Contenzioso

Rassegna della Cassazione 4 - 25 giugno 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mancata fissazione degli obiettivi aziendali e risarcimento del danno

Premio al dipendente autore di invenzioni industriali

Diritto di sciopero e preavviso

Infortunio sul lavoro e concorso di colpa del lavoratore

Mancata fissazione degli obiettivi aziendali e risarcimento del danno

Cass., sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13959

Pres. Roselli; Rel. Amendola; P.M. Corasaniti; Ric. M.M.; Contr. Aeroporto V.C. V. Spa

Lavoro subordinato - Violazione dell'impegno contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi aziendali - Risarcimento del danno - Automaticità della sua esistenza e del conseguente riconoscimento - Esclusione - Onere probatorio incombente al lavoratore di allegare effettività ed entità del pregiudizio - Sussistenza

L'inadempimento del datore di lavoro per violazione di obblighi derivanti dal contratto è regolato dagli artt. 1218 e 1223 c.c., valendo anche in questo caso la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio. Dall'inadempimento datoriale non deriva perciò automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. Compete a chi se ne duole allegare e provare effettività ed entità del pregiudizio.

Nota - La vicenda in esame trae spunto dal ricorso proposto da un dirigente, volto all'accoglimento, tra le altre, della domanda relativa al risarcimento del danno asseritamene subito a causa della mancata fissazione da parte del datore di lavoro degli obiettivi aziendali, in violazione dell'obbligo contrattualmente previsto.

Il Tribunale di Verona e la Corte d'appello di Venezia rigettavano tale domanda affermando che il lavoratore avrebbe dovuto offrire ulteriori elementi a sostegno del diritto al risarcimento del danno, in modo che si potesse ritenere che, qualora gli obiettivi aziendali fossero stati prefissati, gli stessi sarebbero stati raggiunti.

Avverso tale statuizione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

In particolare, secondo l'assunto del ricorrente, poiché il contratto individuale di lavoro prevedeva espressamente l'impegno da parte della società di fissare annualmente gli obiettivi aziendali, la violazione di tale obbligo avrebbe giustificato di per sé il risarcimento del danno.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso sulla base di un principio di diritto già affermato dalle sezioni unite (Cass., Ss.Uu., 24.3.2006, n. 6572), secondo il quale l'inadempimento del datore di lavoro per violazione di obblighi derivanti dal contratto è regolato dagli artt. 1218 e 1223 c.c., valendo anche in questo caso la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio.

Secondo la Suprema Corte, dunque, il danno non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore, che denunzi il danno subito, l'onere di fornire la relativa prova. L'attribuire una somma di denaro in considerazione del mero accertamento dell'inadempimento da parte del datore di lavoro si configurerebbe, infatti, come una sanzione civile punitiva, estranea al nostro ordinamento.




Premio al dipendente autore di invenzioni industriali

Cass., sez. lav., 25 giugno 2014, n. 14371

Pres. Lamorgese; Rel. Lorito; Ric. S.F.; Controric. T.A.S.T. Spa

Beni - Immateriali - Brevetti - Invenzioni industriali - Del prestatore di lavoro - Invenzione di servizio e invenzione di azienda - Elemento comune - Svolgimento di attività lavorativa volta all'invenzione - Differenza principale - Esplicita previsione o meno di un corrispettivo in caso di invenzione - Onere della prova - A carico del datore di lavoro - Mancata dimostrazione di una preventiva pattuizione economica - Diritto all'equo premio - Sussistenza - Accertamento del giudice di merito - Criteri

Sia l'invenzione di servizio che l'invenzione di azienda - rispettivamente previste nel primo e nel comma 2 dell'art. 23 del R.D. n. 1127/1939 - presuppongono lo svolgimento, da parte del dipendente, di un'attività lavorativa di ricerca volta all'invenzione, mentre l'elemento distintivo tra le due ipotesi risiede principalmente nella presenza o meno di un'esplicita previsione contrattuale di una speciale retribuzione costituente corrispettivo dell'attività inventiva.

