Contenzioso

La Cassazione interviene su recesso ad nutum ed età pensionabile

di Monica Scalabrino


La Corte di Cassazione, sez. lav., 20 marzo 2014, n. 6537, torna ad occuparsi dell'interpretazione ed applicazione della L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 4, comma 2, in base al quale, la disciplina di cui all'art. 18 St. Lav., non si applica ai prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi del D. L. 22 dicembre 1981, n. 791, art. 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 1982, n. 54. Pur in mancanza dell'esplicito riferimento alla pensione di vecchiaia, contenuto invece nella precedente disposizione della Legge 15 luglio 1966, n. 604, articolo 11, a dire degli Ermellini, argomenti testuali e sistematici inducono a ritenere che nessun mutamento ha subito il principio per cui è soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia che incide sul regime del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro il recesso ad nutum.
Con riguardo agli argomenti testuali, (cfr Cass. n. 3907/1999, n. 7853/2002, n. 3237/2003), la salvezza dell'ipotesi dell'esercizio dell'opzione per la prosecuzione del rapporto lascia agevolmente comprendere che il riferimento è ai requisiti del pensionamento per vecchiaia, poiché solo in presenza di detti requisiti, il lavoratore ha l'onere di impedire la cessazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro, entro un termine di decadenza che decorre appunto con riferimento alla data del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, comunicando la sua decisione di continuare a prestare la sua opera sino al raggiungimento dell'anzianità contributiva massima utile, ovvero per incrementare tale anzianità fino al compimento del sessantacinquesimo anno di età (D. L. n. 791 del 1981, art. 6, conv., con L. n. 54 del 1982; L. 29 dicembre 1990, n. 407, art. 6; D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 421, art. 1, comma 2).
In ordine alle conseguenze del licenziamento irrogato, quindi, la Cassazione riconferma il principio consolidato per cui il licenziamento illegittimo non interrompe il rapporto di lavoro, incidendo solo sulla funzionalità di fatto della prestazione e lasciando inalterata la continuità del vinculum iuris che la sentenza ripristina ex tunc (cfr. fra le altre: Cass. n. 2756/96, n 15621/2001, n 3487/2003). Pertanto, nel caso in cui sia accertata l'illegittimità del licenziamento, la quantificazione del danno subito dal lavoratore deve essere effettuata, tenendosi conto, come normale parametro, della retribuzione che egli avrebbe percepito qualora non fosse stato licenziato e, quindi, di quella riferibile al periodo compreso fra la data dell'invalido recesso e quello della reintegrazione ovvero della sentenza di annullamento. La Corte, dunque, riafferma che "nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l'insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l'emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro Legge 20 maggio 1970, n. 300, ex articolo 18, (che ha il valore di un accertamento che il rapporto è continuato inalterato e che sono operative le rispettive reciproche obbligazioni), mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di un valido (e diverso) atto di recesso (Cass. n. 3754 del 20 marzo 1995), che ben può essere emanato anche nelle more del giudizio" (cfr. Cass. n 1908/1998 nonché Cass. n. 1462/2012 circa l'illegittimità della limitazione del risarcimento ex articolo 18 Stat. Lav. fino al compimento del 65 anno di età).

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©