposta dalla ASL di Frosinone avverso i decreti ingiuntivi emessi su istanza di alcuni medici ed operatori sanitari, aventi ad oggetto differenze retributive relative a giorni di riposo compensativo non goduto, avendo gli stessi prestato servizio di reperibilità in giorni festivi.

A fondamento della propria decisione la Corte di merito poneva, in particolare, l'art. 44, comma 1, del CCNL comparto sanità, secondo cui al dipendente - nel caso in cui la reperibilità coincida con una giornata festiva - spetta un giorno di riposo compensativo, con la conseguenza che la mancata fruizione del riposo comporta il diritto del lavoratore ad ottenere la relativa compensazione monetaria.

Avverso tale decisione la ASL propone ricorso per cassazione, evidenziando, in particolare, che la mancata fruizione del riposo compensativo non è monetizzabile e che la reperibilità prestata in un giorno festivo non implica lo svolgimento di una prestazione lavorativa tale da confliggere con il principio della irrinunciabilità del diritto al riposo settimanale.

La Cassazione accoglie il ricorso proposto dall'ASL e, sulla base del proprio consolidato orientamento, puntualizza che, la reperibilità, prevista dalla disciplina collettiva, si configura come una prestazione accessoria e strumentale qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro vera e propria, consistendo nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato in vista di un'eventuale prestazione lavorativa. Conseguentemente, prosegue la Corte di legittimità, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e fa sorgere il diritto, in capo al lavoratore, ad un particolare trattamento economico aggiuntivo, stabilito dal CCNL o, in mancanza, dal giudice. Qualora il mero disagio patito per la reperibilità in un giorno festivo, non seguita da prestazione lavorativa (c.d. reperibilità passiva), trasmodi in modo da incidere sul piano psico-fisico del lavoratore, questi potrà ottenere il risarcimento del danno solo ove dimostri di non aver potuto godere appieno del giorno festivo (cfr. Cass. 14439/2011; 14288/2011; 11727/2013).

Applicando tali principi la Suprema Corte ritiene che, nel caso in esame, i lavoratori non abbiano dedotto, né tanto meno provato, l'esistenza di alcun danno non patrimoniale (da usura psico-fisica), ragione per cui, il ricorso viene accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, i decreti ingiuntivi vengono definitivamente revocati.




Licenziamento disciplinare e sospensione cautelare

Cass. Sez. Lav. 18 dicembre 2014, n. 26744

Rel. Pres. Stile; Ric. M.P.; Controric. O.T. S.r.l.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Intervallo temporale tra l'intimazione e il fatto contestato - Rilevanza - Condizioni - Immediatezza della contestazione e della tempestività del recesso - Fondamento - Carattere relativo - Accertamento del giudice di merito in proposito - Sindacabilità in cassazione - Limiti.

L'intervallo temporale fra l'intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore assume rilievo in quanto rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, la ritenuta incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure - specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva del rapporto - dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento, con la precisazione che il requisito dell'immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo.

Nota - Con sentenza del dicembre 2011 la Corte d'Appello di Bari confermava la pronuncia di primo grado, che aveva rigettato la domanda, proposta da un lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro, diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento, intimatogli da detta società, con ogni conseguenza sul piano reintegratorio e risarcitorio.

La Corte di merito dopo avere preliminarmente chiarito che 1'appellante (dipendente della società con le mansioni di modellista, inquadrato al 6° livello del CCNL di settore) era stato prima sospeso in data 30 dicembre 2004 per motivi disciplinari e poi, in data 27 gennaio 2005, licenziato per avere tenuto una condotta consistita nel "tentativo di sottrarre o ricopiare forma, modelli e disegni", riteneva pienamente provato l'addebito e legittimo il licenziamento inflittogli per giusta causa.

