Contenzioso

Rassegna della Cassazione 18 - 29 luglio 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento e omessa comunicazione al datore di indagini penali

Patto di conglobamento di più voci retributive

Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno

Malattia e maturazione delle ferie

Licenziamento e omessa comunicazione al datore di indagini penali

Cass., sez. lav., 18 luglio 2014, n. 16484

Pres. Lamorgese; Rel. Di Cerbo; P.M. Servello; Ric. B. Spa; Contr. S.G.

Licenziamento individuale - Omessa comunicazione da parte del lavoratore al datore di lavoro di indagini penali a suo carico - Giustificato motivo soggettivo - Insussistenza

Nell'ipotesi caso in cui un lavoratore sia sottoposto ad un'indagine penale per fatti estranei all'attività lavorativa, egli non è tenuto ad informarne il proprio datore di lavoro. I principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto possono, al più, imporre al lavoratore un onere di informazione nei confronti del datore di lavoro solo a seguito del rinvio a giudizio.

Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Repechage - Onere per il lavoratore di indicare specificatamente posizioni di lavoro alternative - Insussistenza - Onere per il datore di lavoro di provare l'impossibilità di un impiego diverso per il lavoratore - Sussistenza

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro provare l'impossibilità del cd. repechage del lavoratore mentre a quest'ultimo, in ossequio ad un dovere di collaborazione, compete unicamente di allegare elementi in fatto utili ad individuare una sua possibile ricollocazione, tenuto conto che il prestatore non è tenuto a conoscere i dettagli dell'organizzazione aziendale e, quindi, l'esistenza di posizioni di lavoro analoghe a quelle dallo stesso occupate.

Nota - La Corte di appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato da un'azienda ad un proprio dipendente, ordinando, per l'effetto, la reintegrazione del lavoratore nel suo posto di lavoro e condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura corrispondente alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento alla reintegra.

Il recesso era stato intimato in quanto era apparso, sulla pagina locale di un quotidiano sardo, un articolo che riferiva di un'indagine in corso della magistratura sulla persona del lavoratore; a seguito della pubblicazione, il datore di lavoro aveva, inizialmente, sospeso cautelativamente il prestatore e, successivamente, lo aveva licenziato per giustificato motivo in quanto la diffusione della notizia a mezzo stampa aveva creato una situazione di sfiducia nei rapporti con l'azienda.

La Corte territoriale, nell'accogliere la domanda del lavoratore, aveva ritenuto che al dipendente non era stato contestato alcun addebito disciplinare e che nella lettera di licenziamento si faceva riferimento a due distinte ragioni. La prima (pubblicazione su un quotidiano locale di un articolo che riferiva di un'indagine della Procura della Repubblica di Oristano sul conto del lavoratore), configurava un giustificato motivo oggettivo, basato sull'assunto della sopravvenuta inidoneità del dipendente a ricoprire il ruolo assegnatogli in azienda quale effetto della divulgazione a mezzo stampa della notitia criminis, in relazione al quale la società non aveva, peraltro, dimostrato di non poter assegnare il lavoratore ad altre mansioni. La seconda ragione (il silenzio serbato dal lavoratore con l'azienda sulla vicenda giudiziaria nella quale era coinvolto), prospettava, invece, un'ipotesi di giustificato motivo soggettivo, in merito al quale, però, al dipendente non era stata contestata alcuna violazione degli obblighi lavorativi, anche considerato che non era previsto alcun onere, in capo al lavoratore, di comunicare al proprio datore di lavoro il verificarsi di fatti estranei alla prestazione lavorativa; né poteva configurarsi un'ipotesi di "notevole inadempimento" ex art. 3, legge n. 604/1966, atteso che i fatti per i quali era stata avviata l'indagine dalla Procura della Repubblica erano avvenuti prima dell'assunzione del lavoratore.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione denunciando, con il primo motivo, che la Corte territoriale, con riguardo al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, non avesse adeguatamente valutato la circostanza che il lavoratore non aveva allegato l'esistenza di mansioni alternative cui essere assegnato.

