Contenzioso

Rassegna della Cassazione 26 settembre - 28 ottobre 2014

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Stato di incapacità di intendere o di volere del lavoratore

Annullabilità delle dimissioni

Lavoro subordinato: nozione

Procedimento disciplinare e principio di ne bis in idem

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass., sez. lav., 28 ottobre 2014, n. 22827

Pres. Vidiri; Rel. Arienzo; Ric. C.L.; Controric. A. Snc

Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Responsabilità del datore di lavoro - Oggetto - Fondamento - Prova liberatoria - Onere a carico del datore di lavoro. Fattispecie

La responsabilità conseguente alla violazione dell'art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, sicché, il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio, o l'Istituto assicuratore che agisca in via di regresso, deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa e del danno, nonchè il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioé di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (Caso di una lavoratrice con mansioni di aiutante cuoco caduta dalle scale durante l'espletamento della prestazione lavorativa. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ritenendo che nel caso di specie non sussistessero le condizioni per l'adozione di particolari dispositivi di sicurezza e che quindi era da escludersi il nesso di causalità con l'accaduto, essendosi la lavoratrice infortunata mentre trasportava una cassa di bottiglie che le impediva la vista).

Nota - Con sentenza del 2007 la Corte di Appello di Torino respingeva il gravame proposto da una lavoratrice avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato il ricorso promosso dalla stessa per ottenere il risarcimento dei danni alla salute, alla vita di relazione e morale, conseguenti all'infortunio sul lavoro subito nel 1998 presso una mensa regionale gestita dalla società datrice di lavoro, allorchè, nell'espletamento delle mansioni di aiuto cuoca, era caduta dalle scale che conducevano alla cantina, ove si stava recando dalla cucina della mensa. Rilevava la Corte che l'appello si fondava unicamente sull'assunto che il datore di lavoro non avesse fornito ai lavoratori le calzature antiscivolo e installato listelli antiscivolo sulle scale, laddove era stato confermato, in sede istruttoria, che le scale erano sufficientemente illuminate ed agevoli e che non risultavano disposizioni di legge che imponessero l'adozione di un montacarichi, nè l'installazione di listelli antisdrucciolo, previsti solo per scale doppie o a pioli od, ai sensi del D.P.R. n. 303/1956, art. 7, in presenza di liquidi o materiali putrescenti. Doveva, pertanto, secondo il giudice del gravame, ritenersi insussistente il nesso di causalità con l'accaduto, essendosi la lavoratrice infortunata mentre trasportava una cassa di bottiglie che le impediva la vista. La lavoratrice ricorreva per Cassazione.

Con il primo motivo la ricorrente lamentava omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia prospettato dall'appellante, che aveva rilevato come l'esonero totale del datore da responsabilità fosse previsto solo quando la condotta del dipendente presentasse i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, ovvero dell'atipicità e dell'eccezionalità. In particolare, secondo il ricorrente non poteva ritenersi abnorme il comportamento di un aiuto cuoco che trasportava bottiglie dalla cucina alla dispensa e che la mancata previsione di misure di sicurezza necessitava di una maggiore argomentazione a sostegno dell'esonero da responsabilità della datrice di lavoro, non avendo quest'ultima mai fatto cenno ad eventuali istruzioni contrarie alla condotta tenuta dalla lavoratrice. La ostruzione alla vista delle scale per effetto della cassa trasportata non escludeva, a parere della ricorrente, che essa lavoratrice fosse scivolata in conseguenza della mancanza di dispositivi antisdrucciolo.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e del D.Lgs. n. 626/ 1994, art. 48, comma 1, evidenziando come, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, l'art. 2087 c.c., fondi un principio di carattere generale in tema di doveri di prevenzione imposti dall'ordinamento a carico del datore ed imponga al predetto non solo le particolari misure imposte tassativamente dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche imposte dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all'esperienza ed alla tecnica. Nel caso in esame, secondo la ricorrente:

- la necessità per l'aiuto cuoco di recarsi nella dispensa doveva indurre, secondo la ricorrente, il datore a dotare i gradini di apposite listarelle antisdrucciolo idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore;

- il D.Lgs. n. 626/1994, art. 48 prevede che il datore di lavoro adotti le misure organizzative necessarie o ricorra ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori, laddove nessuna misura era stata adottata al riguardo.

Non poteva, quindi, ritenersi, a parere della ricorrente, che il datore avesse fatto tutto il possibile per evitare il danno e che il fatto stesso di trasportare carichi che impedissero la visuale nello scendere le scale poteva concretizzare il nesso causale, non essendo tale comportamento definibile come imprevedibile, poichè connesso alle normali mansioni collegate alla qualifica ricoperta, e potendo la caduta essere evitata con l'utilizzo di un montacarichi o limitata dall'utilizzo di calzature antiscivolo e dalla predisposizione di listelle antisdrucciolo.

