Contenzioso

Rassegna della Cassazione 17 settembre - 6 ottobre 2014

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nozione di mobbing

Trasferimento di azienda tra società dello stesso gruppo

Somministrazione di lavoro e indennità ex art. 32, legge n. 183/2010

Illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda

Sulla qualifica dirigenziale

Nozione di mobbing

Cass., sez. lav., 19 settembre 2014, n. 19782

Pres. Roselli; Rel. Tricomi; Ric. F.G.; Controric. P. I.S.P.A. e altri.

Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Mobbing - Fattispecie - Elementi costitutivi - Intento persecutorio - Elemento soggettivo - Nesso di causalità - Responsabilità del datore di lavoro

Il mobbing è una figura complessa che designa un eterogeneo fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

In particolare, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono, quindi, ricorrere molteplici elementi:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Nota - La Corte d'appello di L'Aquila ha respinto il gravame proposto da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale di Vasto, che aveva dichiarato infondate le domande del dipendente volte sia all'accertamento della sussistenza di una presunta condotta vessatoria - sub specie di mobbing - tenuta dal datore di lavoro nonché del nesso causale tra tale condotta e le patologie contratte dal lavoratore, sia alla condanna dell'azienda al risarcimento del danno.

La Corte d'appello ha motivato la decisione evidenziando che, nella specie, difettavano sia l'allegazione che la prova degli elementi strutturali del mobbing, tanto sotto il profilo oggettivo (costituito dalla frequenza dei comportamenti del datore integranti abusi nei confronti del lavoratore), quanto sotto quello soggettivo (rappresentato dalla coscienza ed intenzione del primo di causare danni). In definitiva - ha concluso la Corte di merito - i fatti dedotti dall'appellante non erano sufficienti a provare l'esistenza di comportamenti del datore, protratti nel tempo, che rivelassero, in modo univoco, un'esplicita volontà di quest'ultimo di emarginazione del primo, non potendo costituire prova di ciò, tra l'altro, né la mera adibizione a mansioni diverse, né un mutamento di reparto, atteso che tale ultima modifica aveva riguardato tutti gli addetti del reparto ove era precedentemente occupato il lavoratore.

La Corte di cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d'appello, puntualizzando, tra il resto, che ai fini della configurabilità del mobbing in ambito lavorativo inteso come quel complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima del gruppo debbono ricorrere, congiuntamente, molteplici elementi e, segnatamente, i seguenti:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;

d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Quanto all'onere della prova, la Suprema Corte ha ribadito che incombe sul soggetto che lamenta di esserne stato vittima dimostrare gli elementi costitutivi, sia oggettivi che soggettivi, del mobbing, nonché di comprovare l'esistenza di uno specifico nesso di causalità tra le prospettate azioni vessatorie e la dedotta lesione alla salute o alla dignità personale, e che per assolvere tali oneri non è possibile limitarsi ad invocare una consulenza tecnica d'ufficio.

Alla stregua dei suddetti principi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, censurando la mancanza di sufficienti allegazioni e prove che attestassero una condotta datoriale nel suo complesso mobbizzante nonché un nesso di causalità tra tali comportamenti e i lamentati danni.



Trasferimento di azienda tra società dello stesso gruppo

Cass., sez. lav., 29 settembre 2014, n. 20463

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; P.M. Celentano; Ric. S.I. più altri; Contr. A. Srl e G.C. Spa

Art. 2112 c.c. - Contratto di affitto di azienda tra società facenti capo al medesimo gruppo societario - Contratto in frode alla legge ex art. 1344 c.c. - Insussistenza - Necessità di accertamento in concreto

Il trasferimento di azienda realizzato tra due imprese appartenenti ad un medesimo gruppo societario non è, per ciò solo, sufficiente a far ritenere che si tratti di un contratto in frode alla legge, ex art. 1344 c.c., a meno che non si ravvisi, tra le stesse, un unico centro di imputazione di interessi. Tale situazione ricorre qualora venga accertata l'esistenza dei seguenti requisiti:

a) unicità della struttura organizzativa e produttiva;

b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese e il correlativo interesse comune;

c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo;

d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società del gruppo.