La Corte di cassazione ritiene il motivo infondato, in quanto evidenzia che, per orientamento costante della sezione (Cass. 8 novembre 2013, n. 25197), in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'accertamento di un possibile repechage per il lavoratore, impone al datore di lavoro di provare l'impossibilità del reimpiego in azienda del prestatore, mentre l'onere di collaborazione che incombe su quest'ultimo non deve essere inteso rigidamente, con la conseguenza che è sufficiente per il prestatore di lavoro, fornire elementi utili ad individuare l'esistenza di posizioni idonee ad una sua possibile diversa collocazione, tenuto conto che il lavoratore non può (o comunque non è tenuto a) conoscere i dettagli dell'organizzazione aziendale e quindi l'eventuale esistenza di posizioni di lavoro analoghe a quelle dallo stesso occupate. In tale senso la decisione della Corte territoriale, a parere dei giudici di legittimità, è pienamente in linea con i suddetti principi avendo la stessa considerato che il lavoratore aveva dedotto di aver svolto mansioni di responsabile commerciale in aree diverse dalla Sardegna, deduzione che sempre a parere dei supremi giudici soddisfa l'onere di allegazione posto a carico del lavoratore. Altrettanto infondata è per la S.C. la doglianza avanzata dalla società sulla sussistenza del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, tenuto conto che, a parere della Corte, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, l'obbligo per il lavoratore di informare il datore di lavoro di eventuali procedimenti penali a suo carico concernenti fatti estranei al rapporto di lavoro può essere configurabile, tutt'al più, solo in seguito ad un rinvio a giudizio. Infine, è infondata anche la censura relativa alla errata valutazione dell'aliunde perceptum, atteso che agli atti del processo era stato acquisito il certificato rilasciato dal competente Centro per l'impiego dal quale risultava lo stato di disoccupazione del lavoratore dalla data del licenziamento alla effettiva reintegra. Con l'ulteriore corollario che il lavoratore, una volta assolto l'onere di proporre tempestivamente il ricorso teso ad ottenere l'annullamento del licenziamento, non è soggetto ad ulteriori oneri di diligenza, come la ricerca di una nuova occupazione, i quali eccedono l'ambito del dovere di cooperazione che la parte deve prestare, nell'esercizio del proprio diritto, per evitare danni alla controparte.




Patto di conglobamento di più voci retributive

Cass., sez. lav., 23 luglio 2014, n. 16710

Pres. Lamorgese; Rel. Maisano; Ric. P.G.; Controric. A. Srl

Lavoro - Lavoro subordinato - Retribuzione - Determinazione - In genere - Patto di conglobamento nei compensi ordinari di corrispettivi ulteriormente dovuti per legge o per contratto - Validità - Condizioni - Specificazione dei vari titoli - Necessità - Fondamento

Non è valido il patto di conglobamento di tutte le voci retributive in una somma complessiva da erogarsi mensilmente, senza che sia specificato l'importo da erogare per ciascuna voce retributiva, in quanto il patto di conglobamento in una determinata indennità di compensi ulteriormente dovuti al prestatore di lavoro subordinato per legge o per contratto (quali il compenso per lavoro straordinario) può essere ammesso solo se dal patto stesso risultino gli specifici titoli cui è riferibile il compenso in questione, poiché solo in tal caso si rende superabile la presunzione che il compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria o di diversa indennità specificamente indicata e si rende possibile il controllo giudiziale circa l'effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto.

Nota - La sentenza in esame trae spunto dal caso di un lavoratore che richiedeva al giudice del lavoro il riconoscimento di alcune differenze retributive. Con sentenza del 2011 la Corte d'appello di Perugia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Spoleto, riteneva che l'indennità di trasferta, concordata in misura notevolmente superiore a quella prevista dal Ccnl di categoria, avesse natura anche retributiva, oltre che indennitaria, e comprendesse, quindi, anche il compenso per il lavoro straordinario.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione lamentando, in particolare, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al riconoscimento della sussistenza di un patto di conglobamento teso a ricomprendere nella cd. indennità di trasferta anche il compenso per il lavoro straordinario del lavoratore.