L'indagine volta ad accertare l'effettivo dispiegarsi della volontà delle parti, non può operare ex post, quando l'invenzione è stata conseguita, perché con questo criterio si dovrebbe considerare pattuita l'attività inventiva in tutti i casi in cui la prestazione lavorativa abbia dato luogo, comunque, ad un'invenzione, ma secondo un criterio ex ante, sull'effettivo intendimento delle parti, non assumendo al riguardo rilievo la maggiore o minore probabilità che dall'attività lavorativa pattuita, scaturisca l'invenzione, di tal che, ogniqualvolta sia probabile quel risultato, si dovrebbe automaticamente considerare come rientrante nella previsione contrattuale.

Nota - Un lavoratore agiva in giudizio per ottenere il riconoscimento dell'equo premio previsto dal R.D. n. 1127/1939, art. 23, comma 2, in relazione ad otto invenzioni d'azienda realizzate nel corso del rapporto di lavoro.

Il Tribunale respingeva le richieste del dipendente.

La Corte d'appello, successivamente adìta dal lavoratore confermava la sentenza di primo grado, muovendo dal dato letterale del contratto di lavoro e dall'oggetto della prestazione lavorativa che consisteva nello sviluppo da parte del dirigente di nuovi prodotti e/o applicazioni attraverso l'innovazione dei cicli e tecnologia di processo, e nella ideazione e progettazione di prodotti o cicli di fabbricazione complessi. In particolare, la Corte, riteneva che l'attività di invenzione costituisse l'oggetto precipuo delle mansioni dirigenziali ascritte al lavoratore, e che, alla stregua delle disposizioni disciplinanti la materia di cui al R.D. n. 1127/1939, l'elevato trattamento economico complessivo percepito dallo stesso integrasse l'equo premio previsto dal R.D. n. 1127/1939, art. 23, quale speciale retribuzione volta a compensare proprio quella ricerca di un quid novi assunta contrattualmente, di guisa che la relativa pattuizione doveva ritenersi ancorata proprio al particolare impegno richiesto al dirigente, in quanto diretto ad un risultato creativo.

Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra gli altri motivi, violazione del R.D. n. 1127/1939, art. 23, degli artt. 1321, 1346, 1362, 1366 e 2103 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. In particolare, il ricorrente lamentava l'erroneità dell'iter logico-giuridico percorso dalla Corte di merito che, nel ricondurre le mansioni a lui ascritte nell'alveo delle "invenzioni di servizio", aveva omesso l'esame ex ante del contratto di lavoro inter partes, limitando l'analisi del materiale probatorio acquisito a due ordini di servizio del tutto apodittici, e conferendo rilievo al trattamento economico e ad un superminimo definito di notevolissima entità.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo che era stato dimostrato che il risultato inventivo raggiunto dal ricorrente rientrasse tra gli obiettivi prefigurati dalle parti, attraverso le mansioni affidategli, il che spiegava anche il motivo per cui era stato previsto un corrispettivo idoneo a compensare anche un contenuto inventivo dell'attività espletata (L. 155.000.000 annue oltre ad un superminimo che quasi raddoppiava la retribuzione del dirigente).

L'attività dedotta in contratto, a parere della Corte, era, infatti, una attività di progettazione connotata da finalizzazione alla ricerca di soluzioni tecniche di tipo inventivo, coerente con l'applicazione di retti criteri di interpretazione della volontà delle parti contrattuali oltre che con il tenore del dettato normativo di cui al su citato R.D. n. 1127/1939, art. 23, comma 1, che, con riferimento alla ""invenzione di servizio", sancisce che l'attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita".