Nota - Il Tribunale di Salerno aveva accolto la domanda avanzata da alcuni lavoratori tesa a far dichiarare la nullità del contratto di affitto di azienda stipulato tra le due società convenute sul presupposto della sussistenza di una causa illecita, in frode alla legge. Dopo aver accertato che le imprese coinvolte facevano capo ad un unico gruppo societario, il primo giudice aveva desunto, da tale circostanza, che la cessione era avvenuta con il solo intento di liberarsi più agevolmente di una parte del personale della società cedente.

La Corte di appello di Salerno aveva riformato la sentenza ritenendo che non fosse stato provato che l'intento della cessione era stato solo quello di un più facile licenziamento dei dipendenti, come confermato dalla circostanza che la mancata assunzione dei dipendenti era dipesa dal rifiuto opposto da questi ultimi.

I lavoratori propongono ricorso per Cassazione lamentando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c. in relazione agli artt. 1343 e 1344 c.c.

La Corte di cassazione respinge il ricorso, rilevando che correttamente la Corte di appello aveva escluso che il contratto di affitto di azienda, stipulato tra due società di un medesimo gruppo, fosse, per ciò solo, un negozio in frode alla legge, derivante dalla circostanza che tra le medesime società esisteva un collegamento economico, in quanto tutte facevano capo ad un unico gruppo societario.

Ed invero, afferma la Cassazione, per orientamento costante della sezione, il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso tra un lavoratore ed una di esse, debbano estendersi anche alle altre, a meno che non sussista una situazione tale da consentire di ravvisare - anche ai fini della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l'applicabilità della cd. tutela reale del lavoratore licenziato - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.

Situazione che ricorre ogni qual volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività tra vari soggetti del collegamento economico-funzionale, in modo che sia rilevata l'esistenza dei seguenti requisiti:

a) unicità della struttura organizzativa e produttiva;

b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese e il correlativo interesse comune;

c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo;

d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società, nel senso che la stessa sia svolta in maniera indifferenziata e in contemporanea in favore dei vari imprenditori.

Ebbene, per la Suprema Corte, è da escludere, nel caso di specie, la sussistenza di un contratto di affitto in frode alla legge, in quanto non è stato provato che l'intento della cessione di ramo sia stato unicamente quello del più facile licenziamento dei dipendenti, come confermato dalla circostanza non specificamente contestata dai ricorrenti che la mancata presa in carico, presso la società affittuaria, dei lavoratori della società cedente era dipesa dal divieto opposto dagli stessi dipendenti.



Somministrazione di lavoro e indennità ex art. 32, legge n. 183/2010

Cass., sez. lav., 6 ottobre 2014, n. 21001

Pres. Lamorgese; Rel. Lorito; Ric. F.I. Spa; Cotroric. L.M.

Lavoro - Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Durata del rapporto - A tempo determinato - Indennità prevista dall'art. 32 della legge n. 183/2010 - Ambito di applicazione - Contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato illegittimo - Inclusione - Sussistenza

L'indennità prevista dalla legge n. 183/2010, art. 32, trova applicazione ogni qual volta vi sia un contratto di lavoro a tempo determinato per il quale operi la conversione in contratto a tempo indeterminato e, dunque, anche in caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore che abbia chiesto ed ottenuto dal giudice l'accertamento della nullità di un contratto di somministrazione di lavoro, convertito - ai sensi del D.Lgs. n. 216/2003, art. 21, u.c. - in un contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione.

Nota - La sentenza in esame prende spunto dal caso di un lavoratore somministrato che adiva il giudice del lavoro chiedendo l'accertamento dell'illegittimità del contratto di lavoro somministrato.

In primo grado le domande del lavoratore venivano rigettate. Successivamente, la Corte d'appello adita dal lavoratore, riformava la sentenza di primo grado e accertava lo svolgimento di un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far tempo dal 2007 fra il lavoratore e la società utilizzatrice e condannava detta società a ripristinare il rapporto di lavoro con l'appellante, disponendo per il prosieguo dell'istruttoria volta all'accertamento della entità del risarcimento del danno spettante al lavoratore.