La Suprema Corte ha integralmente rigettato il ricorso, rilevando che la Corte d'Appello di Torino aveva correttamente evidenziato come, non sussistendo le condizioni per l'adozione di particolari dispositivi di sicurezza, correttamente fosse stato nella specie escluso il nesso di causalità con l'accaduto, poichè la lavoratrice non era scivolata, ma la caduta era da collegare al trasporto di una cassa di bottiglie che impediva alla stessa la vista delle scale.

Quanto alla prima censura, a parere della Corte di Cassazione, era stato correttamente evidenziato che non erano state disattese le disposizioni di sicurezza quanto ai listelli antisdrucciolo, in quanto, in base al D.P.R. n. 5445/1957, essi sono previsti solo per le scale doppie o a pioli e quindi di nessuna rilevanza è stata ritenuta l'osservazione che non poteva essere escluso che la lavoratrice fosse caduta non per la mancanza di visuale ma per la mancanza dei dispositivi anzidetti, una volta accertato che il datore non dovesse ottemperare alla relativa predisposizione in relazione alla mancanza delle condizioni che ne imponessero l'adozione.

La Suprema Corte ha, altresì, rilevato che nessuna allegazione vi era stata in ordine alla circostanza che le scale fossero scivolose e, peraltro, anche in base al richiamato D.P.R. n. 303/1957, art. 7, doveva, ai fini del nesso causale, essere dimostrato che le scale fossero normalmente bagnate o coperte da materiali putrescenti che imponessero la collocazione nel percorso di graticolati idonei a rendere sicuro il passaggio. In relazione al secondo motivo di ricorso, oltre a ribadire le considerazioni che precedono, la Corte di Cassazione ha osservato che il D.Lgs. n. 626/1994, art. 48 - che impone l'adozione, quando sia possibile, di attrezzature meccaniche per evitare la movimentazione manuale dei carichi è diretto a tutelare le condizioni di salute del lavoratore connesse alla pesantezza dei carichi da trasportare, come si evince dalle previsioni di cui al quarto comma, e dal riferimento, in particolare, ai rischi di lesioni dorso - lombare e pertanto esula dall'oggetto della specifica doglianza.

Esclusa, pertanto, correttamente, la inadempienza del datore rispetto alla predisposizione di dispositivi di sicurezza, deve in conclusione ritenersi, a parere della Corte, che la stessa configurabilità del comportamento abnorme non sia configurabile ai fini dell'esonero da responsabilità, essendo la mancanza di imputabilità del datore da ricollegare, piuttosto, come bene evidenziato dalla Corte del merito, alla mancanza di ogni nesso causale della caduta con la prestazione lavorativa svolta, le cui modalità non imponevano l'adozione delle cautele invocate dalla lavoratrice.




Stato di incapacità di intendere o di volere del lavoratore

Cass., sez. lav., 28 ottobre 2014, n. 22825

Pres. Stile; Rel. Tricomi; P.M. Matera; Ric. S.P.; Contr. U. Spa

Art. 428 c.c. - Stato di incapacità di intendere o di volere - Annullamento atti compiuti dal lavoratore - Onere della prova - Incombe sul lavoratore

Ai fini della sussistenza dello stato di incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere. In ogni caso la parte che deduca l'incapacità di intendere o di volere, ai fini dell'annullamento di un atto, ha l'onere di provarla attraverso circostanze convincenti e concordanti.

Nota - La Corte di appello di Roma confermava la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato da un istituto di credito ad un dipendente per avere questi estinto anticipatamente un suo prestito personale, subito dopo una rapina in danno della filiale della banca ove lavorava.

Avverso la sentenza di secondo grado il lavoratore proponeva ricorso per cassazione per violazione dell'art. 428 c.c., assumendo che erroneamente la Corte di appello non aveva ritenuto sussistente l'incapacità di intendere e di volere del ricorrente, non avendo valutato a tal fine che il rapinatore aveva stazionato oltre 40 minuti alle sue spalle tenendolo, conseguentemente, sotto pressione psicologica. Condizione confermata, secondo il lavoratore, da una certificazione rilasciata da un ospedale pubblico ove era stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress grave riconducibile alla rapina.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso, evidenziando in primo luogo che ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere. Per i giudici di legittimità, nel caso di specie, la corte di appello, dopo aver correttamente rilevato che la prova della incapacità incombeva sul lavoratore, aveva anche adeguatamente motivato che dall'istruttoria non erano emersi elementi convincenti e concordanti in merito, anzi le modalità del comportamento successivo avevano dimostrato la piena lucidità del ricorrente.

