Contenzioso

Rassegna della Cassazione - 17 giugno - 4 luglio 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mobilità e criteri di scelta

Giusta causa di dimissioni

Qualificazione del rapporto di lavoro

Indennizzo per infortunio in itinere

Mobilità e criteri di scelta

Cass., sez. lav., 4 luglio 2014, n. 15371

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Servello; Ric. P.I. Spa; Controric. R.A.

Licenziamenti collettivi - Criteri di scelta - Requisiti - Oggettività ed assenza di discrezionalità - Necessità

I criteri di scelta individuati negli accordi sindacali devono essere integralmente oggettivi e consentire di formare una graduatoria rigida che possa essere controllata, non potendo sussistere un margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro.

Possesso requisiti pensionistici - Criterio ammissibile se sufficiente ad individuare i lavoratori da licenziare in modo univoco

Il criterio di scelta per la collocazione in mobilità consistente nel possesso dei requisiti per il collocamento in pensione, astrattamente legittimo, diviene illegittimo quando, nella sua concreta applicazione, risulta insufficiente ad individuare in maniera univoca i dipendenti da licenziare perché'coloro che si trovano in tale situazione sono più numerosi dei lavoratori da collocare in mobilità.

Nota - La Corte d'appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado con cui era stata dichiarata l'inefficacia del licenziamento collettivo per incompletezza della comunicazione di avvio della procedura nonché per violazione dei criteri di scelta. In particolare, la Corte territoriale ha evidenziato che il criterio del possesso dei requisiti pensionistici, concordemente ritenuto dalla giurisprudenza razionalmente adeguato, nel caso concreto aveva implicato l'esercizio di un potere discrezionale da parte del datore, essendo emerso che nell'ufficio della ricorrente vi erano altri dipendenti in possesso dei suoi stessi requisiti pensionistici non collocati in mobilità. Conseguentemente la società era stata condannata alla reintegra ed al risarcimento del danno. Avverso tale decisione l'azienda ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, di cui l'ultimo viene dichiarato inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

Con il primo motivo si lamenta che la Corte territoriale abbia contraddittoriamente prima affermato l'esaustività della comunicazione di avvio della procedura per poi dichiarare che il solo criterio della prossimità a pensione non fosse sufficiente. Con il secondo motivo ci si duole che sia stato disatteso il consolidato principio giurisprudenziale per cui il possesso dei requisiti pensionistici rappresenta un criterio di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità conforme al principio di ragionevolezza e non discriminazione.

La Cassazione analizza congiuntamente i due motivi e li respinge entrambi rilevando la piena adesione della sentenza impugnata agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamenti collettivi. In particolare con la prima massima si ribadisce che i criteri concordati con i sindacati possono essere diversi da quelli legali, ma devono essere parimenti oggettivi e non basati sulla discrezionalità, in quanto, diversamente, non sarebbero verificabili e aprirebbero la strada a possibili trattamenti discriminatori e non ragionevoli (Cass. n. 12544/2011; Cass. n. 6765/2002; Cass. n. 14728/2006; Cass. n. 6841/2010). Nella seconda massima viene analizzato lo specifico criterio, frequentemente utilizzato negli accordi sindacali, del possesso dei requisiti pensionistici. Ribadendo la sua teorica ammissibilità anche come criterio unico, la Suprema Corte sottolinea che esso deve tuttavia consentire di formare una graduatoria rigida, con individuazione degli specifici lavoratori da licenziare anche nella concreta fase applicativa, non potendo residuare margini di discrezionalità viceversa sussistenti qualora la prossimità a pensione riguardi più dipendenti di quanti siano quelli da collocare in mobilità (Cass. n. 12781/2003; Cass. n. 1938/2011). Pertanto, quando nella sua effettiva applicazione l'unico criterio prescelto non sia idoneo ad individuare con obiettività i lavoratori oggetto del provvedimento espulsivo, esso diviene illegittimo se non combinato con altro criterio di selezione interna (Cass. n. 12781/2003).



