Contenzioso

Il requisito dell'autonomia nel trasferimento di ramo di azienda

di Alberto De Luca e Giulia Ambrosino

Con la sentenza del 31 ottobre 2014, n. 23208 la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma la quale aveva riformato la pronuncia del Tribunale della stessa sede, dichiarando l'inefficacia, nei confronti della lavoratrice, del trasferimento di ramo d'azienda, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro con la prima indipendentemente dell'atto traslativo. La Corte territoriale condannava, dunque, la cedente a riammettere la dipendente nel posto di lavoro e a pagarle la retribuzione medio tempore maturata, dedotto quanto già percepito dalla cessionaria. Avverso la pronuncia della Corte di Appello, la cedente ha proposto ricorso per cassazione e la lavoratrice ha resistito con controricorso.


Motivazioni della sentenza
Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente ha denunciato il vizio di motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha trascurato che l'avere la dipendente impugnato il trasferimento solo dopo due anni e mezzo e l'avere proseguito l'attività lavorativa presso la cessionaria dimostrano il suo tacito assenso, per fatti concludenti, alla cessione del rapporto e all'interruzione del rapporto con la cedente. La Corte ha ritenuto tale motivo di ricorso infondato. In ossequio ad un recente e consolidato orientamento giurisprudenziale, la Suprema Corte ha argomentato che il ritardo, ancorché considerevole, con cui un lavoratore faccia valere in giudizio le proprie ragioni è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, risoluzione quest'ultima che potrebbe configurarsi solo in caso di accertamento di una chiara e comune volontà delle parti in tal senso (cfr. Cass. 9583/11). Nel caso di specie, la sentenza ha escluso che il tempo decorso prima dell'inizio dell'azione giudiziale dimostri un tacito mutuo consenso alla risoluzione del rapporto con la cedente. Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 cod. civ. per avere la Corte d'Appello dichiarato l'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda a causa dell'asserita carenza del requisito della preesistente autonomia del medesimo ramo. La Suprema Corte ha affermato che la motivazione del Giudice di secondo grado non è censurabile in quanto rispettosa del principio di diritto per cui non è sufficiente - ai fini della preesistente autonomia del ramo d'azienda ceduto - un'aggregazione di personale e strutture effettuata ad hoc, proprio in vista della cessione, ma occorre la preesistenza d'un loro stabile collegamento funzionale (cfr. Cass. 19842/03). Nel caso de quo, la divisione oggetto della cessione era stata sottoposta ad un apposito processo di riorganizzazione finalizzato a renderla autonoma, peraltro inserendovi lavoratori (tra i quali la controricorrente) muniti di professionalità e competenze senza i quali il ramo non sarebbe stato sufficientemente autonomo. Con l'ultimo motivo di ricorso, la società ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione di norme imperative per non avere la lavoratrice impugnato in sede di appello le presunte violazioni dell'art. 2103 cod. civ., bensì del solo art. 2112 cod. civ. Anche tale motivo, ad avviso della Suprema Corte, è da ritenersi infondato. Sul punto, il Giudice di legittimità ha ritenuto non comprensibile il principio di diritto in base al quale la lavoratrice possa dolersi solo di un trasferimento non conforme all'art. 2103 cod. civ. e non possa, invece, censurare un trasferimento di ramo d'azienda privo del requisito della preesistente autonomia di cui all'art. 2112 cod. civ. Il ricorso è stato pertanto rigettato, con spese di giudizio a carico della società soccombente.

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