Contenzioso

Corte di Giustizia Ue: in maternità non si perde il diritto di soggiorno

di Armando Montemarano


Per la Corte di Giustizia Ue, Prima Sezione, 19 giugno 2014, C-507/12, l'articolo 45 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) deve essere interpretato nel senso che una donna, che smetta di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto, conserva la qualità di «lavoratore», anche ai fini dell'esercizio del diritto di soggiorno in uno Stato membro diverso da quello di cui è cittadina, purché riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita del figlio.
L'art. 7 della direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004 prevede, tra l'altro, che ciascun cittadino dell'Unione ha il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, a condizione di essere lavoratore subordinato o autonomo nello Stato ospitante; la qualità di lavoratore si conserva anche se temporaneamente la persona resti inabile al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio ovvero se, in talune ipotesi, sia disoccupato o segua un corso di formazione professionale. La disposizione non prevede espressamente il caso di limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza o al periodo successivo al parto. E lo stato di gravidanza, secondo la giurisprudenza della Corte, non è di certo assimilabile ad uno stato patologico (Corte Giust. Ue, 14 luglio 1994, C 32/93).
L'art. 45 TFUE proclama che la libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata e che essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. La disposizione accoglie una nozione così estensiva di «lavoratore», da avere indotto da tempo la Corte a ritenere che i diritti che il Trattato fa derivare da tale qualità non dipendono necessariamente dall'esistenza, o dall'effettiva prosecuzione, di un rapporto di lavoro (Corte Giust. Ue 21 giugno 1988, C-39/86).
Questa misura interpretativa ha indotto ora la stessa Corte ad affermare che l'art. 7 della direttiva in questione non elenca in maniera esaustiva tutte le circostanze nelle quali un lavoratore migrante, che non sia più parte di un rapporto di lavoro, possa tuttavia continuare a beneficiare dello stato di lavoratore. Nella specie, prosegue la sentenza, le limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo immediatamente successivo al parto, che costringano una donna a cessare di esercitare un'attività subordinata durante il periodo necessario al suo ristabilimento, non sono idonee a privarla della qualità di «lavoratore», purché riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un termine ragionevole dopo il parto, in modo da attestare che sia restata presente sul mercato del lavoro.
I giudici del Lussemburgo rimettono al giudice nazionale il compito di determinare se il periodo intercorso tra il parto e la ripresa del lavoro possa essere considerato «ragionevole», tenendo conto di tutte le circostanze del caso specifico e delle norme nazionali che disciplinano la durata del congedo di maternità.
Un'indicazione può essere tratta in via analogica, aggiunge la Corte, anche dal diritto dell'Unione: l'art. 16, par. 3, della stessa direttiva 2004/38 prevede infatti - seppure ai diversi fini del calcolo del periodo ininterrotto di cinque anni di soggiorno nel territorio dello Stato membro ospitante, che consente ai cittadini dell'Unione di acquisire il diritto di soggiorno permanente in tale territorio - che la continuità della residenza non è pregiudicata da un'assenza di non oltre dodici mesi consecutivi, se dovuta a motivi rilevanti, quali gravidanza e maternità.

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