Nel decidere la fattispecie in esame la Corte ha richiamato principi di ordine generale, sottolineando che il R.D. n. 1127/1939, art. 23, distingue l'ipotesi di cui al comma 1, secondo cui, quando l'invenzione "è fatta nell'esecuzione o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d'impiego, in cui l'attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita, i diritti derivanti dall'invenzione stessa appartengono al datore di lavoro (la cd. "invenzione di servizio"), da quella di cui al comma 2, in base al quale se non è prevista una retribuzione in compenso della attività inventiva, e l'invenzione è fatta nell'esecuzione o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d'impiego, i diritti derivanti dall'invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all'inventore... spetta un equo premio per la determinazione del quale si terrà conto della importanza dell'invenzione" (cd. "invenzione d'azienda")". A parere della Corte, tale norma si spiega considerando che l'invenzione è realizzata dal dipendente nell'ambito di strutture organizzate dal datore di lavoro e quindi si impone l'esigenza di contemperare due distinti interessi: quello del lavoratore che deve conseguire un concreto riconoscimento del proprio apporto e quello dell'imprenditore volto ad acquisire i risultati di impegni organizzativi e di investimenti economici anche di rilevante entità. Si comprende quindi, secondo la Corte, che, per attuare tale contemperamento, al diritto riconosciuto al datore di lavoro di trarre profitto dall'invenzione (R.D. n. 1127/1939, art. 1) deve corrispondere un sicuro vantaggio per il lavoratore, che si esplica o con l'erogazione di una specifica retribuzione o con l'erogazione di un equo premio, istituti che, pur essendo distinti e diversi hanno entrambi la funzione esclusiva di compensare il risultato inventivo conseguito (v. Cass. 5 novembre 1997, n. 10851).

Detto vantaggio, secondo la Suprema Corte, "può essere già stato previsto dalle parti, ed infatti ove queste si accordino nel senso che oggetto dalla prestazione lavorativa è l'invenzione, la retribuzione pattuita sarà necessariamente compensativa dell'invenzione. In tal caso, il risultato inventivo potrà esservi o meno, ma, laddove si verifichi, la retribuzione stabilita vale già a compensarlo, perché è sinallagmatica di tutte le utilità che potranno scaturire, dal momento che in tal senso si è espressa la volontà dalle parti, onde non vi è spazio per l'ulteriore compenso costituito dall'equo premio.

Diversamente, nell'ipotesi della cd. invenzione d'azienda, la prestazione del dipendente non consiste nel perseguimento di un risultato inventivo, sicché il conseguimento di questo non rientra nell'oggetto dell'attività dovuta, anche se resta pur sempre collegata a questa stessa attività".

Sul punto la Corte di cassazione ha affermato che: "a parte l'ammissibilità, in via di principio, di forme o comunque di voci o componenti retributive legate al risultato, la previsione dell'art. 23, comma 1 rispetto a quella del comma 2, va individuata proprio nel fatto che oggetto del contratto sia l'attività inventiva, cioè il particolare impegno per raggiungere un risultato prefigurato dalle parti, dotato dei requisiti della brevettabilità stabiliti dalla legge, e che, a tale scopo sia prevista una retribuzione" (v., fra le tante, Cass. 21 marzo 2011, n. 6367) e che sia compito del giudice di merito quello di accertare - sulla base della interpretazione del contratto basata sui criteri dettati dall'art. 1362 c.c. - se le parti hanno voluto in effetti pattuire una retribuzione che, sia pure in parte, si collochi come corrispettivo dell'obbligo del dipendente di svolgere un'attività inventiva.

Sul piano delle modalità di svolgimento della attività esegetica, la Corte, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, ha osservato, dunque, che: "l'indagine volta ad accertare l'effettivo dispiegarsi della volontà delle parti, non può operare ex post, quando l'invenzione è stata conseguita, perché con questo criterio si dovrebbe considerare pattuita l'attività inventiva in tutti i casi in cui la prestazione lavorativa abbia dato luogo, comunque, ad un'invenzione, ma secondo un criterio ex ante, sull'effettivo intendimento delle parti, non assumendo al riguardo rilievo la maggiore o minore probabilità che dall'attività lavorativa pattuita, scaturisca l'invenzione, di tal che, ogniqualvolta sia probabile quel risultato, si dovrebbe automaticamente considerare come rientrante nella previsione contrattuale".