Il lavoratore ricorreva per Cassazione e denunciava, in particolare, violazione e falsa applicazione degli artt. 69, 70 e 71 del CCNL dell'Industria Calzaturiera, anche in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., deducendo che, avendo provveduto a formalizzare le proprie controdeduzioni mediante la nota raccomandata a.r. del 3 gennaio 2005, recapitata alla società il 7 gennaio 2005, in riferimento all'addebito contestatogli con il telegramma del 30 dicembre 2004, la società datrice di lavoro avrebbe dovuto intimare il licenziamento entro e non oltre i sei giorni successivi alla ricezione delle menzionate controdeduzioni, ovvero entro il 13 gennaio 2005, per non incorrere, ai sensi del richiamato art. 69 del CCNL, nella illegittimità ed irritualità del licenziamento medesimo, poi intimato in forza della nota raccomandata del 28 gennaio 2005.

La Suprema Corte ha ritenuto che la censura alla fornita interpretazione della Corte di merito, ancorché corretta in ordine al non condivisibile iter argomentativo adottato dalla stessa, non avesse carattere dirimente nel senso auspicato dal ricorrente.

In proposito la Corte ha rammentato che il Giudice di legittimità, nel caso sia stata denunciata la violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi ai sensi dell'art. 360, comma l, numero 3, cod. proc. civ., può procedere alla diretta interpretazione del contenuto del contratto collettivo, la cui natura negoziale impone che l'indagine ermeneutica debba essere compiuta secondo i criteri dettati dagli artt. 1362 c. e. e seguenti (ex plurimis, Cass, n. 1582/2008). In virtù di tale acquisita prerogativa, a parere della Corte, la disciplina prevista dal menzionato art. 69 del suddetto CCNL, contempla - in una evidente prospettiva secondo cui la brevità del termine mal si concilia con la rilevante entità o gravità dei fatti che giustificano le sanzioni espulsive, la cui applicazione deve essere preceduta in linea di massima, da indagini adeguate e correlate valutazioni (v. Cass. n. 10409/1997) - l'istituto della sospensione cautelare, volto, appunto, a temperare esigenze di celerità con quelle di consentire una adeguata conoscenza dei fatti a cui ricollegare una ponderata valutazione degli stessi.

Sul punto la Suprema Corte ha richiamato la costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui "l'intervallo temporale, fra l'intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore, assume rilievo in quanto rilevatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, la ritenuta incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto, può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure - specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva del rapporto - dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento, con la precisazione che il requisito della immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell' impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al Giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo" (così, tra le molte, Cass. n. 2580/2009).

La Suprema Corte, considerati, nel caso di specie, gli intervalli di tempo intercorsi tra il compimento del fatto addebitato, la sospensione cautelare, la contestazione dell'addebito e la irrogazione del licenziamento - cosi come accertati dal Giudice di merito - ha ritenuto del tutto corretta, e pienamente conforme al principio giurisprudenziale sopra riportato, la valutazione operata dalla Corte d'Appello nell'impugnata sentenza.




Licenziamento illegittimo e trasferimento di azienda

Cass. Sez. Lav. 16 dicembre 2014, n. 26401

Pres. Macioce; Rel. Doronzo; P.M. Ceroni; Ric. P.S.; Contr. B. C. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Licenziamento illegittimo intimato in epoca antecedente al trasferimento - Sentenza di annullamento - Prosecuzione del rapporto con il cessionario - Sussiste

In tema di trasferimento d'azienda, l'effetto estintivo del licenziamento illegittimo intimato in epoca anteriore al trasferimento medesimo, in quanto meramente precario e destinato ad essere travolto dalla sentenza di annullamento, comporta che il lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in capo al cessionario. Il cessionario è pertanto legittimato passivamente rispetto alla domanda di impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore.

Nota - Il caso in esame trae spunto da una sentenza del Tribunale di Cosenza con cui era stato dichiarato, nell'ambito di un trasferimento di ramo di azienda, il difetto di legittimazione passiva della società cessionaria rispetto alla domanda di un lavoratore diretta a ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla cedente e la reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte d'appello di Catanzaro successivamente adita confermava la pronuncia di primo grado affermando che, nel caso di specie, dal momento che il licenziamento risaliva ad un'epoca anteriore al conferimento del ramo di azienda, non potesse trovare applicazione il disposto dell'art. 2112 cod. civ., che suppone invece la vigenza del rapporto di lavoro al momento del conferimento medesimo.