I giudici di merito pervenivano a tale decisione dopo aver rilevato che, sia nel contratto di somministrazione intercorso tra la società somministratrice e la società utilizzatrice, sia in quello intervenuto fra la società fornitrice ed il lavoratore, non era stato indicato alcuno specifico elemento, né era stata offerta alcuna convincente prova in merito alla effettiva sussistenza della causale genericamente indicata, vale a dire quella "per punte di più intensa attività derivanti dalla acquisizione di commesse che prevedono inserimenti in reparto produttivo".

Sul versante risarcitorio, con sentenza definitiva del 2013, l'adita Corte, sul presupposto già affermato della inapplicabilità alla fattispecie del disposto di cui alla legge n. 183/2000, art. 32, condannava la società utilizzatrice al risarcimento del danno nella misura corrispondente alle retribuzioni maturate dal 2009 sino alla data dell'effettivo ripristino, con detrazione di quanto percepito a titolo di redditi da lavoro nello stesso periodo, così come emerso ex actis, oltre accessori di legge dalla maturazione dei crediti sino al soddisfo.

La società ricorreva per Cassazione con due distinti ricorsi, poi riuniti, lamentando, in particolare, che la Corte di merito aveva erroneamente ritenuto generico il richiamo operato nel contratto di somministrazione alle ragioni riconducibili alle punte di intensa attività.

La Suprema Corte, pur dando conto degli orientamenti giurisprudenziali più recenti secondo i quali le punte di intensa attività non fronteggiabili con il ricorso al normale organico sono assistite da un grado di specificità sufficiente a soddisfare il requisito di forma del contratto di somministrazione sancito dall'art. 21, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003 (Cass. 3 aprile 2013, n. 8120, Cass. 21 febbraio 2012, n. 2521), ha rigettato tale motivo di impugnazione, ritenendo che l'utilizzatore non avesse fornito prova dell'effettiva esistenza delle ragioni giustificative, in caso di contestazione, così come avvenuto nella specie.

Con ulteriore motivo, la società ricorrente lamentava che la sentenza impugnata non avesse applicato, sotto il profilo risarcitorio, il disposto di cui all'art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, al contratto di somministrazione di manodopera a termine irregolare.

La Suprema Corte ha accolto tale motivo, osservando che si tratta di problematica affrontata già in recenti pronunce giurisprudenziali (vedi Cass. 29 maggio 2013, n. 13404; Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148) con le quali si è patrocinata un'interpretazione della norma di tipo sostanzialista, che contempla l'inclusione nel suo raggio di applicazione, sia del lavoro somministrato che di quello temporaneo.

A parere della Corte, l'opzione ermeneutica seguita negli arresti giurisprudenziali sopra richiamati, muove da una esegesi letterale della legge n. 183/2010, art. 32, comma 5, alla cui stregua nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore stabilendo un'indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

La norma richiama, secondo la Corte, "in senso ampio l'istituto del contratto di lavoro a tempo determinato, con formulazione unitaria, indistinta e generale adoperandosi la locuzione "casi" di "conversione del contratto a tempo determinato" non associata all'indicazione di normativa specifica di riferimento, né al riferimento ad ulteriori elementi selettivi.

Ciò che, quindi, rileva al fine della verifica della applicazione della norma considerata, è la ricorrenza del duplice presupposto della natura a tempo determinato, del contratto di lavoro e della sussistenza di un momento di "conversione" del contratto medesimo".

L'ampiezza della formula utilizzata dalla norma e la mancanza di ulteriori precisazioni da parte del legislatore, rende irrilevante, secondo la Corte di cassazione, che in alcuni di questi casi, la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato sia preceduta da una conversione soggettiva del rapporto. La disposizione richiede, infatti, a parere della Corte, "solo che si sia in presenza di uno dei "casi di conversione del contratto a tempo determinato", espressione che non esclude che fenomeno di conversione possa avvenire nei confronti dell'utilizzatore effettivo della prestazione, né che possa essere l'effetto sanzionatorio di un vizio concernente il contratto di fornitura".