Alla luce di tali principi la Suprema Corte ha rigettato le tesi del ricorrente, atteso che i principi cui l'attività ermeneutica in ordine alla definizione dell'assetto negoziale deve essere improntata, secondo un criterio ex ante e non ex post, erano riferiti al rilievo che la maggiore o minore probabilità che dall'attività lavorativa pattuita scaturisse l'invenzione doveva assumere nella ricostruzione dell'intento delle parti, escludendosi che si potesse indagare sulla volontà delle stesse, ex post, quando l'invenzione era stata realizzata (v. ex plurimis, Cass. 4 gennaio 2013, n. 110).




Diritto di sciopero e preavviso

Cass., sez. lav., 20 giugno 2014, n. 14112

Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Matera; Ric. P.S. Coop. Sarl; Contr. F.P. CGIL della provincia di V.

Legge n. 146/1990 - Richiesta delle Oo.Ss. di un incontro per concordare il funzionamento dei servizi minimi essenziali - Necessità del rispetto di un termine - Esclusione

Il termine di preavviso, di cui ai commi 1 e 5, dell'art. 2, legge n. 146/1990, è previsto solo per l'esercizio del diritto di sciopero e non può essere esteso alla diversa ipotesi di richiesta, da parte delle Oo.Ss., di un incontro per concordare il funzionamento dei servizi minimi essenziali.

Nota - La Corte di appello di Milano confermava il decreto emesso dal Tribunale di Busto Arsizio ex art. 28, legge n. 300/1970, per condotta antisindacale, denunciata dalla Funzione pubblica Cgil della provincia di Varese, nei confronti di una società cooperativa per avere quest'ultima rifiutato, in occasione di uno sciopero, di concordare con i rappresentanti della Cgil il funzionamento dei servizi minimi essenziali.

A fondamento della decisione la Corte di merito evidenziava che la legge n. 146/1990, sulla regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali da intendersi, questi ultimi, quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona alla vita, alla salute, alla libertà, alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione - non prevedeva che le Oo.Ss. rispettassero un termine per la richiesta di incontro, in quanto quello previsto dalla legge si riferiva al solo preavviso di sciopero.

Avverso tale statuizione la società propone ricorso per Cassazione, sostenendo che il termine previsto dall'art. 2, commi 1 e 5, legge n. 146/1990, atterrebbe anche alle comunicazioni da effettuarsi al fine di concretare le misure minime previste per l'erogazione dei servizi pubblici essenziali.

Secondo la Suprema Corte la censura è infondata, in quanto il comma 1 dell'art. 2, legge n. 146/1990, dispone che: "nell'ambito dei servizi pubblici essenziali indicati nell'articolo 1 il diritto di sciopero è esercitato nel rispetto di misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità di cui al comma 2 dell'articolo 1, con un preavviso minimo non inferiore a quello previsto nel comma 5 del presente articolo", comma 5, che a sua volta prevede: "il preavviso di cui al comma 1 non può essere inferiore a dici giorni". Dunque, afferma la Corte, dalla lettura combinata dei due commi, si rileva che il predetto termine di preavviso riguarda unicamente l'esercizio del diritto di sciopero e non può essere esteso alla diversa ipotesi di richiesta, da parte delle Oo.Ss., di un incontro per concordare il funzionamento dei servizi minimi essenziali.

Con ulteriore motivo, la società censura la decisione della Corte di appello nella parte in cui non aveva ritenuto rilevante la prova per testi pure articolata dalla società.