Giusta causa di dimissioni

Cass., sez. lav., 2 luglio 2014, n. 15079

Pres. Stile; Rel. D'Antonio; P.M. Servello; Ric. G.F.; Controric. W.&J. Srl

Dimissioni - Giusta causa - Invocazione della giusta causa contestualmente al recesso - Necessità - Immediatezza della interruzione della prestazione lavorativa - Necessità

La giusta causa di dimissioni deve essere invocata dal lavoratore contestualmente alla comunicazione del recesso, con la conseguente immediata interruzione della prestazione lavorativa.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione della Corte territoriale adita, che aveva rigettato la pretesa del lavoratore di ottenere il riconoscimento della sussistenza di una giusta causa di dimissioni, circostanza questa dedotta dal lavoratore non contestualmente all'atto del recesso, bensì in un secondo momento. In particolare, come era emerso nel giudizio di merito, il lavoratore, che nel caso di specie rivestiva la qualifica di dirigente, aveva rassegnato le proprie dimissioni riservandosi di precisare successivamente le motivazioni di tale decisione, senza fare dunque riferimento ad alcuna giusta causa in occasione della comunicazione di recesso e, peraltro, proseguendo nello svolgimento della propria prestazione lavorativa. Successivamente, a fronte del ricevimento di una comunicazione datoriale in cui si richiamava l'obbligo di prestare il periodo di preavviso contrattualmente previsto in capo al lavoratore, quest'ultimo inviava una seconda comunicazione al proprio datore di lavoro con cui invocava la sussistenza di una giusta causa di dimissioni, sostenendo di essere nell'impossibilità di proseguire nel rapporto di lavoro, anche per il breve periodo del preavviso dovuto, a causa delle condizioni lavorative di totale isolamento nelle quali si trovava, coronamento delle vessazioni subite, accresciutesi nel tempo.

In relazione a detta fattispecie la Corte territoriale adita aveva osservato come la sussistenza di una giusta causa di dimissioni era stata invocata dal lavoratore solo in un secondo momento rispetto alla comunicazione di recesso dal rapporto di lavoro, sebbene, in base al Ccnl applicato, avrebbe dovuto essere comunicata formalmente al datore di lavoro contestualmente all'atto di recesso e, quindi, in immediata reazione ai presunti fatti imputabili all'azienda, con la conseguente immediata interruzione della prestazione lavorativa. Ciò non era invece accaduto nel caso di specie e solo in occasione di una seconda comunicazione del lavoratore, quest'ultimo aveva invocato la giusta causa di dimissioni, interrompendo la prestazione lavorativa, sino a quel momento proseguita. Secondo la Corte d'appello adita le dimissioni, quale atto unilaterale recettizio, che non richiedono motivazione e che producono effetto dal momento in cui sono comunicate al datore di lavoro, erano state portate a conoscenza di quest'ultimo con la prima lettera di recesso, producendo il conseguente effetto; non essendo in detta lettera richiamata alcuna giusta causa, ma, anzi, avendo il lavoratore continuato a lavorare, la successiva lettera di recesso non avrebbe potuto modificare la natura delle dimissioni rese con la prima comunicazione di recesso, già di per sé produttiva di effetti. La Corte di cassazione, confermando la sentenza del giudice di merito, afferma con la pronuncia in esame che il lavoratore subordinato (qual è anche il dirigente) che recede dal contratto di lavoro non è condizionato ad alcuna formalità di comunicazione della giusta causa, atteso che le formalità di cui all'art. 2, legge n. 604/1966 concernono soltanto il recesso del datore di lavoro; tuttavia, secondo la Suprema Corte, ciò non toglie che non si possa prescindere dalla manifestazione della volontà di dimettersi per giusta causa e che la mancata manifestazione immediata da parte del lavoratore della giusta causa di recesso possa acquistare rilievo negativo nel senso di far escludere quel rapporto di causalità che deve esistere fra giusta causa e recesso (cfr. Cass. n. 1434/1993, Cass. n. 3898/1999 e Cass. n. 23455/2004).

Nel caso di specie tale rapporto di causalità non è sussistito, tenuto conto che la decisione del lavoratore di dimettersi per giusta causa è stata comunicata al datore di lavoro solo in un momento successivo al recesso e a fronte del ricevimento da parte del lavoratore di una lettera datoriale con la quale gli veniva ricordato l'obbligo del preavviso, con ciò palesando che la ragione della invocazione della giusta causa di dimissioni, manifestata solo nella seconda comunicazione del lavoratore, consisteva in realtà in un maldestro tentativo da parte di quest'ultimo di sottrarsi al preavviso.