In particolare, il giorno seguente la rapina, il ricorrente non aveva fatto alcuna menzione di un eventuale suo stato di agitazione e solo dopo la ricezione della lettera di contestazione il lavoratore aveva cercato di giustificare la sua condotta facendo riferimento ad uno stato di "intensa emotività". A ciò si aggiungeva, sempre secondo la Suprema Corte, che l'operazione posta in essere dal ricorrente, per l'estinzione del debito, richiede una serie di digitazioni, che presuppongono un'attenzione lucida del tutto incompatibile con uno stato confusionale.

Conseguentemente, secondo la Cassazione, correttamente la Corte territoriale aveva ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva, atteso che il valore ridotto del danno non costituiva elemento di per sé impeditivo del venir meno del rapporto fiduciario e tenuto anche conto che, per giurisprudenza costante, l'entità del danno ha un rilievo accessorio e secondario nella valutazione complessiva delle circostanze di cui si sostanzia la condotta contestata.




Annullabilità delle dimissioni

Cass., sez. lav., 28 ottobre 2014, n. 22836

Pres. Roselli; Rel. Lorito; Ric. B.M.; Controric. Tercas - Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo

Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Dimissioni - Annullabilità delle dimissioni per incapacità naturale - Requisiti - Totale privazione delle capacità intellettive e volitive - Esclusione

Perché l'incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere; la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata.

Nota - La Corte d'Appello di L'Aquila ha respinto il gravame proposto da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale di Teramo, che aveva dichiarato infondate le domande del dipendente volte, anzitutto, all'annullamento delle dimissioni comunicate dopo la scoperta da parte del datore di lavoro di un suo inadempimento nonché asseritamente rassegnate in stato d'incapacità naturale determinato da presunti disturbi ansioso-depressivi ascrivibili al contesto lavorativo in cui aveva operato e, per l'effetto, alla condanna del datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni dalla data delle dimissioni sino alla riammissione in servizio del ricorrente nonché al risarcimento dei pretesi danni all'integrità psicofisica sofferti in relazione alla cessazione del rapporto.

La Corte d'Appello ha motivato la decisione evidenziando che l'istruttoria espletata non aveva dimostrato una particolare gravità della patologia fisiopsichica da cui era affetto il ricorrente tale da escludere la sua capacità d'intendere o di volere e che le dimissioni, nella fattispecie, non integravano, di per sé, un comportamento assolutamente irrazionale, tale da costituire prova sufficiente del proprio stato di incapacità naturale, essendo state logicamente motivate da un non corretto comportamento professionale in precedenza assunto dal lavoratore e dalla esigenza di evitare le conseguenze, anche di natura penale, da esso derivanti; infine, la Corte di merito rilevava che non era configurabile neppure un nesso eziologico fra lo stato psichico di depressione in cui versava il ricorrente e le condizioni ambientali in cui quest'ultimo aveva esplicato la prestazione lavorativa, escludendo, altresì, che fosse stata offerta alcuna prova dell'effettivo pregiudizio di cui si chiedeva il ristoro. La Corte di cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d'Appello, puntualizzando, tra il resto, che l'incapacità naturale del dipendente rileva come causa di annullamento delle sue dimissioni solo allorché le facoltà intellettive e volitive del lavoratore siano quantomeno diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto nonché la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere.

Alla stregua dei suddetti principî, la Suprema Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza d'appello, condividendo, in particolare, il giudizio della Corte di merito - formulato sulla base degli atti di causa e delle valutazioni formulate dal consulente tecnico nominato in prime cure - secondo cui la sindrome ansioso-depressiva del lavoratore non poteva essere valutata di tale gravità da far venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e da seriamente inibire la sua capacità di valutazione dell'atto.




Lavoro subordinato: nozione

Cass., sez. lav., 26 settembre 2014, n. 20367

Pres. Macioce; Rel. Berrino; P.M. Celeste; Ric.A.I.D.C. Srl; Contr. M.A.D'A.

Autonomia - Subordinazione - Elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato - Estremi - Ricorso a criteri distintivi sussidiari - Legittimità - Fattispecie

Nel caso in cui la prestazione lavorativa dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una sia pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

Nota - La sentenza in commento trae origine da una pronuncia della Corte d'Appello di Palermo, con la quale era stata dichiarata la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra una lavoratrice e una società.

Quest'ultima ha successivamente promosso ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell'art. 2094 c.c. e dell'art. 11 della Costituzione, per avere la Corte d'Appello ignorato, nella qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato, i presupposti necessari del relativo vincolo.

La Suprema Corte, nel motivare la propria decisione, ha innanzitutto ribadito che, sulla premessa che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, e al conseguente inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all'attività di impresa. La Corte ha, tuttavia, precisato come l'esistenza del vincolo vada concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito, ritenendo legittimo, nei casi in cui la distinzione tra i due tipi di rapporto sia particolarmente difficoltosa, ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l'incidenza del rischio economico, l'osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito.