Anche tale censura viene ritenuta infondata dalla S.C., in quanto la Corte di appello aveva chiarito che si trattava di questione meramente interpretativa di norme di legge ed, in ogni caso, rilevano i giudici di legittimità, non erano stati trascritti nel ricorso per cassazione, in violazione del principio di autosufficienza, i capitoli di prova di cui si denunciava la mancata ammissione.




Infortunio sul lavoro e concorso di colpa del lavoratore

Cass., sez. lav., 4 giugno 2014, n. 12562

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. C.S. Spa; Res. Inail, A.M.G., C.G., C.F., C.S.M., C.R., C.E., E.L.R. e C.R.C.

Infortunio sul lavoro - Violazione degli obblighi di sicurezza - Responsabilità del datore di lavoro - Comportamento imprudente ma non abnorme del lavoratore - Concorso di colpa del lavoratore - Esclusione

In mancanza di un comportamento abnorme del lavoratore, la violazione degli obblighi di sicurezza assume pregnanza causale, tale da escludere anche l'ipotesi di un mero concorso colposo dell'infortunato.

Nota - La Corte d'appello di Potenza, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di risarcimento del danno formulata dagli eredi di un lavoratore rimasto vittima di un infortunio mortale, allorché, nel tentativo di sbloccaggio del macchinario al quale era addetto, era caduto nella vasca ove si riversava il materiale da trattare.

In particolare, la Corte territoriale evidenziava che gli elementi acquisiti nel corso dell'istruttoria deponevano inequivocabilmente nel senso della responsabilità datoriale, non essendo stati collocati dei parapetti sui lati della vasca, né cartelli di segnalazione del pericolo, ed essendo oltretutto la società a conoscenza della prassi adottata dai lavoratori di svolgere le operazioni di sbloccaggio del materiale nella vasca con la macchina in movimento. Per altro verso, i giudici d'appello evidenziavano che non erano emerse circostanze tali da consentire di imputare al dipendente una responsabilità per aver tenuto un comportamento del tutto esorbitante dalle sue mansioni, assolutamente imprevedibile ed inevitabile, suscettibile quindi di escludere il nesso causale tra inadempimento datoriale ed evento dannoso.

Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per Cassazione, mentre gli eredi del defunto resistevano con controricorso.

La ricorrente, in particolare, rilevava che la ricostruzione della dinamica dell'evento dannoso effettuata dalla Corte territoriale, se poteva ritenersi sufficiente ad escludere il comportamento abnorme ed imprevedibile della vittima, tale da interrompere il nesso causale, non era ugualmente idonea ad escludere un concorso di colpa del lavoratore, il quale aveva eseguito una manovra imprudente e rischiosa, consistita nel non aver fermato l'impianto mentre eseguiva le operazioni di sbloccaggio.

La Suprema Corte ha confermato la decisione, rilevando che la conclamata violazione degli obblighi imposti dall'art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro valeva nella specie ad escludere non solo qualsiasi interruzione del nesso di causalità riconducibile ad un comportamento abnorme del lavoratore, ma anche un suo concorso di colpa.

Infatti, la mancata predisposizione dei presidi antinfortunistici richiesti dalla legge, l'inosservanza anche di più semplici prescrizioni dettate dalla comune esperienza e volte ad evitare il verificarsi di eventi pregiudizievoli, la consapevolezza delle modalità con cui si svolgevano le lavorazioni erano di tale pregnanza causale da escludere ogni ipotesi anche di un mero concorso di colpa del lavoratore, il quale si era attenuto sostanzialmente alle ordinarie modalità di espletamento delle operazioni avallate da parte datoriale, che anche sotto tale profilo era quindi venuta meno ai suoi obblighi di prevenzione.

Rilievi, questi, che confermano l'orientamento in base al quale "In materia di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell'abnormità, dell'imprevedibilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano detti caratteri della condotta del lavoratore, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio che sia conseguenza dell'inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell'obbligo di sicurezza integra l'unico fattore causale dell'evento, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza" (Cass. 4 dicembre 2013, n. 27127).

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©