La Suprema Corte ha accolto tale ricorso sulla scorta dell'orientamento consolidato di legittimità, secondo il quale: "non è valido il patto di conglobamento di tutte le voci retributive in una somma complessiva da erogarsi mensilmente, senza che sia specificato l'importo da erogare per ciascuna voce retributiva, in quanto il patto di conglobamento in una determinata indennità di compensi ulteriormente dovuti al prestatore di lavoro subordinato per legge o per contratto (quali il compenso per lavoro straordinario) può essere ammesso solo se dal patto stesso risultino gli specifici titoli cui è riferibile il compenso in questione, poiché solo in tal caso si rende superabile la presunzione che il compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria o di diversa indennità specificamente indicata e si rende possibile il controllo giudiziale circa l'effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto (cfr. Cass. n. 8097/2002; Cass. n. 10395/1998; Cass. n. 7696/1996)". A parere della Corte di cassazione, la Corte d'appello, nel far ricorso all'opposto principio della presunzione, aveva operato un'errata interpretazione del suddetto principio di diritto. Secondo la Suprema Corte, infatti, in mancanza della prova di un patto di conglobamento, la retribuzione corrisposta dal datore di lavoro ad un determinato titolo, come, nel caso di specie, l'indennità di trasferta, deve imputarsi a tale titolo corrispondente, con conseguente non ascrivibilità degli eventuali trattamenti superiori ai minimi contrattuali ad altri istituti accessori.

La Suprema Corte ha cassato, quindi, la sentenza impugnata disponendo il rinvio ad altra Corte d'appello per l'applicazione del principio di diritto sopra indicato.




Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno

Cass., sez. lav., 25 luglio 2014, n. 17006

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; P.M. Matera; Ric. M.B., M.B.; Res. A.G. Spa, U. Spa, N.S. Spa

Infortunio sul lavoro - Risarcimento del danno - Danno non patrimoniale dei congiunti - Iure proprio - Necessità di allegazione e prova

Ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento del danno subito a causa della uccisione di un prossimo congiunto in un infortunio sul lavoro è necessario che il pregiudizio prospettato venga compiutamente descritto e che ne vengano comunque allegati e provati gli elementi costitutivi.

Nota - La Corte d'appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno subito dai ricorrenti per effetto del decesso del loro fratello, avvenuto in seguito ad un infortunio sul lavoro.

La Corte, in particolare, rilevava l'assenza di allegazione e prova dei danni richiesti, che, a dire dei ricorrenti, sarebbero invece sussistenti in re ipsa per effetto del puro e semplice legame di parentela che li univa al defunto.

Avverso la decisione della Corte d'appello i fratelli del lavoratore proponevano ricorso per Cassazione, mentre la società resisteva con controricorso.

I ricorrenti, in particolare, ribadivano la tesi della sussistenza in re ipsa dei danni non patrimoniali richiesti, quale effetto del puro e semplice rapporto di parentela, o comunque della loro facile presumibilità, che genererebbe l'inversione dell'onere della prova.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando il consolidato orientamento in base al quale ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento del danno subìto a causa dell'uccisione di un prossimo congiunto è necessario che il pregiudizio prospettato venga compiutamente descritto e che ne vengano comunque allegati e provati gli elementi costitutivi (v. Cass. 17 luglio 2012, n. 12236 e Cass., S.U., 16 febbraio 2009, n. 3677).

Ciò detto, la sentenza ha altresì precisato che nella liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione di un familiare deve tenersi conto dell'intensità del relativo vincolo e di ogni ulteriore circostanza, allegata e provata dagli interessati, quali la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita e frequentazione, l'età della vittima e dei superstiti, nonché, laddove si tratti di soggetti non appartenenti alla cd. famiglia nucleare, l'eventuale convivenza, da intendersi quale connotato minimo attraverso il quale si esteriorizza l'intimità delle relazioni di parentela, contraddistinte da reciproci legami affettivi, solidarietà e sostegno economico.