Sulla scorta dei suddetti principi è stata, dunque, enucleata una regula iuris alla quale la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, si è uniformata, secondo la quale, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all'opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

Secondo la Cassazione la Corte d'Appello nel caso di specie si è attenuta ai suddetti principi e ha correttamente qualificato il rapporto di lavoro come subordinato. In particolare, sulla premessa che la lavoratrice in causa era addetta a mansioni ripetitive e che tali mansioni, una volta ricevute le istruzioni iniziali, non richiedevano ulteriori direttive e controlli, la Corte d'Appello ha dato rilievo ai fini di cui trattasi, alle risultanze istruttorie dalle quali era emerso che: i turni settimanali erano predisposti dalla società, ancorché sulla scorta delle disponibilità inizialmente manifestate dal prestatore di lavoro; una volta predisposti i turni la lavoratrice era tenuta a rispettarli e non poteva allontanarsi senza essere autorizzata; in caso d'indisponibilità la lavoratrice doveva avvertire preventivamente il preposto; il lavoro veniva svolto nei locali dell'agenzia con l'uso di beni aziendali secondo orari predeterminati; il compenso corrisposto era fisso, senza che vi fosse alcun riferimento al risultato della prestazione; non vi era alcun rischio economico da parte della lavoratrice.




Procedimento disciplinare e principio di ne bis in idem

Cass., sez. lav., 22 ottobre 2014, n. 22388

Pres. Vidiri; Rel. Lorito; P.M. Matera; Ric. P.I. Spa; Res. C.L.

Licenziamento individuale per i medesimi fatti già sanzionati con una sanzione conservativa - Principio di ne bis in idem - Violazione - Illegittimità del recesso

Il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, che è ormai consumato.

Nota - La Corte d'Appello di Bari, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore sul presupposto del passaggio in giudicato di una sentenza che lo aveva condannato per peculato in relazione a circostanze per le quali in precedenza era già stato sanzionato con la sospensione dalla retribuzione e dal servizio.

La Corte territoriale, in particolare, evidenziava che il recesso, seppur intimato ai sensi dell'art. 53 del Ccnl applicato al rapporto, che, per l'appunto, prevede la comminazione della sanzione espulsiva "per condanna passata in giudicato, quando i fatti costituenti reato possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario ", presupponeva la reiterazione del potere disciplinare, che doveva invece ritenersi ormai esaurito.

Avverso la decisione della Corte d'Appello la società proponeva ricorso per cassazione, mentre il lavoratore resisteva con controricorso.

La ricorrente, in particolare, evidenziava la legittimità del licenziamento, sul presupposto che le parti sociali, con la disposizione di cui sopra, avevano attribuito specifica ed autonoma rilevanza alla circostanza del passaggio in giudicato della sentenza di condanna penale, la quale, pertanto, sarebbe di per sé idonea a ledere il rapporto fiduciario e, quindi, a giustificare il recesso.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, rimarcando, anzitutto, che il principio di ne bis in idem è funzionale ad evitare che per lo stesso fatto si svolgano più procedimenti e si emettano più provvedimenti (Cass. pen. 10 luglio 1995, n. 1919). Inoltre, la pronuncia ha evidenziato il carattere generale del principio, che è posto a garanzia del giusto processo, nonché dei diritti individuali dell'uomo, riconosciuti dall'art. 2 Cost., e del diritto di difesa, sancito dall'art. 24 Cost. (Corte Cost. 25 marzo 1976, n. 69).

Per effetto di ciò, il divieto di bis in idem deve trovare applicazione anche con riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro, in relazione alla quale, infatti, è stato elaborato il principio per cui non è possibile sanzionare la medesima condotta due o più volte in conseguenza di una sua diversa valutazione e/o configurazione giuridica.

La Corte ha, quindi, rimarcato che, una volta esercitato, il potere disciplinare si estingue per consunzione, sicché il datore di lavoro, allorché abbia già sanzionato determinate infrazioni disciplinari, non può farlo una seconda volta, essendogli solo consentito, ai sensi dell'art. 7, u.c., legge n. 300/1970, di tenere conto della sanzione applicata ai fini della recidiva (fra le tante, Cassazione 17 gennaio 1992, n. 565, Cassazione 28 gennaio 1999, n. 767).

In conclusione, la pronuncia ha evidenziato che nella fattispecie sottoposta al suo esame la pronuncia penale coperta dal giudicato aveva sanzionato i medesimi fatti che la società aveva già punito con una sanzione conservativa e che, pertanto, essendosi ormai consunto il potere disciplinare datoriale, il recesso che ne era scaturito era illegittimo.

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