In altre pronunce giurisprudenziali è stato inoltre rimarcato che il legislatore è intervenuto sulla legge n. 183/2010, art. 32, comma 5, con una norma interpretativa, la legge 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, secondo cui "La disposizione di cui alla legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro" (vedi Cass. 29 maggio 2013, n. 13404).

Tale locuzione appare pregnante e decisiva, secondo la Suprema Corte, ai fini della soluzione della questione qui dibattuta, in quanto l'utilizzazione del termine "ricostituzione" indica che il concetto di conversione comprende non solo provvedimenti di natura dichiarativa, ma anche di natura costitutiva, quale quello previsto dal D.Lgs. n. 276/2003, art. 27, con riferimento alla somministrazione irregolare.

La Corte di cassazione ha cassato, quindi, la sentenza impugnata relativamente al profilo risarcitorio, rinviando alla Corte d'appello in diversa composizione al fine di liquidare ai sensi della cit. legge n. 183/2010, art. 32, comma 5, come autenticamente interpretato dalla legge n. 92/2012, art. 1, comma 13 il pregiudizio subito dal lavoratore, mediante un'indennità omnicomprensiva in misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella legge n. 604/1966, art. 8.



Illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda

Cass., sez. lav., 17 settembre 2014, n. 19606

Pres. Roselli; Rel. Ghinoy; P.M. Celeste; Ric. T.I. Spa; Contr. M.V., M.M. e M.G.

Lavoro subordinato - Trasferimento di ramo d'azienda - Cessione dei rapporti di lavoro all'acquirente - Illegittimità - Conseguenze - Diritto dei lavoratori al risarcimento del danno - Detraibilità dell'aliunde perceptum - Fattispecie

Il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive nel quale l'erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un'eccezione, che deve essere oggetto di un'espressa previsione di legge o di contratto, ciò che avviene ad esempio nei casi del riposo settimanale (art. 2108 c.c.) e delle ferie annuali (art. 2109 c.c.).

In difetto di un'espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa dà luogo, anche nel contratto di lavoro, a una scissione tra sinallagma genetico (che ha riguardo al rapporto di corrispettività esistente tra le reciproche obbligazioni dedotte in contratto) e sinallagma funzionale (che lega invece le prestazioni intese come adempimento delle obbligazioni dedotte) che esclude il diritto alla retribuzione-corrispettivo e determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni.

Proprio perché si tratta di un risarcimento del danno - ed in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare - soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che dev'essere detratto l'aliunde perceptum che il lavoratore può aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa.

Nota - Il caso in esame trae spunto da una sentenza del Tribunale di Roma con la quale era stata dichiarata l'inefficacia della cessione del ramo di azienda al quale erano addetti tre lavoratori e conseguentemente condannata la società cedente a ripristinare i rapporti di lavoro.

Non avendo la società ottemperato al suddetto ordine, i tre lavoratori, che nel frattempo avevano continuato a lavorare per la società cessionaria, ottenevano dal Tribunale decreti ingiuntivi per il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di cessione del contratto di lavoro fino alla domanda.

La Corte d'appello di Roma, successivamente adita dai tre lavoratori a seguito dell'accoglimento da parte del Tribunale dell'opposizione proposta dalla società, accoglieva l'appello, precisando che a seguito della sentenza con cui viene dichiarata l'illegittimità del trasferimento d'azienda con i connessi rapporti di lavoro, questi devono intendersi ricostituiti ex tunc alle dipendenze del cedente, con conseguente diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla sentenza medesima, senza possibilità di detrazione dell'aliunde perceptum che opera solo ai fini della quantificazione del danno risarcibile.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione deducendo che il diritto alla retribuzione è collegato allo svolgimento della prestazione, mentre qualora questa non venga richiesta e resa il lavoratore ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno, con detrazione dell'aliunde perceptum.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso affermando che l'obbligazione del cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, deve essere qualificata come risarcimento del danno, con la conseguente detraibilità dell'aliunde perceptum.

