Contenzioso

Contratto a termine valido se il dipendente non ricorre subito e accetta altri impieghi

di Gina Rosamarì Simoncini

Appare interessante analizzare una recente sentenza della Suprema corte (numero 20605/2014) in merito al riconoscimento della nullità del termine apposto ad un contratto a tempo determinato. Nella fattispecie, il lavoratore adiva il tribunale di Milano con l'obiettivo di chiedere la nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro con Poste Italiane, stipulato grazie alle cosiddette “esigenze eccezionali” e rivendicava l'esistenza del classico e tanto agognato contratto a tempo indeterminato.

I motivi addotti, a suffragio e in accoglimento della domanda, andavano collocati nel periodo temporale di riferimento poiché il contratto a tempo determinato intercorreva tra le parti dal 17 luglio del 1998 a tutto il mese di settembre dello stesso anno. La situazione mostra delle complessità. Infatti, ai sensi dell'articolo 8 era concessa la facoltà alle Poste Italiane di assumere personale a tempo determinato, in ossequio alle disposizioni contenute nelle leggi 230/1962 e 56/1987 e successive modificazioni ed integrazioni.

In virtù dell'articolo 8, comma 2, del Ccnl del 1994, veniva garantita la possibilità di stipulare contratti a termine anche per necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre; qualora vi fossero incrementi di attività in dipendenza di eventi eccezionali o esigenze produttive particolari e di carattere temporaneo, non soddisfabili con il normale organico, ed infine nel caso in cui aumentasse la richiesta di personale a fronte dell'intensa attività stagionale. Ciò in ragione della trasformazione giuridica dell'ente e della conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli aspetti occupazionali dell'ente stesso.

Detto questo, appare opportuno spiegare che l'accordo collettivo a cui si fa riferimento era stato sottoscritto il 26 novembre 1994, integrato nel 1997, ma valido, in relazione all'articolo 8 e sulla base dell'accordo integrativo, circa la possibilità di stipula del contratto a termine con la causale,solo fino al 30 aprile 1998. Pertanto, risulterebbe chiaro e condivisibile che il termine apposto al contratto del lavoratore era ed è da ritenersi nullo poiché stipulato oltre il termine della scadenza.

In realtà, la causa oggetto di interesse muove e si dirama sulla base di ben altri presupposti.
Ed invero, sebbene il tribunale, nella prima fase di giudizio, aveva dato ragione al lavoratore, la Corte di merito e poi, sulla medesima scia, la Suprema corte, stabilivano che il contratto era da intendersi risolto per mutuo consenso tacito delle parti, ex articolo 1372 del codice civile, a fronte dell'interpretazione di tutte le circostanze del caso nel loro complesso.

Ciò che veniva principalmente contestato al lavoratore era la sua inerzia poiché, a seguito della risoluzione del rapporto, non insisteva giudizialmente per vedere riconosciuto il proprio diritto a un lavoro a tempo indeterminato, anzi intraprendeva altri e ulteriori rapporti lavorativi, intesi quali “adesione alla definitiva dismissione del diritto a far valere la nullità del termine”.

In aggiunta, andava rilevato che il lavoratore aveva instaurato il giudizio solo nel 2002, quindi, molto tempo dopo la conclusione del rapporto lavorativo e che tale procedimento si era estinto per inattività delle parti stesse, per poi instaurarne un altro nel 2005, sette anni dopo la cessazione del contratto.

La Suprema corte, pertanto, ribadiva l'esistenza di comportamenti e circostanze di fatto idonei a integrare la manifestazione consensuale tacita di risolvere il rapporto di lavoro, non essendo di per sé sufficiente il solo trascorrere del tempo o l'inoperatività prolungata del rapporto di lavoro.

Tali circostanze, ben espresse dalla Corte di merito, venivano altresì definite come “iniziative incompatibili” con la volontà riparatoria addotta dal lavoratore, atta a ricostituire il rapporto di lavoro, come ad esempio il fatto di aver prestato servizio presso altri datori di lavoro negli anni successivi, l'aver volutamente instaurato un giudizio per poi vederne la cancellazione, il non aver posto in essere comportamenti omissivi o commissivi in relazione alla propria situazione.

In conclusione, il quadro emerso è caratterizzato dal disinteresse del lavoratore al rapporto di lavoro, oggetto del contendere, sia per avere intrapreso altre attività nel tempo sia per aver lasciato estinguere un precedente giudizio avente come oggetto la medesima circostanza; in virtù di questo, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore e compensato le spese tra le parti.

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