Il lavoratore proponeva, quindi, ricorso alla Corte di Cassazione. In particolare, il nucleo della controversia sottoposta all'esame della Suprema Corte era costituito dalla domanda se con la cessione del ramo d'azienda fosse stato trasferito anche il rapporto di lavoro intercorso tra il lavoratore e la società cedente, cessato in epoca anteriore al trasferimento per effetto di un licenziamento impugnato.

La Suprema Corte, ha ritenuto fondato il ricorso affermando che l'effetto estintivo del licenziamento annullabile è un effetto del tutto precario, idoneo a essere travolto fra le parti dalla pronunzia di annullamento con la conseguenza che, a norma dell'art. 2112 cod. civ., il rapporto di lavoro ripristinato fra le parti originarie si trasferisce al cessionario, con l'ulteriore conseguenza che deve ritenersi sussistente la legittimazione passiva dell'impresa cessionaria, nei cui confronti correttamente è stata proposta la domanda di impugnativa del licenziamento.




Identità di mansioni e inquadramento contrattuale

Cass. Sez. Lav. 12 dicembre 2014, n. 26236

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Matera; Ric. V.G.; Res. A. S.p.a.;

Inquadramento contrattuale - Principio di parità di trattamento fra lavoratori che svolgono le medesime mansioni - Inesistenza

In mancanza di un principio generale di parità di trattamento in materia di lavoro, non assume alcun rilievo giuridico l'eventuale identità fra le mansioni svolte da un lavoratore e quelle proprie di altri prestatori che, alle dipendenze della stessa azienda, abbiano ottenuto un superiore inquadramento contrattuale, essendo a tal fine rilevante solo la riconducibilità delle mansioni svolte alla qualifica rivendicata.

Nota - La Corte d'Appello di Brescia, riformando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda della ricorrente volta ad ottenere il superiore inquadramento nel IV livello del CCNL Turismo ed il pagamento delle conseguenti differenze retributive. Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale osservava che non ricorrevano i presupposti giuridici per il riconoscimento della superiore qualifica richiesta poiché la lavoratrice non godeva dell'autonomia esecutiva e non era in possesso delle conoscenze specialistiche che contraddistinguono le figure professionali appartenenti al IV livello del CCNL Turismo, essendo, al contrario, la sua attività prevalentemente di carattere esecutivo di tecniche e criteri rigidamente prefissati.

Avverso tale sentenza, la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione, mentre la società resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha confermato la decisione, rilevando, anzitutto, che la Corte di merito aveva correttamente conferito rilevanza ai concetti di natura e durata dell'addestramento utile ai fini dell'acquisizione delle conoscenze specialistiche tipiche del superiore inquadramento richiesto e che sul punto la lavoratrice non aveva fornito alcun elemento che potesse far ritenere provati i presupposti necessari all'accoglimento della domanda.

Sotto un diverso profilo, la Corte di Cassazione ha evidenziato l'irrilevanza della circostanza per cui ad alcuni lavoratori che svolgevano le medesime mansioni assegnate alla ricorrente era stato riconosciuto il superiore inquadramento da lei rivendicato. Sul punto, la sentenza ha rimarcato l'inconfigurabilità di un generale principio di parità di trattamento in materia di lavoro e, in particolare, agli effetti della tutela prevista dall'art. 2103 cod. civ.

Per effetto di ciò, la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini del superiore inquadramento, non assume rilievo l'eventuale identità fra le mansioni svolte e quelle proprie di altri lavoratori ai quali sia stata riconosciuta la qualifica richiesta, dovendosi avere riguardo solo alla concreta riconducibilità delle mansioni svolte alla declaratoria contrattuale rivendicata dal ricorrente (cfr. Cass. 8 novembre 2007, n. 23273).

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