Qualificazione del rapporto di lavoro

Cass., sez. lav., 30 giugno 2014, n. 14757

Pres. Canevari; Rel. Nobile; P.M. Celeste; Ric. Asl; Controric. P.M. e altri

Autonomia/Subordinazione - Rilevanza del "nomen iuris" - Limiti - Apprezzamento in concreto della natura specifica del rapporto controverso - Necessità

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l'iniziale contratto tra le parti dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime e il nomen iuris non costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile per l'accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto. Ciò vale anche laddove il contratto si riporti ad una norma di legge o ad un accordo o contratto collettivo.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello dell'Aquila che, riformando la pronuncia di primo grado, aveva accolto il ricorso di quattro medici del servizio di emergenza sanitaria, titolari di un rapporto di lavoro autonomo con la Asl di Chieti, accertando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con l'azienda sanitaria in questione, con conseguente diritto dei ricorrenti alle relative differenze retributive. Con uno dei motivi di ricorso l'azienda sanitaria ha dedotto che il rapporto e la natura delle funzioni dei medici del servizio di emergenza sanitaria sono codificati nel sistema degli accordi collettivi nazionali e che, nella specie, la natura del rapporto come "rapporto di lavoro autonomo" era stata specificata ed espressamente accettata dai medici con la sottoscrizione delle lettere di conferimento degli incarichi. Inoltre, a detta della ricorrente, nella sentenza impugnata la presenza di indici sintomatici di un rapporto di lavoro subordinato sarebbe stata affermata in maniera apodittica, non potendosi comprendere da quali elementi probatori acquisiti nel processo potessero essere stati desunti i cd. "indici della subordinazione". Sul punto, la Corte di cassazione ha innanzitutto affermato che "ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l'iniziale contratto dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il nomen iuris non costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile per l'accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole contrattuali e talora la stessa natura del rapporto inizialmente prevista" (v. fra le altre Cass.. n. 16119/2003). Più nello specifico, secondo la Corte, tale principio si applica anche laddove il contratto si riporti ad una norma di legge o ad un accordo o contratto collettivo, dovendo comunque accertarsi se il relativo rapporto, che ne ha recepito la qualificazione, ne abbia avuto poi la effettiva esecuzione, giacché il carattere autonomo o subordinato del rapporto di lavoro deve essere pur sempre accertato sulla base della concreta attuazione del rapporto stesso (cfr. fra le altre Cass. n. 2728/2010, Cass. n. 19271/2009), e tale accertamento di fatto è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da una motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici. Ebbene, nel caso in esame, la Corte territoriale si era correttamente uniformata ai suddetti principi, ritenendo accertata in fatto la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso fra le parti sulla base di una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie documentali e testimoniali, poiché era risultato che i turni di lavoro erano imposti dalla Asl, attraverso i vari responsabili del relativo servizio, i quali esercitavano direttamente un potere direttivo ed organizzativo nei confronti dei medici, nonché un assiduo potere di vigilanza e controllo, arrivando a prospettare anche l'adozione di provvedimenti disciplinari. Inoltre, erano emersi anche tutti gli altri indici sintomatici della subordinazione, quali l'incidenza del rischio economico in capo all'azienda, nella cui organizzazione i medici erano stabilmente inseriti, la forma fissa della retribuzione, la continuità ed esclusività delle prestazioni, lo svolgimento dell'attività lavorativa con mezzi ed ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro e l'osservanza di un rigido orario di lavoro. In conclusione tale motivazione risulta, secondo la Corte di cassazione, senza dubbio congrua e priva di vizi logici, ed è tale da comportare il rigetto del ricorso presentato dalla Asl.



Indennizzo per infortunio in itinere

Cass., sez. lav., 17 giugno 2014, n. 13733

Pres. Vidiri; Rel. Bandini; P.M. Celentano; Ric. M. Spa; Controric. Inail

Lavoro subordinato - Assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali - Infortunio in itinere - Indennizzabilità

La mancanza nel Tu n. 1124/1965 di una generale previsione di tutela dell'infortunio in itinere non esclude l'indennizzabilità di questo qualora sussista una concreta relazione tra l'attività lavorativa ed il rischio al quale il lavoratore è esposto durante il percorso per recarsi al luogo di lavoro o per tornarne, relazione indispensabile a concretare quel "rischio specifico improprio" o "generico aggravato" che rientra nella ratio dell'art. 2 del citato Tu.