In particolare, la Corte, richiamando un principio ormai consolidato, ha precisato che il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive nel quale l'erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro costituisce un'eccezione, che deve essere oggetto di un'espressa previsione di legge o di contratto, ciò che avviene ad esempio nei casi del riposo settimanale (art. 2108 c.c.) e delle ferie annuali (art. 2109 c.c.).

In difetto di un'espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa dà luogo, anche nel contratto di lavoro, a una scissione tra sinallagma genetico (che ha riguardo al rapporto di corrispettività esistente tra le reciproche obbligazioni dedotte in contratto) e sinallagma funzionale (che lega invece le prestazioni intese come adempimento delle obbligazioni dedotte) che esclude il diritto alla retribuzione-corrispettivo e determina a carico del datore di lavoro che ne è responsabile l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni.

Proprio perché si tratta di un risarcimento del danno - e in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare - soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che dev'essere detratto l'aliud perceptum che il lavoratore può aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa.



Sulla qualifica dirigenziale

Cass., sez. lav., 3 ottobre 2014, n. 20949

Pres. Stile; Rel. Bandini; P.M. Celeste; Ric. C.A.A.; Res. P. Spa

Lavoro subordinato - Qualifica dirigenziale - Presupposti - Autonomia e discrezionalità decisionale

Il tratto caratterizzante della figura del dirigente è rappresentato dall'esercizio di autonomia e discrezionalità decisionale, col solo limite delle direttive generali dell'imprenditore.

Nota - La Corte d'appello di Perugia, riformando la sentenza di primo grado, negava il diritto del ricorrente alla qualifica dirigenziale ed alle conseguenti differenze retributive richieste.

La Corte territoriale, in particolare, evidenziava che alla luce delle disposizioni della contrattazione collettiva, il discrimine tra la qualifica di quadro con funzioni direttive, rivestita dal lavoratore, e quella di dirigente, richiesta in giudizio, era da ravvisarsi nell'autonomia e discrezionalità decisionale, soggetta alle direttive generali dell'imprenditore.

Ciò detto, la sentenza rilevava che il Tribunale aveva erroneamente riconosciuto al ricorrente la qualifica dirigenziale sul presupposto di circostanze meramente formali, ossia l'assegnazione al lavoratore della direzione tecnica e della direzione commerciale della società.

Tale assegnazione, tuttavia, non era stata accompagnata dall'attribuzione di un autonomo potere decisionale, tenuto conto del preminente ruolo dell'amministratore unico in ogni settore ed il suo costante impegno nella conduzione dell'azienda, che, oltretutto, era caratterizzata da un ristretto ambito dimensionale.

La Corte evidenziava che dall'istruttoria era infatti emerso che le mansioni del lavoratore erano caratterizzate da autonomia ed iniziative settoriali, ma pur sempre sotto la direzione dell'amministratore e che tale circostanza deponeva inequivocabilmente per il suo corretto inquadramento nella categoria di quadro.

Avverso la decisione della Corte d'appello il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, mentre la società non svolgeva attività difensiva. La Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ribadendo, anzitutto, il consolidato orientamento in base al quale nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè dall'accertamento in fatto dell'attività lavorativa in concreto svolta, dall'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.

Dopodiché, la pronuncia ha evidenziato che l'accertamento delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini del suo inquadramento in una determinata categoria di lavoratori, costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito e, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 1° settembre 2003, n. 12744).

Ciò chiarito, la Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, evidenziando che la decisione di secondo grado, in applicazione del procedimento logico-giuridico di cui sopra, aveva correttamente interpretato le risultanze istruttorie, che escludevano l'attribuzione al ricorrente di un potere autonomo ampiamente discrezionale in grado di incidere sull'andamento dell'intera azienda o di un suo settore produttivo, che, per l'appunto, costituisce il tratto distintivo della figura del dirigente (Cass. 11 luglio 2007, n. 15489).

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