Dopodiché, la Cassazione ha chiarito che solo in presenza di un'adeguata allegazione fattuale di tali elementi si può eventualmente utilizzare la prova presuntiva per affermare l'esistenza del danno non patrimoniale (Cass. 19 novembre 2009, n. 24435).




Malattia e maturazione delle ferie

Cass., sez. lav., 29 luglio 2014, n. 17177

Pres. Roselli; Rel. Tria; P.M. Corasaniti; Ric. F. Spa; Contr. R.G.

Lavoro subordinato - Diritto alle ferie - Fondamento - Legale sospensione del rapporto per malattia - Impedimento alla maturazione del diritto alle ferie - Configurabilità - Esclusione - Determinazione della durata delle ferie da parte dell'autonomia privata - Limiti

Il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall'art. 36 Cost., è ricollegabile non solo a una funzione di corrispettivo dell'attività lavorativa, ma - come riconosciuto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 616/1987 e n. 158/2001 - altresì al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale - a prescindere dalla effettività della prestazione - mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro; da ciò consegue che la maturazione di tale diritto non può essere impedita dalla sospensione del rapporto per malattia e che la stessa autonomia privata, nella determinazione della durata delle ferie ex art. 2109, capoverso, c.c., trova un limite insuperabile nella necessità di parificare ai periodi di servizio quelli di assenza per malattia.

Nota - La Corte d'appello diMilano confermava la sentenza del giudice di primo grado con cui era stato dichiarato illegittimo l'art. 10 del Ccnl del 12 marzo 1980 per i dipendenti del settore autoferrotranviario, laddove disponeva la diminuzione proporzionale del monte ferie in relazione ai periodi di malattia superiori a 180 giorni.

In particolare la Corte di appello ribadiva il principio assolutamente acquisito secondo cui la maturazione del diritto alle ferie non può essere impedita dalla sospensione del rapporto per malattia, precisando che tale principio, inderogabile, non può certamente essere disatteso dalla contrattazione collettiva, né viene disatteso dall'articolo 10 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 il quale, nel confermare l'applicazione dell'articolo 2109 c.c., autorizza i contratti collettivi soltanto a prevedere condizioni di miglior favore per i lavoratori.

Avverso tale pronuncia la società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2109 c.c. in relazione all'art. 10 del Ccnl sopra richiamato. Secondo l'assunto della ricorrente, la norma contrattuale si ispirerebbe, infatti, al principio di proporzionalità tra lavoro prestato e ferie da godere sancito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 66/1963 con riferimento soltanto al primo anno di lavoro presso lo stesso datore e, pertanto, chiedeva alla Corte di stabilire se l'art. 2109 c.c., nella parte in cui non si riferisce alla maturazione delle ferie nel corso del primo anno di lavoro (già tacciata di illegittimità costituzionale), legittimi la fruizione delle ferie da parte dei dipendenti comunque in proporzione al lavoro effettivamente prestato, a prescindere dalle cause che hanno portato all'assenza dal lavoro.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte di cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso del datore di lavoro, ha ribadito un principio di diritto già affermato dalle sezioni unite (Cass., Ss.Uu., 12 novembre 2001, n. 14020), secondo il quale il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall'articolo 36 della Costituzione, è ricollegabile non solo a una funzione di corrispettivo dell'attività lavorativa, ma come riconosciuto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 616/1987 e n. 158/2001 altresì al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale a prescindere dalla effettività della prestazione mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può veder tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro; da ciò consegue che la maturazione di tale diritto non può essere impedita dalla sospensione del rapporto per malattia e che la stessa autonomia privata, nella determinazione della durata delle ferie ex articolo 2109, capoverso, del codice civile, trova un limite insuperabile nella necessità di parificare ai periodi di servizio quelli di assenza per malattia.

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