Nota - Con un primo ricorso la M. Spa proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso, a richiesta dell'Inail, per il pagamento della somma di lire 313.102.674 per mancato versamento di contributi assicurativi relativi all'anno 1995; con un successivo ricorso la stessa società proponeva opposizione avverso la cartella esattoriale relativa ad un credito dell'Inail di lire 225.241.085 per omesso versamento di premi assicurativi relativi all'anno 1996. Entrambe le richieste dell'Inail traevano origine dall'aumento del tasso percentuale determinato a seguito dell'infortunio in itinere occorso ad un dipendente della società opponente. Riuniti i due giudizi, la Corte di appello di Salerno confermava la sentenza del giudice di primo grado e rigettava le opposizioni. In particolare la Corte osservava che, anche prima della novella di cui all'art. 12, D.Lgs. n. 38/2000, l'infortunio in itinere doveva ritenersi riconducibile nell'ambito del rischio professionale e dell'assicurazione obbligatoria e che, ai fini della determinazione del tasso specifico aziendale, andavano ricomprese anche le prestazioni erogate per gli infortuni in itinere, a prescindere dalla colpa della parte datoriale.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società M. Spa sulla base di tre motivi. Innanzitutto la società denunciava violazione dell'art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 12, D.Lgs. n. 38/2000, evidenziando che l'infortunio in itinere non era ricompreso nell'oggetto dell'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, né vi poteva essere ricondotto, laddove, come nel caso di specie, non sussisteva alcun nesso eziologico tra l'attività lavorativa ed il comportamento del dipendente che aveva fatto uso del mezzo di trasporto privato per il raggiungimento del posto di lavoro.

La Suprema Corte rigettava i motivi di ricorso rilevando quanto segue.

In primo luogo, richiamando la sentenza delle S.U. della medesima Corte n. 3734 del 20 aprile 1994, la Cassazione ha precisato che il nesso di occasionalità con il lavoro, occorrente per l'indennizzabilità dell'infortunio, sia ravvisabile non solo quando l'infortunio avvenga nell'ambito di esecuzione del lavoro ma anche quando il fatto, che abbia determinato l'infortunio, pur non verificandosi in tale ambiente, rientri nell'ambito del lavoro assicurato.

Pertanto, prosegue la Suprema Corte, la mancanza nel Tu n. 1124/1965 di una generale previsione di tutela dell'infortunio in itinere non esclude l'indennizzabilità di questo qualora sussista una concreta relazione tra l'attività lavorativa ed il rischio al quale il lavoratore è esposto durante il percorso per recarsi al luogo di lavoro o per tornarne, relazione indispensabile a concretare quel "rischio specifico improprio" o "generico aggravato" che rientra nella ratio dell'art. 2 del citato Tu.

L'unico limite alla indennizzabilità dell'infortunio in itinere è rappresentato dal cd. "rischio elettivo" che ricorre qualora il lavoratore ponga in essere comportamenti abnormi che, ricollegandosi ad una scelta del medesimo di correre rischi estranei alla necessità di raggiungere il posto di lavoro, interrompono od escludono il nesso di occasionalità dell'infortunio con il rapporto di lavoro (in senso conforme Cass. S.U. 20 aprile 1994, n. 3734; Cass. 22 febbraio 2012, n. 2642; Cass. 10 settembre 2009, n. 19496).

La correttezza di tale impostazione trae conferma dalla novella legislativa di cui al D.Lgs. n. 38/2000, la quale ricomprendendo espressamente la fattispecie dell'infortunio in itinere nell'ambito dell'assicurazione obbligatoria, ha recepito principi giurisprudenziali consolidatisi in materia in relazione all'interpretazione dell'art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965, facendoli assurgere al rango di norma di diritto positivo e, pertanto, ben può costituire criterio interpretativo che illumina anche il regime precedente (cfr. Cass. 6 luglio 2007, n. 15266).

Sulla base delle argomentazioni esposte la Cassazione ha rigettato il ricorso confermando la sentenza gravata.

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